Critica letteraria e d'arte

Ludovico Lipparini (Bologna 1800 – Venezia 1856), Ritratto del Conte Leopoldo Cicognara, 1831/32; olio su tela, cm 73 x 58; Ferrara, Museo dell’Ottocento Ludovico Lipparini (Bologna 1800 – Venezia 1856), Ritratto del Conte Leopoldo Cicognara, 1831/32; olio su tela, cm 73 x 58; Ferrara, Museo dell’Ottocento

Lo scarso rilievo delle facoltà umanistiche e l'assenza di un’accademia fece sì che chi avesse voluto esercitare in modo professionale la critica letteraria o artistica a Ferrara nell’Ottocento avrebbe dovuto necessariamente allontanarsi dalla città. Si verificò dunque una situazione analoga a quella riguardante l’attività letteraria, caratterizzata dalla presenza in città di dilettanti di diverso valore e dall’estendersi oltre le mura di una trama di relazioni fra intellettuali ferraresi espatriati.

Il secolo era cominciato nel migliore dei modi, essendo nato a Ferrara uno dei maggiori storici dell’arte della sua epoca: il conte Leopoldo Cicognara (1767-1834). Dopo aver tenuto importanti cariche politiche in epoca napoleonica, nel 1808 rassegnò le dimissioni da consigliere di Stato del Regno d’Italia per trasferirsi a Venezia e dedicarsi completamente allo studio e al nuovo incarico di presidente dell’Accademia marciana. In tale ruolo Cicognara, da seguace dell’Illuminismo, fu un convinto assertore della funzione civile dell’educazione artistica e dell’arte stessa e si oppose all’opera di normalizzazione perseguita dal governo asburgico durante la Restaurazione. Primo frutto dei suoi studi teorici fu il trattato Del bello (Firenze-Pisa 1808), nel quale, combinando suggestioni sensiste con l’estetica di Kant e gli scritti storici di Mengs, elaborò una teoria del bello ideale aderente a quella di Winckelmann ed esemplificata sulle opere del fraterno amico Canova. Con la Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al XIX secolo (Venezia 1813-1818; 2.a ed.: Prato 1823), condotta sotto la supervisione di Pietro Giordani e concepita come completamento dei volumi di Winckelmann sull’arte greco-romana e di Seroux d’Agincourt sui monumenti medievali, Cicognara diede il primo esempio di storia dell’arte italiana intesa non più, vasarianamente, come biografia d’artista ma come storia dello stile in relazione alle vicende politiche della nazione. Notevole nell’opera è anche la precoce comprensione dell’arte romanica e l’apprezzamento degli scultori del Tre e del Quattrocento, che fanno di Cicognara un protagonista della riscoperta dei primitivi. Grande fu l’influenza nella città natale del pensiero e delle opere di Cicognara, fra le quali vanno ricordate almeno Le Fabbriche più cospicue di Venezia…, Venezia 1815-20; il Catalogo ragionato de’ libri d’arte e di antichità, Pisa 1821; la Biografia di Antonio Canova, Venezia 1823. Accogliendo all’Accademia di Venezia e indirizzando alla scuola romana di Canova i più promettenti pittori e scultori ferraresi e mantenendo una supervisione sulle maggiori imprese artistiche, Cicognara orientò la politica culturale cittadina agli ideali e alle forme del neoclassicismo (vedi Architettura e scultura, Pittura). Terminata l’epopea napoleonica, l’attività veneziana di Cicognara ispirò l’opera di salvaguardia del patrimonio artistico municipale resasi necessaria in seguito alle soppressioni degli istituti religiosi.

Anche in epoca di Restaurazione Ferrara ebbe con Camillo Laderchi (1800-1867) una figura di levatura non provinciale, capace di mantenere contatti con il movimento romantico italiano ed europeo. Nato a Bologna da una famiglia di aristocratici giacobini romagnoli, Laderchi giunse a Ferrara in catene per essere rinchiuso assieme al padre nella fortezza pontificia in quanto affiliato alla carboneria e alla massoneria e implicato nei moti del 1820. Graziato, intraprese una fortunata carriera di avvocato e docente universitario di diritto spostandosi su posizioni neoguelfe e moderate. Fu amico personale di Manzoni e corrispondente di alcune delle maggiori figure del cattolicesimo liberale, fra le quali Rosmini e Montalembert. Membro della locale Commissione di belle arti e della Deputazione di storia patria, pubblicò diversi studi storici e giuridici e curò un’edizione annotata delle Memorie per servire alla storia di Ferrara di Antonio Frizzi (Ferrara 1847-50). Con la Descrizione della quadreria Costabili (Ferrara 1838-41) si dimostrò buon conoscitore d’arte e partecipò alla riscoperta della scuola quattrocentesca ferrarese (Sopra i dipinti del palazzo di Schifanoia in Ferrara, Bologna 1840), della quale esaltò le radici cristiane nel saggio critico La pittura ferrarese: memorie (Ferrara 1857) scritto sotto l’influenza delle teorie misticheggianti di Alexis-François Rio. Il medesimo afflato religioso portò Laderchi a prediligere, fra gli artisti a lui contemporanei, i puristi e i nazareni tedeschi (Sulla vita e sulle opere di Federico Overbeck, Roma 1848). In campo letterario, notevoli furono i suoi scritti su Manzoni: la disquisizione storico-giuridica Sulla Colonna infame, Gubbio 1843; la traduzione annotata della biografia dello scrittore pubblicata da Sainte-Beuve, Ferrara 1846; il breve trattato Sulle dottrine di Alessandro Manzoni intorno al romanzo storico, Ferrara 1853, con cui Laderchi difese lo storicismo romantico e le teorie letterarie dell’autore dei Promessi sposi. Portando Manzoni come modello del poeta patriota religiosamente ispirato (va in tal senso ricordato un appassionato commento alle odi civili del poeta milanese, pubblicato sulla «Gazzetta Ferrarese» nel cruciale 1848) Laderchi fu in campo letterario il più eminente esponente cittadino della scuola di pensiero cattolica liberale, contrapposta – secondo la distinzione operata da De Sanctis – a quella democratica, che faceva invece riferimento al classicismo di Foscolo nell’interpretazione datane da Mazzini.

Questa tensione civile nel dibattito letterario venne meno dopo l’Unità d’Italia, quando la critica tese a ridursi a esercizio di retorica patriottica. Ma nel moltiplicarsi di occasioni celebrative, neppure le manifestazioni per i centenari della nascita di Ariosto nel 1875 e della morte di Tasso nel 1895 riuscirono a varcare i ristretti confini della provincia per assurgere a una dimensione nazionale. In una città che, a quanto pare, leggeva poco e in cui librerie e biblioteche erano deserte, la società letteraria frequentava soprattutto i teatri. Nel primo ventennio dopo l’unificazione furono soprattutto le cronache teatrali a vivacizzare le pagine culturali dei giornali cittadini e ad ampliarne gli angusti orizzonti culturali nell’ultimo quarto di secolo. Ne sono esempio le recensioni inviate da Milano da due critici ferraresi lì trasferiti: Alessandro Fiaschi (1858-1917) e Luigi Primo Levi (1853-1917). Il primo – che fu anche critico letterario per giornali fiorentini e milanesi, drammaturgo e saggista – possedeva una conoscenza non superficiale del teatro e della letteratura francese, parteggiò per i veristi nella polemica che li vedeva contrapposti agli idealisti e mostrò un vivo interesse per tutti i generi teatrali: dall’opera lirica al vaudeville, dal dramma storico al melodramma e alla commedia leggera.

Levi, che si firmava con lo pseudonimo di “L’Italico”, fu figura di rilievo nazionale: frequentò giovane l’ambiente della scapigliatura milanese ed esordì con un saggio “bibliografico-sociale” su Carlo Dossi (Milano 1873); nel 1878 diresse il giornale milanese «La Riforma», per poi collaborare in qualità di critico letterario e d’arte a riviste come «La Nuova Antologia» e «La Rivista d’Italia» e all’autorevole quotidiano romano «La Tribuna». Fu vicino al simbolismo idealizzante di Previati e Pellizza da Volpedo, pubblicò una fondamentale monografia su Domenico Morelli (Roma-Torino 1906) e diversi altri saggi di critica letteraria, artistica e musicale (L’arte a Torino, Roma 1880-81; Un secolo d’arte italiana, Roma 1897; Paesaggi e figure musicali, Milano 1913).

In dialogo a distanza con L’Italico fu Ottorino Novi (1858-1936), tipica figura di intellettuale di provincia che, pur continuando a risiedere nella cittadina natia, si tiene al corrente di quanto avviene nei maggiori centri culturali e, corrispondendo con importanti testate nazionali così come con la stampa locale, svolge una funzione di aggiornamento culturale. Autore di romanzi accolti favorevolmente dalla critica cittadina, collaboratore della raffinata rivista romana «Critica bizantina» (1881-86), poi di periodici di larga diffusione come il mensile del «Corriere della Sera» «La Lettura», Novi pubblicò un ambizioso opuscolo su Il simbolismo nell’arte (La Spezia 1900) e auspicò la rinascita in Italia di un’arte di popolo, sinceramente democratica, di cui individuava i prodromi nella pittura di Giovanni Segantini e del concittadino Giuseppe Mentessi, capaci di operare una sintesi fra gli estremi del realismo brutale e del simbolismo astratto.

Uscì spesso dal suo dorato esilio fiorentino per mantenere contatti con la città natale anche Domenico Tumiati (1874-1943). Formatosi sulle teorie di Ruskin e Morris e influenzato dall’idealismo di Angelo Conti, Tumiati fu sodale di Segantini, Previati e Pellizza da Volpedo. Come collaboratore di «Emporium» e del «Marzocco» e corrispondente occasionale da Parigi del «Resto del Carlino» recensì le Biennali veneziane e altre esposizioni d’ arte contemporanea. Contrario al contenutismo della scuola “mistica” di Rio, enunciò i principi della sua “critica d’arte pura” nel saggio su Frate Angelico (Firenze 1897): «Risalire all’Idea formale per la scala delle linee e dei toni, ecco il metodo che deve scoprire l’intima sostanza e la radice etnica onde sorse».

Nel medesimo alveo dell’idealismo antipositivista di fine secolo si svolse l’attività critica del bondenese Ezio Flori (1877-1953), che si dichiarava seguace dello hegeliano Angelo Camillo De Meis. Insegnante di lettere all’Istituto Cattaneo di Milano, Flori scrisse diversi saggi su Foscolo e Dante e collaborò con numerose riviste letterarie nazionali (Saggi di critica estetica, Milano 1900; Cronache letterarie (1900-1907), Milano 1907; Note di varia letteratura, Milano 1909).

Nel primo Novecento l’ambiente culturale cittadino, dominato da figure istituzionali come il carducciano Giuseppe Agnelli e il deputato Pietro Niccolini, fu vivacizzato dagli interventi, spesso polemici, di Ferruccio Luppis (1880-1959), multiforme figura di esteta – critico, pittore, fotografo, autore di prose d’arte – fondamentalmente ancorato al simbolismo e al decadentismo di fine secolo, e di Nino Barbantini (1884-1952), il quale, dopo aver compiuto studi giuridici, nel 1907 si trasferì a Venezia per dirigere la Fondazione Bevilaqua La Masa. Nella galleria di Ca’ Pesaro Barbantini inaugurò una decennale attività espositiva d’avanguardia, che rifiutando il gusto dominante alle Biennali e, all’opposto, sostenendo il Futurismo, le arti industriali e giovani artisti quali Gino Rossi, Arturo Martini e Felice Casorati, non ebbe paralleli nell’ambito delle istituzioni pubbliche italiane dell’epoca.

MT, 2011

Bibliografia

Gian Domenico Romanelli, voce Cicognara, Leopoldo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 25, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, pp. 419-28; Corrado Govoni e l’ambiente letterario ferrarese del primo Novecento, Atti del convegno promosso dall’Accademia delle Scienze di Ferrara, 18 settembre 1984 [s.d., s.l.]; Amerigo Baruffaldi, Neoguelfismo ferrarese: istanze cattolico-liberali nella vita e nell’opera di Camillo Laderchi (1800-1867), «Ferrara. Voci di una città», 7, 1997, pp. 77-79; Oscar Ghesini, La Gazzetta ferrarese: percorsi critico-letterari (1848-1899), Ferrara, Liberty house, 1999; Walter Moretti, “Compagnoni, Monti, Leopardi e Manzoni”, in Da Dante a Bassani: studi sulla tradizione letteraria ferrarese e altro, Firenze, Le lettere, 2002, pp. 101-153.

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