Amministrazione locale

Dora Noyes (Harrow, Middlesex, 1864 – Sutton Veny, Wiltshire 1960), Scalone del palazzo degli Este (ora Municipale), 1904; china e acquerello su cartoncino, mm 361 x 277; Londra, collezione privata Dora Noyes (Harrow, Middlesex, 1864 – Sutton Veny, Wiltshire 1960), Scalone del palazzo degli Este (ora Municipale), 1904; china e acquerello su cartoncino, mm 361 x 277; Londra, collezione privata Tratto dal volume: I disegni ritrovati di Dora Noyes, a cura di Giacomo Savioli, Ferrara, Corbo, 1996, Tav. XI

Nel 1802, con il definitivo insediamento del potere napoleonico in Italia, gli ordinamenti locali – il cui particolarismo era sopravvissuto anche alle prime esperienze repubblicano–democratiche del Triennio – subirono radicali modifiche in direzione di un’organizzazione uniforme e accentratrice che lasciava poco spazio alla libera autonomia dei Comuni o del voto popolare. Come altrove, anche nel Ferrarese la struttura amministrativa in cui era stato suddiviso il territorio negli anni della Repubblica Cisalpina, il Dipartimento, perse il suo carattere di Circoscrizione provinciale a sé stante, vivente di vita propria, come ai tempi della Cisalpina, per assumere le vesti e le funzioni di una Circoscrizione del governo; anche il Dipartimento del Basso Po perse così parte dell’autonomia che l’aveva caratterizzato negli anni 1796-1799, divenendo un organo sotto il costante controllo del potere centrale. Rispetto agli anni della Cisalpina, l’organizzazione del potere locale fu riformata con il decreto del vice presidente della Repubblica Italiana Francesco Melzi d’Eril del 16 maggio del 1802 che introduceva anche in Italia, sul modello francese, la figura del prefetto di nomina governativa posto a capo dei Dipartimenti e dotato di amplissimi poteri. Successivamente, in senso ulteriormente autoritario e centralistico, intervenne il decreto napoleonico dell’8 giugno 1805 che sancì, tra le altre cose, la nomina regia di tutti i funzionari. Il territorio continuò ad essere suddiviso, dal punto di vista amministrativo, in Dipartimenti (sottoposti all’autorità del prefetto), Distretti (guidati da un vice prefetto), Cantoni (con alla testa un giudice di pace) e Comuni (guidati da un podestà), ma per la prima volta, con il decreto del 1805, fu data all’amministrazione del territorio una completa uniformità di leggi ordinamenti, strutture. Il Dipartimento ferrarese del Basso Po, che secondo il censimento del 1810 contava una popolazione di 257.534 unità, fu quindi organizzato nei 3 Distretti di Ferrara, Comacchio e Rovigo, in 12 Cantoni (ben 6 nel solo distretto ferrarese) e in 103 Comuni. Alla sola Ferrara spettava il rango di Comune di prima classe, ovvero con più di 10.000 abitanti; 8 erano i Comuni di seconda classe, mentre nettamente prevalenti, ben 94 (il 91%) erano i Comuni di terza classe, un dato che evidenzia il carattere spiccatamente rurale della popolazione del dipartimento ferrarese.

Restaurato il potere pontificio, il 15 luglio 1815 il segretario di Stato cardinal Ercole Consalvi, emanava l’editto che istitutiva un governo provvisorio per le Province, come Ferrara, cosiddette di “seconda ricupera” e stabiliva il nuovo ordinamento amministrativo cui tali Province sarebbero state sottoposte. Il governo era affidato a congregazioni residenti nei capoluoghi delle rispettive Province, ognuna delle quali composta da un prelato, che la presiedeva, coadiuvato da quattro membri e da un assessore, aventi però voto puramente consultivo. Se il sistema giuridico francese veniva cancellato, l’impianto complessivo dato dal regime napoleonico all’organizzazione territoriale-amministrativa del Regno d’Italia, caratterizzato da un marcato centralismo, veniva di fatto conservato nelle sue linee essenziali. Questa generale opera di riorganizzazione trovò la sua formulazione legislativa nel motuproprio del 6 luglio 1816 che rappresentò l’unificazione legislativa ed amministrativa dello Stato pontificio, organizzato in 17 Delegazioni di tre classi diverse; quelle di prima classe, come Ferrara, erano rette da un cardinale e denominate Legazioni. Ogni Delegazione era suddivisa in Governi – 11 nella Provincia di Ferrara – e ogni governo in Comuni – 48 nel caso ferrarese. I governatori, che come i delegati erano di nomina esclusivamente romana, esercitavano le proprie attribuzioni sotto il controllo dei delegati, ma a differenza di questi ultimi non dovevano essere obbligatoriamente degli ecclesiastici. Al delegato, figura paragonabile a quella del prefetto napoleonico, era affidata la direzione e la sorveglianza «di tutti gli atti di governo e di pubblica amministrazione». Numerose le norme che riguardavano l’amministrazione delle comunità minori. In ogni Comune era istituito un Consiglio – la cui nomina era riservata al delegato – all’interno del quale potevano sedere solo proprietari terrieri, commercianti e «uomini di lettere» ­– e una magistratura, che rappresentava l’organo esecutivo del Comune, retta da un gonfaloniere e da sei anziani, tutti nominati dal delegato. La stretta intransigente portata avanti da Leone XII portò il 5 ottobre del 1824 ad un nuovo motuproprio riguardante la struttura amministrativa dello Stato. Le più significative modifiche riguardavano la composizione dei Consigli comunali: la carica di consigliere diveniva ereditaria, si mirava a creare in ogni comunità una casta chiusa cui fosse affidata in maniera definitiva l’amministrazione locale. Con questa organizzazione amministrativa lo Stato pontificio, superato il travagliato biennio 1848-1849, sarebbe giunto sino al suo definitivo crollo nel settembre del 1859.

Al momento dell’unificazione, il nuovo Stato faceva propria nella sua struttura amministrativa complessiva gran parte dell’eredità napoleonica che in filigrana – seppur con cambiamenti di rilievo – era stata mantenuta anche negli anni della restaurazione pontificia. Con la legge n. 2248 del 20 marzo 1865 fu disegnato l’ordinamento provinciale e comunale del nuovo Regno, organizzato in Province, Circondari, Mandamenti e Comuni. La provincia di Ferrara fu suddivisa in 3 circondari (Ferrara, Cento e Comacchio), 8 Mandamenti (Argenta, Copparo, Portomaggiore, Bondeno, Poggio Renatico, Crevalcore, Finale, Codigoro) e 16 Comuni (Cento, Poggio Renatico, Sant’Agostino – che comprendeva Mirabello –, Comacchio, Lagosanto, Massa Fiscaglia, Mesola – che comprendeva Goro –, Migliarino – che comprendeva Migliaro –, Argenta, Bondeno, Copparo – che comprendeva Berra e Jolanda di Savoia –, Ferrara – che comprendeva Vigarano Mainarda –, Formignana – che comprendeva Tresigallo –, Ostellato, Portomaggiore – che comprendeva Masi Torello e Voghiera –, Ro).

A capo della provincia era posto il prefetto, di nomina ministeriale, coadiuvato da un Consiglio di prefettura composto da tre funzionari, mentre un vice prefetto era alla guida dei Circondari. In ogni Comune i cittadini con diritto di voto eleggevano il Consiglio comunale con un numero di consiglieri rapportato alla popolazione (40 nel caso di Ferrara) e che eleggeva nel suo seno i membri della giunta municipale. Il sindaco, in carica per tre anni, era nominato dal re, su proposta del prefetto, e scelto tra i consiglieri comunali. La legge istituiva inoltre il Consiglio provinciale e la Deputazione provinciale. Quest’ultima rappresentava l’organo esecutivo della Provincia (e deputati provinciali erano detti i suoi membri) ed era investita anche di funzioni di controllo sulle amministrazioni comunali. La Deputazione provinciale era eletta dal Consiglio provinciale, ma presieduta e convocata dal prefetto coadiuvato da un numero di consiglieri provinciali variabile a seconda della popolazione della provincia, 6 nel caso ferrarese. Quanto al Consiglio provinciale, esso rappresentava, con quello comunale, l’altro organo elettivo dell’amministrazione locale (l’elezione dei due organi avveniva con le stesse regole elettorali e nella medesima tornata). Considerando l’intero periodo 1860-1914, la situazione ferrarese ben esemplifica il ruolo di cinghia di trasmissione tra i circuiti politici locali e quelli nazionali – e di sovrapposizione tra gli stessi – che quest’organo rappresentava, se si pensa che sui 241 consiglieri provinciali eletti nel cinquantennio considerato, ben 24 risultarono anche eletti alla Camera o nominati al Senato, quali, solo per nominarne alcuni, Giorgio Turbiglio, Severino Sani, Giovanni Gattelli, Elio Melli, Stefano Gatti Casazza.

Le riforme amministrative introdotte nel periodo crispino, in particolare la legge 30 dicembre 1888 n. 5865 e il successivo T.U. del 10 febbraio 1889, introdussero alcuni significativi cambiamenti nell’assetto dell’amministrazione locale: la tutela, ossia il controllo di merito sugli atti delle amministrazioni locali, fu trasferito dalla Deputazione provinciale a un organo di nuova istituzione, la Giunta provinciale amministrativa, presieduta dal prefetto e composta da due consiglieri di prefettura e da quattro membri effettivi eletti dal Consiglio provinciale. Le riforme crispine condussero inoltre all’elettività dei presidenti delle Deputazioni provinciali e dei sindaci dei capoluoghi di Provincia o di Circondario che avessero popolazione superiore ai 10.000 abitanti (elettività estesa ai sindaci di tutti i Comuni con la legge del 22 luglio 1896 n. 346).

L’elettorato amministrativo previsto inizialmente dalla legge del 1865 era basato su un criterio misto di censo e capacità: era riconosciuto ai maschi di 21 anni che godessero dei diritti civili e pagassero da almeno sei mesi, nel Comune di residenza, un contributo diretto che variava a seconda della popolazione, nonché a professori universitari e maestri autorizzati ad insegnare nelle scuole pubbliche, membri delle Accademie, procuratori, notai, ragionieri, liquidatori, geometri, farmacisti, veterinari, sensali e agenti di cambio. Sino alla riforma elettorale del 1882, e considerando il dato aggregato a livello nazionale, tali criteri resero in media gli elettori amministrativi il doppio di quelli politici. Le riforme crispine sopra citate introdussero per l’elettorato amministrativo un nuovo sistema nel quale la capacità prevalse sul censo, portando nuovamente ad un sorpasso nel numero degli elettori amministravi rispetto a quelli politici. Nella provincia di Ferrara, alle elezioni amministrative generali del 1889, gli elettori politici erano 19.230 mentre quelli amministrativi erano 22.081, la maggior parte dei quali, il 55%, godeva del diritto di voto per capacità. Quanto al profilo socio-economico dei consiglieri comunali e provinciali, per tutto il primo quarantennio postunitario, all’interno dei due organi prevalse nettamente la componente legata alle classe genericamente definibile dei possidenti. Nel 1891, ad esempio, sui 415 consiglieri comunali eletti in tutti i 16 Comuni della provincia di Ferrara, 219 (il 53%) risultavano «proprietari, capitalisti, benestanti», 29 «avvocati, procuratori o dottori in legge», 22 «professori, maestri, dottori in lettere, pubblicisti», 15 «impiegati privati», 10 «fattori ed agenti di campagna». Specchio della componente legata alla proprietà fondiaria era anche la composizione dell’organo provinciale, tra i cui 40 membri, nel 1889, il 47,1% era composto da possidenti. Tale situazione sarebbe mutata solo successivamente all’introduzione del suffragio universale del 1912.

IP, 2011

Bibliografia

Carlo Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino, Utet, 1886; Elio Lodolini, L’amministrazione periferica e locale nello Stato pontificio dopo la Restaurazione, «Ferrara viva», 1, 1959, pp. 5- 32; Aurelio Alaimo, La città assediata. Amministrazione comunale e finanze locali a Ferrara all’inizio del secolo (1900-1915), in Il governo della città nell’età giolittiana, a cura di Cesare Mozzarelli, Trento, Reverdito, 1992; Luigi Davide Mantovani, Amministrazione ed elezioni comunali a Comacchio (1860-1919), in Storia di Comacchio, a cura di Aldo Berselli, vol. I, Ferrara, Este Edition 2002, pp. 333-410; Michele Nani, Per un profilo del consiglio provinciale: appunti sul secondo Ottocento (1860-1914), in Terra di Provincia, a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Amministrazione provinciale di Ferrara, 2003.

 

 

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