Boari

Prima pagina del contratto di boaria del 1908 (Ferrara, tip. Ferrariola) Prima pagina del contratto di boaria del 1908 (Ferrara, tip. Ferrariola) collezione privata

Sin dal XVIII secolo l’economia rurale ferrarese presentava caratteri che la differenziavano rispetto alle zone vicine dell’Emilia e della Romagna. Pietro Niccolini, deputato liberale ferrarese, approntò una celebre classificazione dei terreni ferraresi sulla base dell’unità colturale e del sistema di conduzione. A parte le “terre nuove”, emerse grazie alle bonifiche del tardo Ottocento, Niccolini distingueva tre aree:

le “terre vecchie” (comprendenti i Comuni di Ferrara, Voghiera, Masi Torello, Vigarano Mainarda e Mirabello, e parzialmente i Comuni di Bondeno, Portomaggiore, Ro, Formignana, Tresigallo, Migliarino e Ostellato), ove si era diffusa la conduzione a boaria;

il “confine bolognese”, con zone che subivano l’influenza del sistema agricolo bolognese (compreso totalmente nei Comuni di Sant’Agostino e Poggiorenatico, e parzialmente in quelli di Argenta e Cento), dove si era stabilita la mezzadria, sia per la minore estensione dei terreni, sia per la mancanza dei prati, necessari nella boaria;

il “Centese”, con le sue partecipanze, una sorta di proprietà collettiva.

Tradizionalmente nelle terre “alte”, più fertili e sicure dalle alluvioni, da tempi remoti si era stabilita la mezzadria, in quelle “basse”, terre paludose e meno fertili, chi accettava di coltivare un terreno lo faceva solo per un salario certo e dunque si era stabilita la boaria.

L’estensione dello specifico sistema di conduzione in economia che fa capo al patto colonico di boaria, era da ricondursi, almeno in parte, alla maggiore ampiezza dell’unità colturale tipica della boaria ferrarese, il “versuro”, rispetto alle dimensioni medie del podere mezzadrile. Il versuro aveva infatti quasi sempre una superficie tra i 25 e i 30 ettari: in rapporto alla coltura intensiva era da considerare come un’unità colturale di media grandezza e non poteva essere confuso con il latifondo. Secondo lo stesso Niccolini non si poteva datare con esattezza l’origine di questa unità colturale, ma l’etimologia riportava senz’altro all’epoca romana. Il vocabolo ferrarese “varsur” proveniva dal latino “vertere”, che significava “girare, voltare” e alludeva quindi alla funzione dell’aratro, che era quella di voltare e rivoltare la terra. La ragione originaria dell’ampiezza del versuro andava ricercata soprattutto nella composizione del tiro, cioè nella quantità di animali usata per l’aratura dei terreni, che subì un aumento tra il Settecento e l’Ottocento, e dunque nella natura dei terreni.

La boaria rappresentava un contratto ibrido, fra la colonia parziaria e di prestazione d’opera salariata, mentre non si poteva considerare come contratto di società, perché era al padrone che spettavano la direzione e il conferimento dei capitali d’esercizio. Il contratto agrario che faceva capo a questo sistema di conduzione agricola vincolava il boaro e la sua famiglia per un anno nei confronti del proprietario del fondo e prevedeva un salario in natura o in contanti. Per contro, il boaro non pagava l’affitto per l’alloggio, il porcile, il pollaio e l’orto, che doveva riconsegnare integri al proprietario alla scadenza del contratto. Il boaro aveva inoltre l’obbligo non solo di occuparsi del bestiame, ma anche di preparare nel modo dovuto tutte le terre della possessione ed eseguire qualunque lavoro nei tempi stabiliti dal padrone.

Per quanto riguarda la composizione del versuro, di solito un ettaro era occupato dalla casa, dall’aia e dal vivaio, cinque ettari erano adibiti a pascolo e prato per gli animali, una decina di ettari servivano per l’arativo alberato e vitato, e i restanti ettari venivano coltivati a canapa, frumento, fagioli, ecc. In ogni boaria si poteva trovare un cortile erboso, dove si raccoglievano diverse costruzioni: l’abitazione o le abitazioni; la stalla e il fienile; il forno e i porcili, definiti “bassi comodi”. Di solito al piano terreno si trovavano le due cucine e al piano superiore le stanze per dormire, ma i due alloggi erano quasi sempre drasticamente divisi da un muro. In seguito le due case saranno completamente disgiunte.

La famiglia colonica media che lavorava sul versuro era nel XIX secolo composta di 10-12 individui, così distribuiti: tre uomini attivi, tre donne (le mogli) e due ragazzi; i restanti erano bambini. In maniera più specifica, sul versuro lavoravano: un boaro, addetto alle bestie e ai lavori da compiersi con esse; due bragliani, incaricati della potatura di viti ed alberi, della semina e mietitura del frumento, della lavorazione della canapa, ecc.; una casalinga, che era anche la reggitrice della casa; due contadine assegnate alla zappatura per il granturco; due ragazzi: il boarolo, che custodiva e guidava al pascolo gli animali, il vaccarolo, che aveva in cura mucche e vitelli. Le restanti mansioni erano invece a carico del proprietario. Altri lavori, come l’escavo di cavedagne, l’escavo dei fossi, la concimazione, la cura degli attrezzi, non erano a carico dei boari, ma venivano fatti svolgere da altri lavoratori. Accanto al boaro infatti lavoravano sul versuro i castaldi, braccianti salariati che vivevano sul fondo e avevano un contratto annuale. Il proprietario si impegnava a dar loro occupazione e di concedere loro la raccolta o la lavorazione di certi prodotti, corrispondendo poi un compenso in natura, in forma di quota percentuale del prodotto stesso. Boari e castaldi erano definiti “obbligati”, in quanto avevano col proprietario impegni reciproci prestabiliti. Sul versuro, tuttavia, lavoravano anche braccianti avventizi, che vivevano in case in affitto, concentrate nel borgo o sparse in campagna, e non avevano impegni lavorativi precisi (erano quindi “disobbligati”), ma contrattavano di volta in volta il prezzo del loro lavoro.

Il sistema di conduzione della boaria presentava caratteristiche che lo rendevano diverso dalla mezzadria. A differenza del mezzadro o dell’affittuario, che avevano tutta o parte dell’iniziativa e della responsabilità nella conduzione dell’azienda e dei rischi che ne derivavano, il boaro era il semplice esecutore degli ordini del padrone, che gli garantiva il lavoro per l’intera annata e quindi un guadagno in generi e in denaro, assicurando così la sopravvivenza della sua famiglia e dei coresidenti. Il mezzadro invece, guadagnava se l’annata era buona, ma se era cattiva poteva anche riempirsi di debiti. Con il contratto di boaria il proprietario si assicurava una maggiore indipendenza di iniziative e un potere decisionale assoluto (che non aveva nel regime mezzadrile), ma anche la possibilità di creare vaste unità aziendali con manodopera sostanzialmente salariata. A differenza del mezzadro, dunque, il boaro non godeva di alcuna autonomia, perché il proprietario conduceva quasi sempre direttamente la propria azienda, ma aveva maggiori sicurezze di lavoro. Alcuni autori, come Alessandro Roveri, sostengono la tesi secondo cui la boaria sarebbe nata come forma meno evoluta della mezzadria, come contratto colonico depauperato e asfittico, derivato non dallo slancio ma dalla decadenza produttiva. Altri autori, invece, come lo stesso Niccolini, rivalutarono l’importanza storica della boaria nel Ferrarese, senza giudicarla una forma di conduzione più arretrata rispetto alla mezzadria. Infatti il contratto di boaria ha permesso al colono ferrarese non solo di vivere senza privazione del necessario, ma anche in alcuni casi di accumulare denaro. Inoltre esistono dei progressi fatti registrare proprio dalla boaria: l’incremento della canapicoltura, l’impiego combinato dell’aratro e della vanga, l’estendersi della baulatura dei campi (che permetteva di facilitare lo scolo delle acque), l’aumento della superficie dei terreni alberati e vitati.

Quando iniziarono i lavori di bonifica e molte terre passarono sotto il controllo di grandi aziende capitalistiche, la condizione dei boari si fece critica. Inseriti in ampie tenute, il boaro e la sua famiglia non avevano più la sicurezza di un’occupazione continua ed erano ancor più sottomessi all’autorità del fattore. Inoltre, per effetto della crescita demografica, della crisi agraria e della razionalizzazione delle aziende, molti boari divennero braccianti avventizi e le loro condizioni di vita peggiorarono. Non sorprende che a fine secolo i boari si siano schierati a fianco delle lotte bracciantili. I primi grandi scioperi agrari del 1897 e del 1901 comportarono la fine del carattere paternalistico del patto di boaria: segnarono infatti il tracollo di una secolare tradizione di intese orali e imposero finalmente l’adozione dei contratti scritti particolareggiati. Inoltre i nuovi patti, come ad esempio quelli di Portomaggiore e Tresigallo, furono per la prima volta discussi da una rappresentanza dei proprietari e da una rappresentanza dei lavoratori.

RP - GT, 2011

Bibliografia

Pietro Niccolini, La questione agraria nella provincia di Ferrara. Il versuro, la boaria, le partecipanze, i latifondi, gli scioperi, la disoccupazione, Ferrara, Bresciani, 1907; Mario Zucchini, L’agricoltura ferrarese attraverso i secoli. Lineamenti storici, Roma, Volpe, 1967; Alessandro Roveri, Dal sindacalismo rivoluzionario al fascismo. Capitalismo agrario e socialismo nel Ferrarese (1870-1920), Firenze, La Nuova Italia, 1972; Franco Cazzola, Il paesaggio agrario emiliano, in L’Emilia Romagna, a cura di Franca Cantelli e Giuseppe Guglielmi, Milano, Teti, 1974; Id., L’evoluzione contrattuale nelle campagne ferraresi del Cinquecento e le origini del patto di boaria, in Il rinascimento nelle corti padane: società e cultura, Bari, De Donato, 1977.

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