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Nobili

Il palazzo Massari su corso Porta Mare. In primo piano la “palazzina bianca” che fu sede dei Cavalieri di Malta Il palazzo Massari su corso Porta Mare. In primo piano la “palazzina bianca” che fu sede dei Cavalieri di Malta cartolina inizio Novecento, collezione privata

«Coloro che avevano i ritratti dei loro antenati si chiamavano nobili; coloro che avevano i propri ritratti furono chiamati uomini nuovi; e coloro che non ne avevano alcuno, gente ignobile»: con queste parole si apre la definizione del lemma Noble, nobile, nell’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert (volume del 1765). Nobiltà “di nascita” e nobiltà “di denaro”, dunque, che tra la metà del Settecento e il 1815 perdette, in Europa, circa un terzo dei propri componenti. A Ferrara, ancora alla fine del Settecento, un centinaio di famiglie controllava più di un terzo delle complessive proprietà fondiarie, immerse in un immobilismo che i ceti borghesi emergenti delle campagne cercavano di scuotere, nel tentativo di svolgere nella vita cittadina il proprio ruolo politico, ancora soffocato dal sistema aristocratico e dal potere pontificio.

Un brusco cambiamento travolse il Ferrarese nel giugno 1796 con l’arrivo dei francesi, anzi, dei «Rapitori Francesi», come scriveva il marchese Cesare Lucchesini – originario di Lucca e vissuto a Ferrara, proprietario della vasta tenuta di Guarda Ferrarese – in alcuni suoi appunti sui primi giorni di ‘invasione’, giudicata un «castigo dalla Mano Celeste». Tra gli sconvolgimenti sociali, politici, economici e culturali portati da Napoleone, un ruolo importante giocò l’abolizione delle corporazioni religiose, provocando un massiccio trasferimento di beni immobili e fondiari dalla Chiesa alla borghesia, mediante la confisca e la vendita pubblica – piuttosto frettolosa e a basso prezzo – di quei possedimenti che erano patrimonio degli enti religiosi. Aboliti i diritti feudali della nobiltà, fu impiantato un sistema politico-finanziario per il quale la terra – dati i differenti rapporti in ordine alla proprietà – divenne una merce di scambio, «merce tra le merci», scrive Franco Cazzola, alla quale potevano avere accesso i nuovi gruppi sociali arricchiti dagli appalti, dalle professioni, dalle attività agricole e commerciali. Ma la nobiltà dell’ancien régime «per quanto mascherata dietro l’apparentemente egualitario appellativo di “cittadino”, non si lasciò sfuggire le occasioni di cospicui aumenti della massa patrimoniale» acquistando i beni della Chiesa divenuti “nazionali”.

Sintomatica per il Ferrarese è la vicenda della famiglia Massari (in seguito conti di nomina pontificia), il cui proverbiale patrimonio affonda le radici proprio in età napoleonica, con l’acquisto del 18 aprile 1799 comprendente diversi beni fondiari del Ferrarese provenienti dalle proprietà di monasteri soppressi, oltre alle terre di Voghiera e Voghenza (con fabbricati e mobili) già della Mensa arcivescovile di Ferrara. Per fare solo un altro esempio, i veneziani marchesi Revedin comperarono nel 1808 le terre conquistate con una delle prime bonifiche estensi che formavano la tenuta della Sammartina, una parte della quale (i “prati Revedin”) venne poi acquistata dal Comune di Ferrara nel 1911 per costruirvi un hangar dove custodire i dirigibili.

Parte dell’aristocrazia ferrarese rimase a guardare il succedersi degli eventi dalle proprie villeggiature di campagna, al centro dei feudi disseminati nel Ferrarese e nella Transpadana, altri ebbero una parte attiva nella politica contemporanea, adattandosi, pur con qualche contraddittorio, ai cambi di governo, ma, in generale, i protagonisti della scena cittadina nella prima metà dell’Ottocento rimanevano i rappresentanti delle famiglie aristocratiche sopravissute alla decadenza (Calcagnini, Costabili, Strozzi, Trotti...) – nei cui salotti si alternavano incontri mondani a riunioni con patrioti e cospiratori contro l’Austria –, insieme a quelli di famiglie di fortuna più recente (Bonaccioli, Camerini, Fioravanti, Gulinelli, Massari, Nagliati, Ortolani, Pareschi, Pavanelli…).

Tra i complessi problemi portati dal contesto politico e amministrativo che seguì l’unità nazionale, emersero le differenze di personalità di coloro che si erano fatti promotori degli avvenimenti, spesso limitandosi a caldeggiare iniziative provenienti dall’esterno. Il consenso dei ceti più elevati al movimento risorgimentale derivava anche dalla convinzione che il governo precedente non fosse più in grado di accontentare, sul piano economico, le esigenze di una società “moderna”: era più conveniente, secondo il loro punto di vista, affidarsi a un sistema costituzionale non solo garante della libertà, ma capace di tutelare i loro interessi. In sintesi, la rivoluzione liberale poteva ancora assicurare la posizione privilegiata dei grandi proprietari terrieri – fossero nobili o alto-borghesi – senza pretendere l’impegno in nuove iniziative imprenditoriali che avrebbero richiesto abilità specifiche, implicando i rischi del libero mercato e, soprattutto, la mobilità di capitali che metteva sul piatto sia la possibilità di grosse fortune, sia le incognite di pesanti perdite. In questa situazione si andavano spegnendo l’intraprendenza e l’attivismo – seppur contenuti – che avevano distinto la prima metà del secolo, espressi in forme diverse e a volte improvvisate. Vale la pena ricordare la partecipazione di giovani delle “prime famiglie” ferraresi alle cospirazioni contro l’Austria del 1821, ai moti rivoluzionari del 1831 e del 1848, anno in cui da un’idea del marchese Tancredi Trotti Mosti si formò anche il corpo di volontari “Bersaglieri del Po” (di cui fecero parte il conte Gherardo Prosperi e il conte Carlo Aventi, morto nella battaglia di Cornuda durante la prima guerra di indipendenza), mentre un Canonici, uno Strozzi e un Trotti nel 1849 furono tra i volontari ostaggi del Comando austriaco e a Ugo Bassi tornavano utili l’amicizia e l’ospitalità dei conti Giglioli ai fini della rivolta.

Dieci dei quaranta convocati per la sessione straordinaria del Consiglio provinciale del 21 giugno 1860, erano nobiluomini: i conti Francesco Aventi, Cleto Gnoli, Giovanni Gulinelli, Francesco e Scipione Magnoni, Francesco Massari, Tancredi Mosti, Gherardo Prosperi, i marchesi Giovanni Costabili e Rodolfo Varano; ne faranno parte in seguito anche esponenti della Casa Giglioli. La loro ricchezza proveniva prevalentemente dalle proprietà fondiarie, che nel giro di un quindicennio conobbero altri proprietari: la statica geografia delle terre e della loro gestione mutò con l’avvicinarsi della stagione delle grandi bonifiche (1870-1885) nel Ferrarese orientale, impresa nella quale numerosi nobili e possidenti videro un immediato vantaggio nella vendita delle proprie terre e valli, soprattutto dopo la disastrosa rotta del Po del 18 maggio 1872. I nobili Bentivoglio, Giglioli, Graziadei, Gulinelli, Saracco, Varano vendettero ampie estensioni a quelle società italiane e straniere che intrapresero la bonifica del Polesine di Ferrara.

Tra le «qualità pregevoli» della nobiltà – come scriveva Leone Carpi dopo aver tracciato un quadro sulla «mollezza» dell’aristocrazia – erano «l’indole di una generosa beneficenza», la fedeltà alla parola data, il sentimento dell’onore. Oltre ad aiutare chiese, orfani, poveri e ammalati – nel 1880 il duca Galeazzo Massari Zavaglia con altri benefattori fondò una società di aiuto ai pellagrosi –, diversi nobili ferraresi si mobilitarono in occasione della tremenda epidemia di colera del 1855, mettendo a disposizione locali delle loro residenze come fecero, per esempio, i marchesi Tassoni, nel cui antico palazzo rimase aperto per 80 giorni un asilo. La filantropia, la beneficenza come solidarietà sociale fu uno dei canoni per le “nobilitazioni” ottocentesche, atto imprescindibile tra le pieghe di un supremazia sociale paternalistica. Anche nel tempo ormai conclusivo della propria vicenda, sempre meno stretta nell’endogamia di ceto quindi più aperta verso la borghesia (spesso mediante abili strategie matrimoniali), l’aristocrazia ferrarese rimase sulla scena economica, politica e culturale adeguandosi, fin dove possibile, alle esigenze della “modernità”.

Per evitare appropriazioni indebite nel mantenimento dei titoli nobiliari esistenti negli Stati preunitari, con regio decreto n. 313 del 10 ottobre 1869 veniva istituita la Consulta Araldica del Regno, con il compito di dare pareri al governo in materia di titoli nobiliari, araldica, pubbliche onorificenze e di tenere un registro dei titoli nobiliari nel quale era fatto obbligo di iscriversi per avere diritto alla pubblica attribuzione del titolo. Le famiglie interessate, dopo aver completato la prevista procedura amministrativa, poterono essere censite nel Libro d’oro della nobiltà italiana ufficializzato nel 1910, dove erano riunite le famiglie elencate nel Libro d’oro della Consulta Araldica del Regno d’Italia e quelle comprese negli Elenchi Ufficiali Nobiliari (aggiornati negli anni seguenti).

Con l’avvio dei lavori della Consulta Araldica, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, nonostante i problemi e le divisioni che coinvolgevano la nobiltà italiana, si moltiplicarono iniziative e studi, dati alle stampe da istituti specializzati, sulla genealogia e sull’araldica. Nei primi anni della «Rivista Araldica», fondata nel 1903 dal conte pontificio Ferruccio Pasini Frassoni, tra i rappresentanti del Collegio araldico c’erano solo due non romani: un nobile napoletano e il ferrarese Carlo Guido Bentivoglio. A differenza dei titoli nobiliari, assegnati con moderazione, nell’Italia unita le onorificenze cavalleresche erano conferite con grande liberalità, e se il ceto nobile aveva imboccato la strada del declino, continuava a rivestire un grande prestigio il Sovrano Militare Ordine di Malta di San Giovanni di Gerusalemme, istituzione sovranazionale e sovrana che prescriveva per l’ammissione dei “cavalieri di giustizia” la prova dei quattro quarti di nobiltà. Per otto anni, dal 1826 al 1834, la palazzina detta dei Cavalieri di Malta di corso Porta Mare – tra il palazzo e il parco Massari – fu sede dell’Ordine fondato nel XII secolo.

AG, 2011

Bibliografia

Leone Carpi, L’Italia vivente. Aristocrazia di nascita e del denaro. Borghesia, Clero, Burocrazia. Studi sociali, Milano, Vallardi, 1878; Franco Cazzola, La bonifica del Polesine di Ferrara dall’età estense al 1885, in La grande impresa degli Estensi, Ferrara, Consorzio di Bonifica 1° Circondario Polesine di Ferrara, 1991, pp. 223-224; Luciano Chiappini, Introduzione a Ferrara nell’Ottocento, Roma, Editalia, 1994, pp. 9-44: 18-35; Gian Carlo Jocteau, Nobili e nobiltà nell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1997; Angela Ghinato, Le terre del duca. La famiglia Massari nel territorio di Voghiera, «Atti e Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, s. IV, vol. XXI, 2012.

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