In passato, vaste aree del territorio ferrarese prospiciente la costa erano caratterizzate dalla presenza di boschi – almeno quattro quasi contigui – che rappresentavano il residuo di più ampie foreste, già notevolmente ridotte dal XVII secolo in avanti. Nel corso del XIX secolo, l’aumentata pressione antropica, oltre ad accrescere il fabbisogno di terreni agricoli, fu causa di uno sfruttamento sempre più intensivo del legname: la conseguenza di questi fattori aumentò drasticamente il disboscamento, portando, nell’arco di pochi decenni, alla quasi totale cancellazione delle antiche foreste.
Percorrendo la regione litoranea da nord verso sud, si incontravano, innanzitutto, il Bosco della Mesola e il Bosco Giliola. Il primo, racchiuso anticamente da un muro di cinta lungo quasi 12 km, rappresentava l’antico parco di caccia dei duchi d’Este. Esso rimase in sostanza intatto fino all’inizio dell’Ottocento, quando lo sfruttamento del legname e l’estensione delle superfici coltivate a suo danno divennero sempre più intensivi. Si trattava di un bosco caratterizzato da diverse essenze: nella parte più prossima alle dune costiere predominavano gli arbusti e il pino marittimo, mentre nell’area più interna il bosco era costituito da lecci, olmi e frassini. La fauna del bosco annoverava numerosi esemplari di cervi e daini che potevano trovare sostentamento grazie alla presenza di una fitta macchia di arbusti (soprattutto biancospino, ginepro, ligustro). Nel 1858 esso ricopriva ancora oltre 2.200 ettari che, entro la fine del secolo, si sarebbero ridotti a poco più di 1.500. I primi tentativi di proteggere il bosco furono avanzati già sul finire dell’Ottocento, attraverso la proibizione delle servitù di pascolo che minacciavano la sopravvivenza delle specie vegetali. Fu però soltanto con il passaggio della tenuta sotto il controllo della Società per la Bonifica dei Terreni Ferraresi, nel 1919, che si optò per una serie di normative volte alla ricostruzione del patrimonio boschivo.
L’odierna area forestale protetta, denominata Bosco della Mesola e che si estende per circa 1.000 ettari, tende a coincidere piuttosto con l'antico Bosco Gigliola: esso sorgeva a sud del Bosco Mesola "storico" ed era costituito quasi interamente da lecci, da cui la denominazione, spesso riportato anche come Ellissiola. Oggi il toponimo sopravvive soltanto nel nome del piccolo nucleo abitato situato a nord-ovest del Bosco della Mesola.
Nella zona di Pomposa, inoltre, la cartografia ottocentesca riportava ancora il toponimo Bosco Spada, sopravvissuto fino alla metà del Novecento e compreso fra Pomposa stessa, la frazione di Caprile e la strada per Codigoro. Questa zona boschiva, caratterizzata dalla presenza prevalente di latifoglie e pini, era in realtà il residuo dell’antico Bosco di Pomposa che, fino all’epoca medievale, ricopriva probabilmente buona parte dell’area compresa fra il Po di Goro e quello di Volano.
Fra la bocca di Volano e quella di Magnavacca (Porto Garibaldi) sopravviveva ancora il Bosco Eliceo (chiamato anche Eliseo, ad esempio nella carta di Giuseppe Boerio, Dipartimento del Basso Po, 1802) che doveva il suo nome alla presenza quasi esclusiva del leccio. Esso aveva un’estensione di circa 5.000 ettari, sviluppandosi, da nord a sud, per 24 km, con una larghezza di circa 4 e occupando quasi per intero il cordone litoraneo compreso fra il Po di Volano, Magnavacca, le valli di Comacchio e il mare. La sua distruzione era iniziata alla fine del Seicento, quando iniziò la messa a coltura di quell’area, mentre il legname veniva utilizzato soprattutto nella costruzione degli approdi portuali. I comacchiesi, inoltre, ritenevano che la presenza del bosco impedisse ai venti marini di purificare l’aria delle Valli dalle esalazioni della palude. Nel XIX secolo il bosco, seppur notevolmente ridotto, sopravviveva ancora: la sua esistenza era tuttavia sempre più minacciata, soprattutto dagli anni Trenta dell'Ottocento, dall’estensione della viticoltura e degli orti che trovavano ottime condizioni di prosperità grazie alla presenza di terreni sabbiosi. Il vigneto, in particolare, serviva alla produzione del vino detto del bosco, ed è ancora oggi in parte visibile nella zona di Pomposa. L’economia agraria di questa regione, in realtà, si giocava su di un equilibrio piuttosto precario, continuamente minacciato dalle rotte dei fiumi. L’alluvione del Po del 1872, ad esempio, provocò l’allagamento di buona parte del bosco causando la morte di numerosi vigneti.
Il tratto più meridionale della costa, a sud di Magnavacca, risultava invece quasi privo di copertura arborea: sebbene la cartografia riporti la presenza di alberi (ad esempio la già citata carta di Giuseppe Boerio), nelle descrizioni dell’epoca l’area appariva desolata, caratterizzata da modeste alberature, mentre dominavano sabbia e sterpaglie che tuttavia permettevano il pascolo degli animali. Pertanto, essa appariva in netto contratto rispetto ai boschi di lecci posti a settentrione e alle pinete del Ravennate, a sud.
All’inizio del XX secolo, essendo il Bosco Eliceo quasi scomparso e sostituito dai vigneti, il lido compreso fra il Volano e il Primaro appariva piuttosto spoglio. Le pinete litoranee che caratterizzano oggi questa porzione della costa (in particolare la pineta del Lido di Volano e quella del Lido degli Estensi, seppur notevolmente ridotte in seguito all’espansione degli insediamenti turistici negli anni 1960) sono dunque il risultato di un rimboschimento artificiale compiuto a partire dagli anni Trenta del Novecento, quando, per iniziativa governativa, furono piantumati giovani alberi di pino domestico e pino marittimo che, nel volgere di alcuni decenni, restituirono al litorale un’elevata valenza forestale ed ambientale.
Nel resto della pianura la presenza di aree boschive era piuttosto limitata, essendo circoscritta ai piccoli boschi presenti nelle aree golenali del Po. Faceva eccezione la Foresta Panfilia, un bosco di circa 60 ettari situato a sud di Sant’Agostino e compreso fra il vecchio e il nuovo argine del Reno. Il bosco, che rappresenta ancora oggi uno dei rari esempi superstiti di foresta planiziale nella pianura padana, si era formato in seguito ad un’alluvione del Reno avvenuta nel 1700 ed era caratterizzato dalla presenza prevalente di salici, olmi, querce e pioppi. Proprio il pioppo e l’olmo, del resto, rappresentavano le essenze più diffuse nel territorio ferrarese: secondo un’indagine condotta al principio degli anni Venti del Novecento, che considerava anche le alberature allineate lungo i campi coltivati, essi rappresentavano i due terzi del patrimonio arboreo della provincia.
MP, 2011
Bibliografia
Luigi Costantini, Monografia del tenimento della Mesola, Bergamo, Istituto di Arti Grafiche, 1907; Mario Ortolani, La pianura ferrarese. Memorie di geografia economica, Napoli, Tip. R. Pironti, 1954; Carlo Cencini, I boschi della fascia costiera emiliano-romagnola, in Ricerche geografiche sulle pianure orientali dell’Emilia Romagna, a cura di Bruno Menegatti, Bologna, Pàtron, 1979; Storia di Comacchio nell’età contemporanea, a cura di Aldo Berselli, Ferrara, Este Edition, 2002.