Già docente di Lettere e funzionario dell’Ufficio Studi del Provveditorato agli Studi di Ferrara è attualmente Direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara.
Ha al suo attivo l’organizzazione di numerosi convegni, seminari, corsi di formazione e aggiornamento sui temi di storia contemporanea.Ha pubblicato oltre cinquanta testi, fra monografie, saggi e curatele di pubblicazioni relative alla storia e alla didattica. Si occupa fra l’altro del rapporto fra cinema e storia e ha realizzato diversi lavori in video.
Il mondo della scuola e dell’istruzione non rimase estraneo ai cambiamenti sociali portati dall’invasione napoleonica. Per creare “nuovi” cittadini si doveva innanzitutto “istruire” il popolo – non solo adulto – rendendolo partecipe dei benefici della democrazia e combattendo l’analfabetismo.
Nel Piano generale di pubblica istruzione della Repubblica Cisalpina (1797) venivano evidenziati, al proposito, alcuni princìpi-base: l’istruzione pubblica e universale aveva come unico referente lo Stato, che doveva fornirla direttamente o comunque indirizzarla e vigilarla; la scuola primaria doveva essere gratuita e di orientamento aconfessionale. Sia l’istruzione primaria – affidata ai Fratelli delle scuole cristiane –, sia quella secondaria – assegnata ai Somaschi o ad altri Ordini presenti sul territorio che già si erano occupati dell’educazione dei giovani – erano controllate da funzionari statali pagati dal governo della Repubblica ed eletti dalle Municipalità.
La scuola primaria prevedeva l’insegnamento della lettura, della scrittura e del calcolo (leggere, scrivere e far di conto); una volta la settimana si impartivano lezioni sulla Costituzione, sulla morale e sulla religione. La dovevano frequentare tutti i bambini senza distinzione di censo; terminato questo primo ciclo, gli allievi seguivano strade diverse secondo il loro stato sociale: per chi era destinato ai lavori manuali era sufficiente l’istruzione data dalla scuola primaria, mentre chi proveniva da classi benestanti, in previsione di ruoli importanti da occupare nella società, accedeva alle scuole secondarie per completare la formazione. Il curriculum della scuola secondaria contemplava l’insegnamento della lingua italiana e del latino (questa materia, però, “d’una maniera da non perdervi tanto tempo”), della storia sacra e profana, della storia patria, dell’eloquenza e della poesia, della Costituzione. Accanto alle materie tradizionali assumevano nuova importanza gli esercizi ginnici, che tonificando le forze fondevano il “vigor fisico e morale” indispensabili in “una Repubblica di uomini liberi e soldati”.
Terminate le scuole pubbliche, i giovani benestanti potevano intraprendere un corso di studi universitario o la carriera ecclesiastica frequentando il Seminario, anche questo controllato rigorosamente da funzionari statali.
Nel 1811 presero avvio le “scuole normali” per Ferrara e per i suoi borghi, con un proprio calendario, propri obiettivi e programmi di istruzione primaria. Il primo Regolamento porta la data del 1825: indicava norme per i maestri (titolari dell’apposita patente), sulla consistenza delle classi – o meglio pluriclassi, come scrive Savioli, poiché arrivavano anche a 112 allievi – sulla disciplina (inflessibile e non immune da pesanti punizioni), sui locali, tutto sotto il diretto controllo ecclesiastico. In seguito la normativa venne rifinita da un editto del cardinale Ignazio Cadolini (1843) e ancora modificata dall’arcivescovo Luigi Vannicelli Casoni (1852).
Nel 1861 a Ferrara gli analfabeti erano il 78%.
La prima legge che tentò di combattere l’analfabetismo fu il regio decreto legislativo n. 3725 del 13 novembre 1859 emanato da Vittorio Emanuele II re di Sardegna, in vigore nel 1860 e, in seguito all’unificazione, esteso a tutta l’Italia. La legge – che prendeva il nome dal ministro della Pubblica Istruzione Gabrio Casati e considerata da Inzerillo l’atto ufficiale di nascita della scuola italiana – terminò il suo processo di estensione a tutto il Regno nel 1862, riformando completamente l’ordinamento scolastico e mettendo in luce la volontà dello Stato di farsi carico dell’istruzione a fianco e in sostituzione della Chiesa che da secoli ne era l’unica depositaria. La legge disponeva l’istruzione elementare divisa in due anni di “inferiore” (gratuita) e due di “superiore”. Comuni e frazioni con almeno 50 bambini avviavano una scuola sostenuta economicamente dai Comuni stessi, che per la maggior parte non riuscivano a sostenerne il carico, lasciando di fatto la normativa in parte inapplicata e riaprendo la strada al conflitto tra lo Stato e la Chiesa, dal momento che le scuole private confessionali non potevano competere con la scuola pubblica gratuita. Non era previsto l’obbligo di frequenza, che arrivò solo nel 1877 con la legge n. 3961 presentata dal ministro Michele Coppino.
Nel frattempo il Consiglio superiore di Pubblica Istruzione aveva chiuso nel 1864 l’Istituto scolastico di Pieve di Cento retto dagli Scolopi (per fatti “di natura corrotta e corruttrice” imputati a due chierici) e nel 1865 il Seminario vescovile di Comacchio (perché, tra altro, il rettore aveva rifiutato la visita all’istituto del provveditore agli studi, non riconoscendo “altra autorità che l’ecclesiastica”).
Nella già citata legge Coppino del 15 luglio 1877, la durata della scuola elementare veniva portata a 5 anni, con l’obbligo di frequenza per il primo triennio; altre novità della legge si riferivano alle penalità stabilite per gli inadempienti (genitori e studenti) e alle materie di studio. I programmi del 1860, infatti, oltre alla lingua italiana e all’aritmetica, fissavano per le classi II, III e IV, elementi dei diritti e dei doveri dell’uomo, di storia, geografia, scienze e religione che, con la legge Coppino, venne sostituita da nozioni di diritti e doveri dell’uomo e del cittadino, dando adito ad una lunga discussione tra le amministrazioni e la Santa Sede sulla scia della questione della laicità dello Stato. In proposito, il Regolamento generale dell’istruzione elementare (1908) mise un po’ di ordine nella normativa, stabilendo che se l’insegnamento religioso non fosse attivato dai Comuni venisse impartito dietro richiesta dei padri di famiglia. L’ispirazione laica dei nuovi programmi legati alla normativa Coppino e dovuti al pedagogista Aristide Gabelli – emanati con R.D. 25 settembre 1888 – tesi a contrastare l’“imparare a memoria” in favore dell’osservazione diretta, dell’esperienza, della capacità di “fare”, furono ridimensionati dai programmi Baccelli (1894), che, con un passo indietro, privilegiavano una scuola che guardava “più al passato che al futuro”, nella convinzione che “le trasformazioni industriali” potessero “mettere in crisi valori, idee, costumi e tradizioni”. Accanto alla lingua italiana e alla storia compariva l’insegnamento, per le fanciulle, di “lavori donneschi”. Ancora nei primi anni del Novecento i dibattiti intorno al tema dell’istruzione dei giovani portarono a diversi progetti di legge, discussi e approvati ma spesso non realizzati. La materia rappresentava uno dei nodi legislativi da sciogliere: dalla nomina e dal licenziamento dei maestri all’equiparazione degli stipendi e alla nascita di direzioni didattiche nel Comuni con popolazione non inferiore ai 10.000 abitanti (legge Nasi, 19 febbraio 1903); dall’obbligo scolastico fino ai 12 anni, con l’aggiunta della VI classe che, insieme alla V già esistente andava a formare il cosiddetto “corso popolare” per la preparazione al lavoro, ai corsi serali e festivi per gli analfabeti (legge Orlando, 8 luglio 1904).
Prima della costruzione degli edifici scolastici, che segnarono i profili urbani generalmente a partire dagli anni Dieci del Novecento, le scuole primarie erano di norma ospitate in abitazioni private in condizioni spesso difficili. Valga per tutte una descrizione riportata dal perito Pietro Colla che il 13 marzo 1862 visitava le “scuole” di Formignana per un sopralluogo di stima. L’“aula” si trovava nella casa di Giuseppe Poli: una camera a piano terra, depressa ed umida, con sollajo basso con due piccole finestre e senza camino; c’erano, di cattivo stato, due banche con sedile, quattro banche semplici e palancate lunghe. Il successivo 4 settembre la scuola fu trasferita presso la casa di tale Sabi, dotata di nuove banche n. 4, armadio, cartelloni, crocefisso, ritratto, calamaj Maestro, calamaj di piombo n. 12, ma mancante ancora di segiola, tavola, palotoliere e lavagna.
Le scuole serali per adulti, poi, rappresentarono un passo importante nella battaglia contro l’analfabetismo nella provincia ferrarese. Se quelle maschili erano già operative nel territorio grazie allo stimolo della Società Operaia di Mutuo Soccorso, nel 1870 aprirono in città le scuole serali per le donne adulte, ancora emarginate dal processo di alfabetizzazione iniziato con l’unità nazionale. L’iniziativa fu molto seguita, tanto che anno dopo anno i corsi continuarono ad essere attivati con un numero sempre crescente di frequentanti.
Le scuole secondarie potevano essere di indirizzo “classico” – cinque anni di ginnasio e tre di liceo, basato su una cultura letteraria e filosofica – e “moderno” – scuole tecniche di durata triennale dopo le elementari e istituti tecnici quadriennali –. A Ferrara erano attivi il Regio Liceo, le Scuole Tecniche “Teodoro Bonati” e l’Istituto Tecnico “Vincenzo Monti” (con sede nell’edificio dell’attuale Tribunale); in provincia la Scuola Tecnica Comunale di Bondeno fu aperta nel 1913, mentre a Cento operava un ginnasio semi-privato.
Il Regio Liceo Statale – in via Borgo dei Leoni, edificio oggi sede del Tribunale – aprì i battenti a Ferrara il 3 dicembre 1860 per 7 professori e 35 studenti, per arrivare, ai primi anni del Novecento, a tre classi e circa 70 studenti. Fu intitolato a Ludovico Ariosto nel 1865 e vi venne aggregato nel 1909 il ginnasio, prima gestito dai Gesuiti sotto il controllo pontificio, poi Ginnasio Comunale pareggiato “Torquato Tasso”.
Importante fu il ruolo giocato dalla Camera di Commercio che, secondo la legge, poteva erogare fondi per l’istruzione, oltre all’assegnazione di borse di studio: il 20 dicembre 1905 nasceva la scuola serale pratica di commercio “Cesare Pirani” (presidente della Camera di Commercio autore della proposta) con lo scopo di formare chi voleva avviarsi al commercio o alle professioni collegate. Per l’ammissione i requisiti erano: aver compiuto i 14 anni, sottoporsi a un esame scritto e orale di italiano e matematica; versare una tassa annua di 5 lire. Le lezioni ebbero inizio il 12 febbraio 1906 in un’aula presso la scuola elementare “Umberto I” messa a disposizione dal Comune, con un programma che prevedeva l’insegnamento di italiano, francese, istituzioni di commercio, geografia commerciale, computisteria, calligrafia. Nello stesso 1906 la Camera promosse un corso gratuito di tedesco e finanziò due borse di studio.
Bibliografia
Anna Quarzi, Alcuni appunti sui progetti e sui contenuti nella scuola ferrarese nel periodo napoleonico, in Ferrara. Riflessi di una rivoluzione, a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Corbo, 1989, pp. 168-175; Giorgio Mantovani, Leopoldo Santini, La Camera di Commercio e l’istruzione professionale, «La Pianura», 1, 2007, pp. 63-69; Angela Ghinato, Il paesaggio, le emergenze, i borghi, la gente: percorsi sul territorio storico, in Gente di terra e di acque. Il Comune di Formignana nel Centenario della fondazione 1909-2009, a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Nuove Carte, 2009, pp. 14-15; Giuseppe Inzerillo, Storia della politica scolastica in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1974; Percorsi di alfabetizzazione tra il Polesine e Ferrara dall’’800 a oggi, mostra documentaria e ciclo di conferenze (Archivio storico comunale di Ferrara, ottobre-novembre 2011).