Franco Cazzola si è laureato in Economia e Commercio presso l’Università di Bologna nel 1965 con una tesi dal titolo L'Annona e il commercio dei grani a Ferrara dal 1580 al 1650, diretta da Luigi Dal Pane. Dopo aver beneficiato di una borsa del CNR e del Ministero della Pubblica Istruzione, nel 1974 è stato incaricato della docenza di storia economica presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Bologna.
Dal 1985 è professore associato di storia moderna e inquadrato come professore di storia economica sempre presso la stessa facoltà. Insegna ugualmente storia economica anche presso i corsi di laurea in Geografia e in Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo bolognese. Ha inoltre insegnato storia economica presso la Facoltà di Economia dell’ateneo ferrarese dal 1999-2000 al 2004-2005. Ha aderito, dalla fondazione, al Dipartimento di Discipline storiche dell'Università di Bologna, nel cui ambito riveste attualmente la carica di responsabile scientifico del Centro “Luigi Dal Pane” per la storia economica e sociale dell'Emilia Romagna e di responsabile scientifico della biblioteca.
Dal 1986 intrattiene contatti e scambi con università spagnole (Valencia, Córdoba, Barcelona, Girona, Madrid). È stato responsabile e coordinatore di progetti nazionali riguardanti l’agricoltura e società rurale in Italia nel contesto dell'Europa mediterranea, e le politiche ambientali e politiche del territorio. Ha rivestito la carica di presidente (1996-2000) del Comitato scientifico dell'Istituto "Alcide Cervi" e di condirettore (1985-2000) degli "Annali dell'Istituto Alcide Cervi".Dal 1999 è presidente della Deputazione Ferrarese di Storia Patria.
Fra le sue pubblicazioni ricordiamo: la cura di Ugo Caleffini, Croniche 1471-1494, Ferrara, Deputazione provinciale ferrarese di storia patria 2006; La città, il principe, i contadini. Ricerche sull'economia ferrarese del Rinascimento, Ferrara, Gabriele Corbo 2003; L'Italia contadina, Roma, Editori Riuniti 2000; Storia delle campagne padane dall'Ottocento ad oggi, Milano, Bruno Mondadori 1996; Lo sviluppo del capitalismo italiano (1860-1914) , Firenze, La Nuova Italia 1977; La proprietà terriera nel Polesine di S. Giorgio di Ferrara nel secolo XVI , Milano, Giuffrè 1970.
Da ultimo: El campesinado italiano y la tierra: reflexiones sobre una cuestión secular, in Sombras del progreso. Las huellas de la historia agraria: Ramon Garrabou, Barcelona, Crítica 2010; Il Po, in Le calamità ambientali nel tardo medioevo europeo: realtà, percezioni, reazioni, Firenze, Firenze University Press, 2010; Waters and Land Reclamations in the Po Plain (Italy). An Outline (15th-20th Centuries), in Land Reclamations: Geo-Historical Issues in a global Perspective, Bologna, Pàtron 2010.
La secolare attività svolta dai Consorzi di bonifica operanti nel Ferrarese si può vedere come il frutto di un lungo ed impegnativo processo di composizione politica di interessi e volontà diverse dei proprietari terrieri ferraresi. La difesa dalle alluvioni del Po e degli altri fiumi e la creazione e manutenzione di una fitta rete di scolo hanno imposto una cosciente regolazione unitaria di quella “solidarietà idraulica” che ha sempre legato le terre più alte alle terre soggiacenti. Tutti i territori più depressi del Ferrarese orientale, ricoperti per gran parte da acque dolci o salate hanno sempre svolto la importantissima funzione di recapito delle acque di scolo dei terreni di antica sistemazione idraulico-agraria. Si pensi alle grandi valli di Ambrogio, contenute dal lungo e antico argine Brazzolo a difesa del Polesine di Ferrara. Verso la depressione di Ambrogio affluivano le acque scolanti dal bacino superiore del Polesine di Casaglia e, attraverso i brazzoli, anche le acque delle terre vecchie situate ad est della città di Ferrara. Analoga funzione di scolo ha avuto il vastissimo bacino del Mezzano, un tempo recipiente per le acque dolci scolanti dal Polesine di San Giorgio e difeso, fino al XVII secolo, dall’argine del Mantello contro l’intrusione delle acque salse delle retrostanti lagune comacchiesi.
L’attività di bonifica nel Ferrarese, sotto l’azione dei consorzi privati, non si è limitata ad assicurare alle terre già sistemate e messe a coltura una rete scolante sempre più efficiente. A partire dalla seconda metà del secolo XIX essa si è rivolta sempre più alla conquista di nuova terra coltivabile riducendo progressivamente la presenza delle aree umide e prosciugando, grazie all’impiego di impianti idrovori mossi dal vapore o da energia elettrica, anche i bacini interni soggiacenti al livello medio del mare.
Agli occhi degli osservatori italiani ed europei agli inizi del Novecento la regione deltizia del Po, e la provincia di Ferrara in particolare, erano diventate “l’Olanda d’Italia”. Tra il 1870 e 1900 erano state infatti prosciugate, sistemate e messe a coltura decine di migliaia di ettari di terre occupate, temporaneamente o stabilmente, da acque dolci o salate. Qui l’antica proprietà nobiliare o comunale aveva ceduto le proprie terre paludose al latifondo capitalistico, diretto da società per azioni di bonifica che avevano iniziato a coltivarle in economia con salariati e boari. Il mutamento delle principali componenti geografico-territoriali, e la rapidissima riduzione delle aree umide e vallive segnava anche il drastico passaggio da un’economia di raccolta, caccia e pesca ad un’economia agraria capitalistica che aveva pochi paragoni nel paese.
Fino all’arrivo dei francesi nel 1796 l’organizzazione della difesa idraulica e la manutenzione del sistema scolante conoscevano due diverse forme, l’una di tipo pubblico rappresentata dall’amministrazione comunale di Ferrara con l’organizzazione dei “Lavorieri del Po”; l’altra di tipo privatistico formata dai diversi consorzi di bonifica, con autogoverno per quanto riguarda le opere di scolo accessorie.
Nel 1580 il duca Alfonso II d’Este aveva istituito la Conservatoria della Bonificazione del Polesine di Ferrara, in pratica un consorzio di proprietari interessati per la manutenzione delle opere eseguite dallo stesso duca e da soci tra il 1564 e il 1580. Di fatto essa costituì per due secoli (1580-1796) un’amministrazione autonoma rispetto a quella dei Lavorieri del Comune che avevano giurisdizione sulle sole “terre vecchie” già sistemate sul piano idraulico e i cui proprietari pagavano contributi alla Cassa Lavorieri. Di analoga autonomia di governo degli interessi idraulici godevano i proprietari del territorio di Bondeno, che fin dal secolo XV si erano organizzati in diversi bacini scolanti chiusi verso l’esterno, detti Serragli (Pilastri, Carbonara, Pé di Bò, Sorellare, Redena, Santa Bianca). Analogamente si erano organizzati i possidenti dell’Argentano. Fin dal 1605 anche i proprietari del grande comprensorio del Polesine di San Giorgio, racchiuso tra il Po di Volano, Po di Primaro e Valli di Comacchio, avevano chiesto al legato pontificio di poter meglio difendere i loro interessi riunendosi in una rappresentanza di tipo consortile, dando vita alla Congregazione consorziale del Polesine di San Giorgio (atto del notaio Felloni, 22 dicembre 1605).
Sotto il regime napoleonico questa articolazione di autogoverno e rappresentanza degli interessi in campo idraulico venne sconvolta. Nel 1801 cessò di funzionare la Congregazione dei Lavorieri, istituita non senza forti resistenze nel 1752 dal legato Barni e riorganizzata nel 1784 dal cardinale Francesco Carafa. La congregazione fu sostituita temporaneamente da una Commissione d’acque ma la legge 25 aprile 1804 avocò allo Stato la competenza sulla difesa dei fiumi, ponendo così termine alla secolare competenza comunale. Con un successivo decreto del 20 maggio 1806 i consorzi, i serragli e le altre aggregazioni furono convertiti in 12 “Società degli interessati”, riunite poi in una Congregazione degli scoli interni, per la manutenzione delle opere di scolo. Secondo il regolamento delle Società di interessati, emanato il 20 maggio 1806, «tutti i fondi che godono del beneficio di uno scolo formano un comprensorio» e «tutti i possessori di fondi situati in un comprensorio formano una Società».
Con la successiva restaurazione del governo pontificio tutta la materia dei lavori pubblici e della bonifica venne riformata dal motu proprio di papa Pio VII del 23 ottobre 1817, con il quale si istituivano alcuni grandi Circondari idraulici, retti da Congregazioni consorziali. Il I Circondario Scoli Canal Bianco era suddiviso in due comprensori: il comprensorio superiore era costituito dal Polesine di Casaglia e dalle terre vecchie del Polesine di San Giovanni, le cui Società degli interessati si erano già unificate nel 1808; quello inferiore riguardava le terre della Grande Bonificazione fino al Tenimento di Mesola, inglobando dunque la Conservatoria e rendendo dopo secoli unificate le sue terre con le Terre vecchie. Amministrazione distinta aveva invece l’Assunteria di Codigoro, che amministrava i terreni situati tra il Po di Volano e il canale Galvano.
Il II Circondario racchiudeva gran parte dei terreni del Polesine di San Giorgio fino alle lagune comacchiesi ed era sottoposto alla omonima Congregazione consorziale entrata in carica nel 1821. Anche questo vasto comprensorio conteneva Assunterie (Argenta, Filo, Galavronara e Forcello) che dopo il 1865 si separarono a comporre due diversi organismi: il Consorzio idraulico di Argenta e il Consorzio di Galavronara e Forcello.
Organizzazione a parte ebbero i terreni a sud del Po di Primaro interessati dalla recente inalveazione del fiume Reno nel Primaro a Traghetto di Argenta e i terreni dei serragli di Bondeno, in gran parte ricadenti nel vasto comprensorio di Burana. Sempre con il motu proprio di Pio VII del 1817 vennero poi istituiti: a) il Consorzio idraulico di scolo Cavo Tassone che riguardava terreni di Vigarano Mainarda, Bondeno (Santa Bianca) e Finale Emilia (nel Ducato di Modena); b) il Consorzio di bonifica VI Circondario Canale di Cento con terreni ricadenti nelle province di Ferrara e Bologna; c) il Consorzio idraulico di scolo IV Circondario idraulico, con competenza su un territorio riguardante il Comune di Ferrara; d) la Congregazione consorziale Nuovo Scolo, che subentrava alla napoleonica Società degli interessati nel comprensorio tra Poatello e Reno e che infine (1933) si trasformerà in Consorzio di bonifica III Circondario; d) la Congregazione consorziale del V Circondario, che unificò dal 1817 la gestione dei precedenti tre serragli bondenesi di Carbonara, Redena e Pilastri.
Le riforme amministrative del periodo pontificio della Restaurazione disegnarono in fondo l’organizzazione idraulica di base dell’intero territorio ferrarese, destinata a durare oltre la creazione del Regno d’Italia. Le grandi modificazioni dell’assetto idraulico indotte dalle bonifiche meccaniche dopo il 1870 furono all’origine di due tra i mutamenti più significativi di questo ordinamento. Nel I Circondario la Società per la Bonifica dei Terreni Ferraresi, proprietaria di gran parte dei terreni della Grande Bonificazione, entrò in conflitto con i proprietari delle terre vecchie, che non intendevano condividere gli enormi oneri della manutenzione creati con il nuovo sistema di sollevamento meccanico a Codigoro. Con decreti del 28 giugno del 1883 e 29 settembre 1885 sorsero infatti due diversi enti: il Consorzio di bonifica Terre Vecchie e il Consorzio della Grande Bonificazione Ferrarese, operante nel comprensorio inferiore.
L’altro grande cambiamento nell’amministrazione idraulica del territorio ferrarese avvenne dopo il 1892 con l’avvio, grazie al finanziamento statale previsto dalle leggi Baccarini (1882) e Genala (1892), della bonifica di Burana e con la costituzione del Consorzio interprovinciale per la bonifica di Burana – Comitato esecutivo, a cui subentrò nel 1925 l’omonimo consorzio.
Come si può vedere dalle vicende delle diverse amministrazioni che si sono succedute nel territorio ferrarese, la difficile lotta contro il dominio delle acque ha imposto comunque una unità di intenti e un comune agire dei proprietari e degli agricoltori ferraresi. Gli inevitabili conflitti di interessi e i mutamenti politico-istituzionali non hanno nel tempo potuto del tutto cancellare la solidarietà che la nemica acqua aveva imposto a queste terre.
FC, 2011
Bibliografia
Consorzio di Bonifica del Polesine S. Giorgio - II Circondario - Ferrara, Realtà attuale di una bonifica antica, Ferrara, Sate, 1981; Franco Cazzola, La Bonifica del Polesine di Ferrara dall'età estense al 1885, in La Grande Bonificazione Ferrarese. vol. I, Vicende del comprensorio dall’età romana all’istituzione del Consorzio (1883), Ferrara, Sate, 1987, pp. 103-251; Consorzio della Bonifica Burana - Leo - Scoltenna - Panaro, Burana Leo Scoltenna Panaro. Vicende di Bonifica, Maurizio Tosi editore, Modena, 1992; Archivi storici nei consorzi di bonifica dell’Emilia-Romagna. Guida generale, a cura di Euride Fregni, Bologna, Pàtron, 2003.
Il territorio ferrarese, costituito da una pianura che nell’Ottocento era ancora in buona parte coperta da valli e paludi e che è situato a pochi metri sopra il livello del mare, non poteva certo dirsi vocato alla viticoltura e alla produzione del vino. Eppure la vite e il vino erano presupposti importanti e necessari del sistema agrario ferrarese. Basterà ricordare che il vino, grazie alla modesta quantità di alcool in esso contenuta, rappresentava pur sempre la bevanda più igienica che gran parte della popolazione avesse a disposizione. L’acqua dei pozzi, che spesso attingevano a falde verso le quali penetravano anche scarichi di latrine con sistemi a dispersione, non era quanto di meglio si potesse portare in tavola per bere e cucinare. Nell’anno 1855 una grave epidemia di colera colpì il Ferrarese, presumibilmente assecondata dalle scarse condizioni igieniche dell’acqua. Da alcuni anni la diffusione dell’infezione crittogamica aveva fortemente ridotto la capacità produttiva delle viti e spinto all’insù i prezzi del vino. «La mancanza, o per meglio dire la straordinaria scarsezza del vino, com’io opino – notava l’agronomo don Michele Cariani – fu una delle cause messe in opera dall’Onnipotente per castigare anche gli abitanti di questa fertilissima Provincia col terribile flagello del colèra». Nella provincia si consumavano vini bianchi generalmente prodotti nella Romagnola ferrarese e nel Centese. Nel Ferrarese centrale, sempre stando a quanto affermava intorno agli anni 1870 il Cariani, «il vino è quasi tutto negro fatto coll’uva d’oro». E l’uva d’oro, si pensava anche allora comunemente col sostegno delle memorie del Frizzi, era stata introdotta dalla Borgogna dall’ultimo duca estense Alfonso II ed aveva avuto diffusione in tutto il Ferrarese, sostituendo il precedente vitigno detto Albanella. Possiamo oggi ritenere abbastanza improbabile questa versione circa l’ingresso dell’uva d’oro nel territorio ferrarese.
In realtà, ancora nella prima metà dell’Ottocento nelle campagne ferraresi si incontravano molte varietà di uva, bianche e nere, le stesse di cui parlava mezzo secolo prima l’abate Vincenzo Chendi. Quest’ultimo ci ricorda che l’uva d’oro era chiamata «uva forte» e che il miglior momento per la vendemmia era a San Michele. Ma accanto ad essa si coltivavano il nerone o melicone, la cremonese, il coccobello, il berzimino, le lambrusche.
Almeno 14 erano le varietà di uve bianche ricordate dal Cariani come esistenti ai tempi della sua fanciullezza: il moscatello bianco, la lugliatica, il trebbiano, la grila bianca, l’albanone grosso, l’albanella, la melina, la forzella, la speziala o bodelona, lo sbibbio bianco, l’uva marona, l’uva di terra promessa, la pellegrina o uva aceto, la boscareccia bianca dai piccoli chicchi. Tra le uve nere erano presenti il moscatello negro, l’uva d’oro, il berzemino, il melicone (detto anche varone o sgurbione), il meliconcello, la cremonese, lo sbibbio nero, l’ovetto (specie di berzemino o lambrusca selvatica), l’ovino nero detto lambrusca. Vi era inoltre la presenza di uve rosse, tra cui la rossiola, la grila nera, la bazzugana, la brombesta e l’uva passerina. Non sembri inutile questa lunga elencazione di vitigni presenti sul territorio ferrarese. Servirà a ricordare la grande biodiversità di cui era allora custode il mondo agricolo e che nel corso dell’Ottocento ebbe ad attenuarsi. Per le ragioni ricordate l’obiettivo era anche ottenere la maggior quantità possibile di uva e di vino, ciò che non andava certo in direzione della qualità del vino prodotto, ma non si può escludere anche un intento degli agricoltori di ottenere, grazie alla grande varietà di uve coltivate, anche una sorta di assicurazione contro eventuali calamità o contro annate scarse di qualcuna delle varietà più diffuse. Il secolo XIX portò invece alla drastica riduzione delle varietà con la adozione e il predominio dell’uva d’oro come prodotto per la vinificazione, anche se la pianta di uva d’oro esigeva cure più intense e non giungeva a superare i 40 anni di età, rendendo necessaria una continua produzione di propaggini per sostituire le piante morte. Ben più longeve erano le viti di melicone, di albanella, di forzella, di pellegrina.
Proprio l’Ottocento conobbe le infezioni crittogamiche e dopo il 1877 vide anche l’arrivo della fillossera (Philloxera vastatrix), un insetto proveniente dall’America che aveva distrutto vigneti in Spagna, Catalogna, Francia, Sardegna e aveva raggiunto anche la penisola italiana. La soluzione che dopo molto tempo fu trovata al problema della fillossera fu il reinnesto delle viti locali su piede di vite americana, la stessa che aveva importato in Europa l’insetto devastatore, restandone però immune. Il reimpianto comportò una drastica selezione delle varietà coltivate, favorita peraltro dal Comitato ampelografico nazionale italiano costituito dal 1872 presso il Ministero di agricoltura industria e commercio.
Il rincaro del vino e le massicce importazioni di vino italiano da parte della Francia privata dei suoi vigneti si tradussero in una forte espansione della viticoltura italiana. Anche a scala locale ferrarese l’obiettivo per gli agricoltori diveniva quello di ottenere la maggior quantità possibile di uva e di vino, ciò che non andava certo in direzione della qualità del vino prodotto, e che spiega anche l’adozione sistematica dell’uva d’oro. Fece anche la sua comparsa nelle campagne ferraresi di fine Ottocento l’uva americana Clinton, un ibrido ottenuto da un incrocio tra la vitis riparia e la vitis labrusca (entrambe americane) che offriva alte produzioni e buona resistenza alla fillossera, ma la cui coltivazione venne in seguito proibita, anche perché le sue uve non erano provenienti dalla vitis vinifera, limitando il suo uso solo come portainnesti. Il vino Clinton insieme all’uva d’oro divennero così le piante da vino più diffuse. Il Clinton soprattutto nel Centese e nell’Alto Ferrarese, mentre l’uva d’oro dava vita ad una viticoltura specializzata nella produzione di vino Fortana, detto comunemente vino del Bosco Eliceo, proveniente cioè da quella fascia di sabbie e dune dove fino alla metà del 1600 esisteva una grande lecceta usata dagli Estensi per la caccia e in seguito estirpata per dare ai comacchiesi un poco di terra da coltivare a grano.
L’altro aspetto importante nella storia della viticoltura ferrarese riguarda i sistemi di allevamento della pianta. Erano certamente presenti forme tradizionali di vigneto specializzato relegate in piccoli appezzamenti prossimi alle abitazioni coloniche o nei pressi delle gronde fluviali, oppure nei broli (frutteti) annessi alle case padronali. Si trattava di forme di allevamento della pianta non molto dissimili da quella che possiamo ammirare nel riquadro del mese di marzo nel salone dei mesi di palazzo Schifanoia: viti a pergolato oppure viti maritate a qualche albero nei pressi di un villaggio. Molti vigneti erano collocati nell’immediata periferia urbana ed anche in piccoli e grandi orti dentro le mura cittadine, specialmente nella parte di città ancora vuota della addizione erculea e negli spazi verdi annessi ai grandi monasteri per il consumo dei religiosi.
La parte di gran lunga preponderante della produzione vinicola ferrarese proveniva tuttavia dalle aperte campagne col sistema della piantata di viti maritate a filari di sostegni vivi, in genere olmi, aceri campestri (oppi) o pioppi. Questo sistema, che si generalizza a partire dalla fine del Medioevo in tutta la pianura padano-veneta, consentiva alla vite di arrampicarsi sugli alberi e di allontanare così i suoi frutti dagli umidi suoli della valle padana. Al contempo, la fitta dotazione arborea dei campi offriva copioso fogliame utile per nutrire il bestiame da lavoro, la legna necessaria per il riscaldamento nei mesi invernali, pali, travi e correnti per costruire, oltre a svariati frutti come noci, ciliegie, prugne ecc.
Le campagne dove era presente l’arborato-vitato, ossia la coltivazione promiscua di cereali, legumi, canapa e uva da vino maritata agli alberi in filare erano dette nel Ferrarese terre abbragliate. Queste avevano un maggiore valore d’estimo rispetto alle terre campagnole, ossia agli arativi nudi. Nelle terre abbragliate una serie di appezzamenti (pezze) affiancati dava origine al morello detto anche traverso. Pezze affiancate per il lungo erano dette invece filari. Più morelli o più filari che scolavano insieme in una affossatura consorziale formavano invece la braglia, di dimensioni variabili in relazione alla rete di scoline esistente. Una sola o più braglie definivano lo spazio coltivato della possessione ferrarese. Da ricordare infine che la pezza ferrarese era molto grande, con una larghezza di circa 50 metri e una lunghezza di 100 metri.
Quanto alle forme con cui la vitis vinifera veniva collegata all’albero il Ferrarese conosceva due modi principali: a cavalletto (o alla bolognese) e a strena. Il sistema a cavalletto era applicato di preferenza a terreni ancora non ottimali per quanto riguarda il cosiddetto franco di coltivazione, ossia la parte superficiale destinata alle piante erbacee. La striscia di terra destinata a portare gli alberi e le viti a cavalletto era larga circa 15 piedi (6 metri) ed era affiancata da due profonde scoline laterali che servivano anche la pezza. Quest’ultima era intervallata da cavedagne o capezzagne erbose per il transito dell’aratro e dei carri mentre le scoline proseguivano sottopassando la cavedagna mediante tombini a fianco delle pezze successive fino a raggiungere il capofosso. Il rapido sgrondo delle acque piovane era qui essenziale anche per la sopravvivenza delle viti.
Il sistema ferrarese a strena trovava spazio in migliori condizioni di franco di coltivazione e di permeabilità dei suoli. La strena occupava così una striscia più ridotta di circa 6 piedi (2,50 metri) di larghezza, eliminando anche una delle due scoline laterali del sistema a cavalletto. Restavano anche in questo sistema le funzioni di sgrondo delle acque svolte dalle cavedagne.
Si può comprendere come anche la sistemazione dei campi nelle campagne ferraresi dell’Ottocento finisse per unire ed intrecciare inscindibilmente tra loro la produzione di cereali (grano, mais) di legumi e piante industriali (canapa, poi bietola), alla produzione del vino come bevanda e alimento primario, all’allevamento del bestiame da lavoro e alle esigenze energetiche della famiglia contadina.
Le tecniche di vinificazione domestica erano abbastanza primitive, rivolte a sfruttare fino all’ultimo chicco l’uva prodotta. La descrizione delle operazioni di vinificazione che ci fornisce nel tardo Settecento l’abate Vincenzo Chendi è esemplare in proposito. Trascorsi 8 giorni dall’inizio della fermentazione (bollitura), il nono giorno il vino veniva travasato dai tinazzi di pigiatura nelle botti. Nei tinazzi si versavano poi alcuni mastelli di acqua per ottenere il mezzo vino. Una volta spillato questo, ulteriori aggiunte di acqua davano il secondo ed anche terzo bollito, bevanda di pronto consumo ma di poca sostanza. «Questi bolliti buoni – nota il Chendi – serbansi ad uso della famiglia, o pure si vendono, o si mescolano bevendo nel Pillone o Pistone, o Fiasco, e danno la spinta ad un giorno di più per avere sempre più vino schietto da esitare». Anche il vino ferrarese aveva dunque, almeno in parte, una destinazione per il mercato. Agricoltori, coloni e salariati avevano ogni giorno sul loro desco soprattutto quel vino bollito, che di vino aveva probabilmente solo il colore ceduto dalle graspe.
FC, 2012
Bibliografia
Domenico Vincenzo Chendi, L’agricoltor ferrarese in dodici mesi secondo l’anno diviso a comodo di chi esercita l’agricoltura, In Ferrara, nella Stamperia Camerale, 1775; Michele Cariani, L’agricoltura ferrarese in pratica, ovvero Guida per dirigere ed eseguire i lavori campestri (…) opera di un vecchio agricoltore ferrarese, Ferrara, Taddei, s.d.; Giuseppe Ragazzi, Sistemazione ferrarese delle campagne “abbragliate”, Ferrara, SATE, 1942. Franco Cazzola, Disboscamento e riforestazione «ordinata» nella pianura del Po: la piantata di alberi nell’economia agraria padana, secoli XV-XIX, «Storia urbana», n. 76-77, 1996, pp. 35-64; Marcello Bertelli, L’Uva d’Oro. La vite e il vino nella storia e nella letteratura ferrarese, Ferrara, Cartografica, 2001.
La pianura ferrarese, fin dall’età medievale, ha dedicato alla coltivazione del frumento e degli altri cereali le terre più asciutte e fertili disponibili. Le terre alluvionali, pianeggianti e fertili della bassa valle del Po avevano fondato sulla produzione dei grani gran parte della loro economia agraria ma in un quadro molto diverso rispetto alle regioni del Mezzogiorno. Il paesaggio agrario ferrarese attuale ha mantenuto questa “vocazione” granaria con eccellenti risultati produttivi. Tuttavia, risalendo indietro nel tempo e in particolare al secolo XIX, ben diversa ci si sarebbe presentata la fisionomia dei nostri campi. Dalla fine del Medioevo l’agricoltura ferrarese venne riorganizzandosi su unità aziendali medio-grandi (25-30 ettari) dette versuri a ricordarci la relazione tecnica fra superficie dell’arativo e tiro di animali che trainavano l’aratro (in dialetto ferrarese varsur). Ma l’agricoltura praticata sui versuri ferraresi, al cui centro stava spesso una grande superficie arativa detta braglia, era in realtà un’agricoltura promiscua, ossia capace di produrre numerosi altri generi utili, alimentari e non, e soprattutto in grado di produrre vino col sistema della piantata di alberi in filari ai bordi dei campi, sui quali erano maritate le viti. Nei terreni migliori del Ferrarese continuò così per tutto l’Ottocento e parte del Novecento quella economia «del pane e del vino» che già nel XVII secolo era stata glorificata nella famosa opera agronomica del bolognese Vincenzo Tanara L’economia del cittadino in villa (1644).
Oltre al frumento autunnale si coltivava il frumento primaverile detto marzuolo, insieme ad altri grani primaverili (marzatelli) come orzo e avena. L’avvicendamento biennale di uso tradizionale divideva l’arativo in due parti circa uguali (avanzoni), delle quali una ospitava il frumento e l’altra le colture primaverili. Nella rotazione agraria ferrarese già dalla fine del secolo XVI aveva fatto il suo ingresso stabile tra i marzatelli, sostituendo in gran parte il sorgo, anche il frumentone giallo, ossia il mais. Nell’Ottocento la polenta di farina di mais era ormai il cibo quotidiano dei contadini, specialmente dei boari, dei braccianti e dei giornalieri, sulle cui mense il buon pane ferrarese restava riservato alle ricorrenze festive. Affiancavano i cereali da pane e da polenta diverse varietà di leguminose, importanti negli avvicendamenti delle colture per la fertilizzazione dei campi da frumento ma anche quali risorse alimentari: fave, fagioli, ceci, cicerchie, lenti, lupini, piselli, lenticchie, ecc. Con il secolo XIX, dal centro di irradiazione del Centopievese si era diffusa poi con eccezionale rapidità sulle terre vecchie ferraresi anche la coltivazione di una pianta tessile di grande importanza come coltura mercantile: la canapa, di cui la provincia di Ferrara conquistò nell’Ottocento il primato produttivo nazionale.
Questa è dunque la fisionomia delle campagne della provincia all’aprirsi del XIX secolo. I tempi delle grandi trasformazioni tecniche, della chimica e dell’introduzione di macchine in ferro nel lavoro dei campi avrebbero tardato ancora qualche decennio, ma i mutamenti che investirono i rapporti di proprietà negli anni napoleonici impressero un movimento più veloce ai lenti ritmi di cambiamento dell’agricoltura tradizionale. Poco prima della metà dell’Ottocento alcune novità importanti cominciano ad essere percepibili. L’attivazione nel 1835 del catasto ad opera di papa Gregorio XVI aveva intanto fondato su basi più sicure la stima della qualità e del valore produttivo dei terreni, sollecitando nella pratica l’adozione di miglioramenti nei terreni classificati a basso valore intrinseco e gravati da una bassa imposta fondiaria. Ma bisogna anche ricordare che con decreto della Sacra Congregazione degli studi del 7 agosto 1841 venne istituita in Ferrara una Scuola teorico-pratica di agraria in un apposito locale dell’Ateneo. A dirigere questa scuola fu chiamato il dottore padovano Francesco Luigi Botter, molto attivo negli anni seguenti nel promuovere la diffusione tra i proprietari ferraresi degli aratri Dombasle in acciaio, da lui modificati per adattarli ai terreni locali. Egli fu anche promotore del podere sperimentale annesso all’Istituto agrario nel quale erano praticati esperimenti di coltivazione. La pubblicazione di un giornale agrario come «L’Incoraggiamento» e l’organizzazione di periodiche Feste agricole provinciali d’Incoraggiamento ad opera dello stesso Botter testimoniano che la volontà di dare impulso produttivo all’economia agraria ferrarese stava spianando la strada a innovazioni rilevanti anche in altri diversi campi.
Ancora Francesco Luigi Botter negli anni Cinquanta era stato incaricato dal Consorzio di bonifica del I Circondario di verificare i risultati dell’applicazione di macchine idrovore con ruota a schiaffo nel basso Polesine. Erano i prodromi delle grandi trasformazioni fondiarie che dopo il 1870 le macchine idrovore avrebbero indotto nel Ferrarese orientale con il prosciugamento meccanico di decine di migliaia di ettari di paludi. Le grandi bonifiche erano state in fondo avviate avendo intravisto la possibilità di conquistare al frumento vaste estensioni di “terre nuove”. Anche il grande tema della bonifica ci riporta dunque ai cereali. Sarà intanto opportuno un richiamo alle condizioni del territorio nell’età che precede l’unificazione nazionale.
Il catasto gregoriano aveva misurato nel Ferrarese una superficie di circa 232.000 ettari registrando le seguenti principali qualità di coltivazione:
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Seminativo alberato e vitato a grano e marzatelli Ha 41.335
Canapule alberato e vitato Ha 15.881
Seminativo alberato e vitato con riposo Ha 1.008
Seminativo a grano e marzatelli Ha 12.619
Canapule a vicenda Ha 2.043
Totale seminativi Ha 72.886
Prati naturali e prati acquastrini Ha 32.750
Pascoli boschivi, e pascoli semplici Ha 32.781
Totale prati e pascoli Ha 65.531
Valli di canna Ha 42.856
Valli salse da pesca Ha 45.161
Totale zone umide Ha 88.017
Orti, pometi, casamentivi e sterili Ha 5.792
In complesso Ha 232.226
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Si può notare che la coltura promiscua, cioè l’alberato e vitato, con cereali, marzatelli e canapa a vicenda costituivano il centro del sistema agrario provinciale, mentre prati, pascoli e valli dolci e salse occupavano ancora oltre 2/3 del territorio provinciale. Con un calcolo approssimativo, tenendo conto dell’avvicendamento biennale, si può pensare che il frumento, come coltura centrale, occupasse annualmente almeno 35.000 ettari.
Il ciclo di produzione del frumento segnava il calendario dei principali lavori agricoli. Da settembre a tutto ottobre, secondo il prospetto fornito da Andrea Casazza sul suo Stato agrario economico del Ferrarese (1845), si aravano le terre che avevano ospitato canapa e mais; si seminava a mano, si spianava il terreno coprendo la semente ed erpicando per liberare il suolo da gramigne; verso metà aprile bisognava roncare il frumento, ossia estirpare le erbe infestanti; dalla metà di giugno ai primi di luglio si eseguiva la mietitura, la creazione dei covoni, il trasporto all’aia, la trebbiatura, vagliatura e messa in granaio del prodotto.
Il ciclo del mais era più lungo in quanto si avvicendava l’anno seguente al frumento. Dopo segate le stoppie del grano si dovevano arare in profondità i terreni nel mese di agosto. In novembre seguivano la concimazione e una seconda aratura lasciando che il gelo purgasse la terra. Nel marzo dell’anno successivo il terreno veniva spianato con l’erpice e ai primi di aprile avveniva la semina con successiva copertura dei semi a erpice. Molto lavoro umano con la zappa era richiesto da questa pianta per liberare le pianticelle appena nate dalle male erbe e a maggio si rendeva necessaria una seconda sarchiatura per rincalzare o diradare se vi fossero piante troppo fitte. Verso metà maggio si ricorreva alla zappa per la terza volta per estirpare male erbe, rincalzare e creare ai lati una piccola cavità per raccogliere l’acqua piovana dei mesi estivi. A settembre avveniva infine la raccolta, la sgranatura a mano, la vagliatura e la messa in magazzino. Come si vede, la richiesta di lavoro umano del mais era di molto superiore a quella del frumento e, per lunga tradizione, chi eseguiva la zappatura aveva diritto ad un terzo del raccolto. Braccianti, castaldi e boari trovavano dunque da questa fatica un ritorno economico, che contribuiva a rendere il mais, così come nel Lombardo-Veneto e nel Piemonte, coltura principale dell’annata agraria.
Ricorriamo ancora ad Andrea Casazza per valutare un bilancio economico di un’azienda tipica ferrarese della metà Ottocento che produce come colture principali frumento, mais e canapa, oltre al vino, alla legna e alle coltivazioni minori. In un tipico versuro ferrarese di 300 staja, ossia 32,6 ettari, almeno un ettaro viene occupato dal casamentivo rusticale (oltre agli edifici di abitazione e alle stalle-fienili, pozzo, orto, aia, vivaio, pollai, ecc.). Altri 5 ettari sono destinati al mantenimento del bestiame da lavoro (8 a 12 buoi). Segue l’arativo arborato e vitato suddiviso nei due avanzoni uguali di circa 13 ettari ciascuno. Il primo ospita il frumento e il secondo è ripartito per un terzo a canapa e i restanti due terzi al mais e ai cereali minori e legumi.
Tenendo conto che la semina richiedeva circa 53 staja di grano (2,7 ettolitri) e il rendimento medio era fissato in sette sementi per seme il prodotto finale del grano offriva 374 staja, pari a 116,3 ettolitri, che commisurati alla superficie investita fornivano un rendimento di 9,8 ettolitri per ettaro, quantità per quel tempo non certo disprezzabile e tale da collocare Ferrara in posizioni vicine a quelle lombarde. Agli inizi del Novecento i rendimenti del frumento ferrarese, grazie ai concimi artificiali prodotti dalla chimica saliranno a primati assoluti in campo nazionale.
Quanto al prodotto netto che restava al proprietario o conduttore del fondo, occorreva detrarre i compensi previsti dagli antichi statuti di Ferrara, pari a 1/9 per i mietitori e il 5 per cento per la trebbiatura, oltre alle 53 staja per le sementi dell’anno successivo. In conclusione, il rendimento netto del frumento era di circa 262 staja (81,5 ettolitri), che al valore medio di mercato forniva 254,19 scudi romani. A questo valore dovevano essere applicate le spese colturali specifiche per il frumento pari a 21 scudi circa. Quanto alle varietà coltivate di frumento nel Ferrarese, ci ricorda intorno al 1875 un altro religioso con passioni agronomiche come don Michele Cariani che la varietà locale più usata era il frumento stiolo, accompagnato però da una seconda varietà detto romano. Presumibilmente si trattava della varietà Rieti.
Diverso il calcolo relativo al frumentone o mais. Destinando 66 staja nette di superficie a questa coltivazione e calcolando come semente necessaria 8 staja (2,5 hl) e una media produzione di 36 sementi, si avrebbero di resa 297 staja (92,3 hl). Da questo prodotto andava detratto il terzo per il boaro e la semina. Restavano di prodotto netto per il padrone 186 staja, valutabili in 120 scudi e 36 baiocchi. Ai lavoratori più poveri restava qualche sacco di frumentone e la probabilità di ammalarsi di pellagra, una grave avitaminosi indotta dall’esclusiva alimentazione a base di polenta.
Nel modello agronomico delineato da Andrea Casazza è contenuta anche una stima sul risultato che lo stesso versuro avrebbe ottenuto qualora fosse stato condotto a mezzadria. Sorprendentemente, il sistema di conduzione a mezzadria avrebbe offerto una rendita di 291,7 scudi contro i 237,2 della conduzione a boaria, la più largamente diffusa nel Ferrarese centrale. Eppure i ferraresi restarono a lungo legati a questo patto colonico che si era diffuso dalla fine del Cinquecento in avanti.
FC, 2011
Bibliografia
Andrea Casazza, Stato agrario economico del Ferrarese, Ferrara, dai Tipi di Domenico Taddei 1845; [Michele Cariani] L'agricoltura ferrarese in pratica, ovvero Guida per dirigere ed eseguire i lavori campestri secondo le più accurate osservazioni ed esperienze...: opera di un vecchio agricoltore ferrarese, Ferrara, Taddei e figli, [1875?]; Mario Zucchini, Storia del versuro ferrarese, in Georgici ferraresi del passato, a cura dell’Associazione laureati in scienze agrarie di Ferrara, Bologna, Tamari, 1968, pp. 15-31; Giorgio Porisini, Agricoltura, alimentazione e condizioni sanitarie. Prime ricerche sulla pellagra in Italia dal 1880 al 1940, Appendice statistica, Bologna, CLUEB, 1975; Id., Risultati di una ricerca sulle rese del frumento in Italia dal 1815 al 1922, Bologna, Istituto di storia economica e sociale, 1978.
Negli ultimi anni del secolo XIX, dopo un venticinquennio di crisi agraria, segnata dal crollo dei prezzi dei cereali e dalla depressione che aveva a lungo falcidiato occupazione, salari e redditi in agricoltura, i segni di un mutamento positivo della congiuntura stimolarono nuovi investimenti nel settore agricolo italiano. La Legge Baccarini (1882) aveva cercato di venire in soccorso delle grandi società di bonifica e ai consorzi ferraresi che avevano eseguito gli estesi prosciugamenti degli anni ’70 e che la crisi agraria aveva messo in gravi difficoltà, accollando allo Stato, alle Province e ai Comuni gran parte degli oneri di esecuzione e perfezionamento delle opere di bonifica classificate di I categoria. Cinque anni più tardi, insieme col dazio di 5 lire al quintale applicato all’importazione di grano straniero, il Parlamento italiano aveva varato una decisa svolta protezionistica in campo industriale. La tariffa doganale approvata nel 1887 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1888 aveva incluso tra le produzioni industriali da proteggere, oltre ai tessili e ai prodotti siderurgici, anche lo zucchero da barbabietola. Una successiva legge del 10 dicembre 1894 innalzava la tassa di importazione dello zucchero grezzo fino a lire 88 per quintale e di quello raffinato a lire 99 per quintale. Dato che la tassa statale di fabbricazione sullo zucchero era in Italia rispettivamente di 67 e 70 lire al quintale, la produzione dello zucchero di barbabietola poteva così godere di una protezione pari ad almeno 20-27 lire circa, tenuto conto anche di un aggio dell’oro sulla lira cartacea di almeno 8 lire. Si erano con ciò create le condizioni esterne favorevoli per la nascita di imprese zuccheriere in regime protetto. Nell’arco di pochi anni gli stabilimenti italiani per la lavorazione della bietola passarono infatti da 2 a ben 33. Anche la superficie investita a questa coltura era cresciuta di pari passo: tra il 1902 e il 1908 gli ettari coltivati a barbabietola in Italia erano aumentati da 25.000 a oltre 50.000.
La prospettiva di introdurre una sarchiata primaverile nella rotazione agraria, e specialmente nelle terre nuove create con la bonifica, non ancora idonee alla coltura della canapa, fu accolta con favore dagli agricoltori ferraresi. Si pensava che la radice zuccherina, lavorata con la zappa, rincalzata ed estirpata una volta raggiunta la maturazione, contribuisse al miglioramento fisico dei suoli nuovi argillosi e torbosi e li liberasse più rapidamente dalle erbe infestanti. In realtà il vantaggio maggiore che coglievano i coltivatori era soprattutto quello di poter nutrire gli animali da lavoro con le foglie e i colletti dopo l’estirpazione della radice e di utilizzare a questo scopo anche le polpe esauste rilasciate dalle fabbriche dopo il processo di estrazione del succo zuccherino. Dei vantaggi agronomici si era fatto attivo sostenitore e propagandista soprattutto il direttore della locale cattedra ambulante di agricoltura, il prof. Adriano Aducco.
L’introduzione di una nuova coltivazione ad esclusiva utilizzazione industriale, presupponeva però uno stretto legame tra coltivatori e industriali saccariferi. L’impianto di una fabbrica di zucchero richiedeva infatti, necessariamente, un previo accordo con molti agricoltori per ottenere il conferimento agli stabilimenti, nel corso di più annate agrarie, delle radici zuccherine nella quantità necessaria alla capacità produttiva delle fabbriche ed anche secondo tempi di semina e consegna programmati, data la facile deperibilità del prodotto una volta estratto dal suolo.
La presenza di grandi proprietà capitalistiche nelle campagne del basso Ferrarese poteva consentire il rapido superamento delle obiezioni e delle paure che insorgevano tra i coltivatori piccoli e medi davanti all’ingresso di una coltura dall’ancora incerto rendimento nel ciclo agrario della loro azienda. La tenace azione di propaganda e di sperimentazione svolta dalla cattedra ambulante fu presto sorretta non solo da un gruppo di grandi aziende agrarie del Ferrarese, ma anche da un vivo interesse mostrato dal capitale industriale genovese. Quest’ultimo, che già svolgeva attività di raffinazione dello zucchero grezzo di canna proveniente da oltre oceano, vedeva ora il prodotto straniero gravato da un alto dazio e cominciò a puntare sulla possibilità della produzione interna. Su questo intreccio di interessi agricolo-industriali si sarebbe fondato il rapido e travolgente successo della coltivazione della barbabietola da zucchero nel Ferrarese e nelle vicine province della valle padana orientale. Anche se la produttività delle coltivazioni ferraresi restava bassa, pari alla metà di quella francese, e se il costo di produzione dello zucchero italiano restava sempre superiore al prezzo di quello importato, l’industria saccarifera ferrarese poté comunque contare in pochi anni su almeno 5 stabilimenti. Era la prima vera industrializzazione della provincia, per quanto a carattere fortemente stagionale.
Gli agricoltori ferraresi furono così convinti ad adottare la nuova coltura dopo un’intensa campagna a favore dell’introduzione della barbabietola che fu lanciata su giornali e periodici locali. Fin dal 1896 Adriano Aducco aveva impiantato presso diversi proprietari terrieri ben 16 campi sperimentali di coltivazione della radice. Nonostante i primi modesti risultati l’anno seguente i campi sperimentali erano passati a 30, anche su pressione della società Lombarda-Ligure di Sampierdarena che raffinava zuccheri di canna e che aveva interesse a creare uno stabilimento nel Ferrarese. Nel 1898 i campi sperimentali diretti dalla cattedra ambulante di Aducco erano ormai 43 e la campagna promozionale cominciò a dare i suoi frutti. Nel 1899 la società Cirio aveva svolto esperimenti di coltivazione a Codigoro, utilizzando 100 ettari, compresi terreni torbosi, mentre l’anno precedente era iniziata la costruzione del primo zuccherificio («La Codigoro»), presto associato alla società genovese Eridania, mentre la Cirio si obbligava a coltivare almeno 500 ettari a barbabietola.
Nel 1899 era la volta di Ferrara, con due stabilimenti a Pontelagoscuro, serviti dal trasporto fluviale e ferroviario. Il 27 agosto di quell’anno iniziava la produzione la fabbrica della Società Nazionale per l’Industria degli Zuccheri Schiaffino e Roncallo, con 200 operai divisi in due turni e diretti da tecnici tedeschi. Sempre sul fiume Po iniziava la produzione anche lo zuccherificio Gulinelli, che lavorava in buona quantità barbabietole prodotte dallo stesso Gulinelli nei suoi possedimenti. La dislocazione degli stabilimenti sul Po era importante per il rapido afflusso di migliaia di quintali di barbabietole agli stabilimenti. Lo stesso avevano fatto altre province che si affacciavano al grande fiume. Nel 1902 nascevano zuccherifici a Ficarolo e Ostiglia, nel 1910 a Piacenza, nel 1911 a Casalmaggiore (Cremona), nel 1914 a Bottrighe e nel primo dopoguerra a Sermide e Polesella. Si ricordi poi che gli zuccherifici esigevano grandi quantità di carbone per la concentrazione del sugo e per i forni a calce. L’industria italiana dello zucchero consumava ogni anno tra il 1906 e il 1910 almeno 700-900 mila quintali di carbone e un milione di quintali di calce. La vicinanza al fiume Po e alla rete ferroviaria era dunque vitale per la localizzazione di questa industria.
Visto il clima ormai favorevole alla diffusione della coltura bieticola, anche Adriano Aducco si fece promotore dell’impianto di uno zuccherificio poco distante dalle mura di Ferrara e dalla stazione ferroviaria: lo Zuccherificio Agricolo Ferrarese, a forma di cooperativa tra agricoltori, di cui assunse la direzione con la sua entrata in funzione nell’agosto 1900, mentre lasciava la cattedra ambulante di agricoltura. Nel manifesto del comitato promotore della società cooperativa, apparso sulla «Gazzetta Ferrarese» il 25 luglio 1899, oltre ad Adriano Aducco, vi erano nomi importanti del mondo agrario ferrarese: tra questi il conte Alessandro Avogli-Trotti, l’ing. Riccardo Cavalieri, il cav. Pio Finzi, Settimo Minerbi, il cav. Carlo Pavanelli, il cav. Cesare Pirani, Arrigo e Guelfo Sani, Arturo Spisani, Enrico Tumiati, l’ing. Carlo Turchi. Tra i soci della società anonima apparvero anche, nell’atto costitutivo del dicembre 1899, tra i maggiori azionisti, Eliseo e Guglielmo Zamorani, la Società Bonifiche Terreni Ferraresi, il conte Giovanni Revedin, i signori Masieri, Pareschi e Bernaroli. Nel 1906 anche questa società finì tuttavia sotto il controllo dell’Eridania. Il capitale ligure manteneva l’egemonia sull’industria saccarifera ferrarese.
Dato che i primi stabilimenti sorti nella provincia producevano solo zucchero grezzo, occorreva affiancare ad essi una fabbrica di raffinazione. Quest’ultima sorse infatti dopo che nel marzo 1900 si era costituita a Genova la Società Anonima Raffineria Ferrarese Ligure il cui capitale di 1.200.000 lire era diviso fra Società Eridania, Zuccherificio Agricolo Ferrarese, Giovan Battista Fregari, Fabbrica ferrarese Conte Gulinelli e avv. L. Quartara. Un’altra raffineria sorse poco più tardi a Pontelagoscuro annessa all’impianto della Società Romana per la Fabbricazione dello Zucchero, che era subentrata alla Società Schiaffino-Roncallo. Nel 1902 sorgeva a Ferrara un altro impianto, lo zuccherificio della Società in accomandita semplice Bonora & C., promossa da tre grandi proprietari locali (Bonora, Massari, Zanardi) e in seguito munita di raffineria. Prima del conflitto mondiale un altro stabilimento della Società Saccarifera Lombarda era infine sorto a Bondeno nel 1912.
Nella pianura ferrarese la coltivazione della barbabietola e la sua manipolazione per l’industria erano diventati in breve tempo prerogativa di una classe di lavoratori agricoli senza terra: i braccianti. L’addensamento di questa classe sociale in tutta la bassa pianura padana favoriva sia i coltivatori, sia la stessa industria. Per i braccianti l’ingresso della barbabietola nelle terre di bonifica significava maggiore occupazione, sia maschile che femminile. Le semine e i lavori preparatori, diradamenti e sarchiature davano lavoro nei mesi primaverili, mentre gli stabilimenti reclutavano mano d’opera stagionale da agosto a ottobre, quando i raccolti di frumento e mais erano in gran parte compiuti e le giornate di lavoro avventizio si riducevano. La grande quantità di lavoro umano allora richiesta dalla barbabietola vide, non a caso, questa coltura favorita dalle stesse cooperative agricole di braccianti che ad essa destinavano almeno un terzo delle superfici da esse ottenute in coltivazione.
Per tutto il secolo XX la barbabietola e lo zucchero avrebbero così fatto parte del paesaggio agrario e sociale della provincia. Non è lontano il ricordo di quando la città di Ferrara nella tarda estate si riempiva dell’inconfondibile odore dolciastro delle barbabietole diffuso dai vapori degli zuccherifici e dalle polpe umide che gli agricoltori ritiravano dagli stabilimenti.
FC, 2011
Bibliografia
Camillo Borgnino, Cenni storico-critici sulle origini dell’industria dello zucchero in Italia, Bologna, Zanichelli, 1910; Eridania Zuccherifici Nazionali, Storia di cinquant’anni (1899-1949), Genova, Saiga, 1949; Lucio Gambi, Geografia delle piante da zucchero in Italia, in «Memorie di geografia economica», VII, XII, gennaio-giugno 1955, Napoli, CNR; Teresa Isenburg, Investimenti di capitale e organizzazione di classe nelle bonifiche ferraresi (1872-1901), Firenze, La Nuova Italia, 1971, appendice II.
La fine del dominio pontificio sulla provincia ferrarese ad opera delle truppe francesi portò con sé profondi sconvolgimenti negli assetti fondiari e proprietari. I vasti possedimenti terrieri ed edilizi di monasteri, confraternite, opere pie furono espropriati come “beni nazionali” e messi all’asta per far fronte al mantenimento delle armate napoleoniche. Insieme ad altri beni, finirono espropriati anche decine di migliaia di ettari delle lagune comacchiesi amministrate dalla Reverenda Camera Apostolica. I mutamenti giuridici ed istituzionali introdotti con il codice civile napoleonico (1804) sancivano inoltre il trionfo della proprietà piena e assoluta, liberandola da molti gravami (usi, livelli, enfiteusi, fedecommessi, ecc.) che fino a quel momento rendevano asfittico e immobile il mercato della terra e dei beni immobili. Davanti a queste novità le forze speculative non si lasciarono sfuggire l’occasione. Tra queste vi erano i membri della allora popolosa comunità ebraica ferrarese, che tradizionalmente detenevano molte leve commerciali e finanziarie della città e di altri centri della ex Legazione pontificia (Cento, Lugo e altrove). Significativo il fatto che alla carica di presidente della Municipalità di Ferrara durante la Repubblica Cisalpina fosse chiamato l’ebreo Pesaro, come a sottolineare l’emergere di un nuovo ceto dirigente economico prima escluso dalle cariche cittadine.
Erano stati rimossi, sia pure per pochi anni, molti ostacoli alle attività in campo agricolo di appartenenti alla comunità ebraica e la loro buona disponibilità di capitali liquidi poté permettere loro di investire nella terra, sia direttamente, sia come intermediari e prestatori per conto di acquirenti dei beni nazionali. Tra i nomi israeliti che comparvero nei più rilevanti acquisti all’asta di beni nazionali messi in vendita nel solo comprensorio del Consorzio di bonifica del Polesine di San Giorgio incontriamo Angelo Pace Pesaro (315 ha), la ditta Fratelli Isacchi (194 ha), i fratelli Dalla Vida (184 ha), Felice Coen (76 ha), Davide Hanau (52 ha) per un totale di circa 628 ettari su 4.362 ettari di beni venduti all’asta. Entro il 1828 questi acquirenti si erano ormai liberati delle proprietà terriere acquisite all’asta rivendendole a borghesi, forse nell’incertezza provocata dalla restaurazione del vecchio governo ecclesiastico.
Un quadro preciso della distribuzione della proprietà terriera nel momento della soppressione degli Ordini religiosi da parte dei francesi non esiste. La compilazione di un catasto generale delle province dello Stato pontificio era stata ordinata da Pio VI con editto del 15 dicembre 1777 ma restavano escluse dal provvedimento Bologna, Ferrara e l’Agro Romano. Nelle due città emiliane furono inviati con l’intento di riordinare il sistema fiscale due legati pontifici riformatori: a Bologna Ignazio Boncompagni e a Ferrara Francesco Carafa. Secondo le norme di Pio VI i proprietari dei terreni dovevano fornire alle Comunità dichiarazioni di «assegne» giurate sui loro beni in base a precedenti atti catastali o contrattuali. Le Comunità, a loro volta, dovevano provvedere a valutare i terreni stessi affidandosi a periti agrimensori. L’applicazione di tali disposizioni incontrò naturalmente infinite resistenze ed opposizioni. La Legazione di Ferrara, guidata dal cardinale Francesco Carafa, decise di utilizzare documenti di tipo catastale esistenti, ossia il Campione dei terreni che serviva per la riscossione dell’unica vera e più importante imposta diretta che gravava sui proprietari terrieri ferraresi, ossia la tassa scoli. Questa era applicata sia dalla Cassa dei Lavorieri del Po, sulla base delle grandi circoscrizioni idrauliche del territorio comunale di Ferrara, sia dalle altre autonome amministrazioni idrauliche o consorzi di bonifica (Grande Bonificazione Ferrarese, Serragli di Bondeno, ecc.).
Bisognò attendere l’attivazione nel 1835 del Catasto Gregoriano (oggi Vecchio Catasto Terreni) per avere finalmente una esatta misurazione e stima dei terreni ferraresi. Il catasto, entrato in vigore durante il pontificato di Gregorio XVI, era stato ordinato da Pio VII poco dopo la restaurazione del potere pontificio con motu proprio nel 1816 ed attuato con numerosi provvedimenti successivi che si muovevano però sulle tracce fissate dal decreto di Napoleone del 1807 col quale si organizzavano le finanze del Regno d’Italia. Era un censimento di terreni e possessori di tipo geometrico-particellare, a stima indiretta. Per la misurazione delle superfici fu adottato il sistema metrico, scegliendo come unità la «tavola» di mille metri quadrati; in modo che dieci «tavole» formassero il «quadrato», ossia l’ettaro.
Nei lunghi anni che trascorsero prima dell’attivazione del Catasto Gregoriano, a fini fiscali l’unico documento utilizzabile rimase perciò il cosiddetto Catasto Carafa, sui cui registri venivano registrate anche le volture. Il limite più evidente di questo strumento era la stima dei terreni circoscritta a poche generiche categorie fiscali, sulla base dell’utilità conseguibile con le opere di bonifica e scolo. I terreni erano infatti classificati in arativi abbragliati (cioè arborati e vitati), campagnoli (arativi nudi), prativi, pascolivi e sabbionivi. Il secondo grave limite del documento fiscale è che escludeva dalla registrazione vasti possedimenti degli esenti o privilegiati. Per citare un esempio, dall’elenco dei possessori contribuenti nei villaggi del Polesine di Casaglia mancava proprio la villa di Casaglia, situata al centro di una grande tenuta di oltre 1.000 ettari esentata dalla tassa sui lavorieri in quanto appartenente alla grande famiglia dei Pio di Savoia.
Lo studio di questi documenti catastali compiuto da Mario Zucchini, pur con i limiti segnalati e con l’elaborazione dei dati finora circoscritta ad una parte del territorio ferrarese, mostrava alcuni dati interessanti sull’evoluzione dei rapporti di proprietà alle soglie del XIX secolo. Sempre con riguardo al solo Polesine di San Giorgio, dove si concentravano i terreni migliori, l’elaborazione dei dati mise in evidenza che su un complesso di beni allibrati di 38.887 ettari, ben 10.524 erano nelle mani di clero ed ordini ecclesiastici; 7.400 ettari appartenevano alla nobiltà e ben 20.532 alla borghesia rurale ed urbana. I mutamenti degli anni francesi consegnarono nelle mani borghesi, tramite acquisti all’asta dei beni nazionali, sempre nello stesso territorio, altri 4.362 ettari di terra. Troveremo fra gli acquirenti appartenenti alla vecchia nobiltà ferrarese solo pochissimi nomi: Giovanni Battista Costabili Containi, i marchesi Bevilacqua e membri della famiglia Bonacossi. Oltre agli ebrei, le presenze più significative erano di personaggi che ebbero un ruolo importante nei decenni successivi e che finirono nei ranghi della nuova nobiltà napoleonica o pontificia: Luigi Massari, banchiere e appaltatore delle Valli di Comacchio creato conte nel 1810; Luigi Gulinelli, creato conte da Gregorio XVI; Giovanni Costabili Containi, creato conte da Napoleone e poi marchese nel 1841 sempre dal papa; Luigi Recchi, che ebbe il titolo di conte da Pio IX.
Saranno i discendenti di questa nuova nobiltà tra i protagonisti dello sviluppo dell’agricoltura ferrarese nel secolo XIX, mentre grandi proprietari appartenenti alla nobiltà cederanno invece una grande massa di beni fondiari alle società che intrapresero la bonifica e i colossali prosciugamenti iniziati dopo il 1870 nelle paludi dell’oriente ferrarese. La sola Ferrarese Land Reclamation Company (poi SBTF) dalla sua costituzione il 20 luglio 1871 al 1877, anno in cui il Consorzio di bonifica del I Circondario Polesine di San Giovanni redasse un proprio catasto consorziale, acquistò dai vecchi proprietari ben 15.182 ettari. Vendettero 127 ettari il conte Luigi Saracco; 507 gli ebrei Parenzo e Levi; 715 il marchese Cesare Bevilacqua; 493 Giuseppe Pavanelli; 428 Alessandro Navarra; 880 il conte Giacomo Gulinelli; 222 il conte Stefano Graziadei, e via proseguendo cedettero le loro terre i casati nobili Varano, Golfarelli-Trotti e altri. Alienarono alla SBTF vasti beni la comunità di Mezzogoro (842 ha) e Codigoro (99 ha). Nel Polesine di San Giorgio vendettero propri beni di uso comunitario all’ingegnere milanese bonificatore Girolamo Chizzolini e al figlio Luigi le comunità di Comacchio (Valle Gallare, 3.586 ha) e quella di Massafiscaglia (Valle Volta, 3.518 ha).
In definitiva, dopo i sommovimenti dell’età napoleonica, la provincia di Ferrara conobbe un secondo terremoto negli assetti fondiari. Faceva il suo ingresso nell’attività agricola sulle terre di bonifica un nuovo gruppo di proprietari, ormai costituito da società anonime (Società Cirio, Società Agricola Immobiliare Veneta, Società Anonima Immobiliare Lodigiana, la Société Vaudoise d’Exploitations Agricoles di Losanna, ecc.). Dietro un mercato fondiario sempre più allargato oltre i confini provinciali lavorava il capitale bancario, sia italiano (Banca di Torino) sia straniero, per buona parte a componente ebraica (Banca Ulrico Geisser, Banca Klein di Vienna).
Agli inizi del XX secolo la provincia di Ferrara mostrava orgogliosa in un congresso internazionale sulle bonifiche le colossali trasformazioni intervenute nella parte orientale del suo territorio, vantandosi di poter essere da allora chiamata «l’Olanda d’Italia».
FC, 2012
Bibliografia
Mario Zucchini, Il Catasto Carafa del secolo XVIII nel ferrarese, «Rivista di storia dell’agricoltura», a. VI, 3, settembre 1966, pp. 219- 232; Teresa Isenburg, Investimenti di capitale e organizzazione di classe nelle bonifiche ferraresi, Firenze, La Nuova Italia, 1971; Giorgio Porisini, Bonifiche e agricoltura nella bassa Valle padana (1860-1915), Milano, Banca Commerciale Italiana, 1978; Franco Cazzola, Il catasto Carafa nella legazione di Ferrara, in «In primis una petia terre». La documentazione catastale nello stato pontificio, Atti del convegno di studi (Perugia, 30 settembre - 2 ottobre 1993), «Archivi per la storia» a. VIII, 1-2, gennaio-dicembre 1995, pp. 281-294.
Nell’Ottocento e fino alla metà del Novecento le campagne del Ferrarese centrale e occidentale si presentavano nei mesi dell’estate come una ordinata foresta fatta di filari di olmi, a cui stavano addossate e intrecciate viti. Tra filare e filare, oltre ai prodotti centrali del ciclo agricolo come i cereali (frumento e mais) grandi macchie di verde cupo si alzavano fino a oltre tre metri a chiudere l’orizzonte dei campi, specialmente nelle terre migliori (le “terre vecchie”): erano i campi che ospitavano la canapa.
La canapa (cannabis sativa) è una pianta erbacea annua da cui si ottiene una robusta fibra tessile, un tempo utilizzata per cordami, spaghi, vele, reti da pesca. Dopo una faticosa e accurata lavorazione le lunghe fibre di canapa, arrotolate in grandi matasse erano destinate al mercato nazionale e internazionale. Ai grandi mercati andavano le fibre più lunghe e lucenti, molto apprezzate per la qualità rispetto alle canape a fibra corta provenienti dalla Russia e dalla Spagna e anche rispetto a quelle della varietà di canapa molto alta (canapa cinese) coltivata nel Napoletano. Il sottoprodotto che restava dopo l’estrazione del tiglio e l’accurata selezione mediante “pettinatura” delle fibre migliori era utilizzabile per ottenere anche tele e tessuti più o meno grossolani, frutto per lo più della filatura e tessitura domestica eseguita dalle donne contadine.
Bisogna ricordare che una sottospecie della cannabis sativa è la cannabis indica, cioè la canapa indiana molto più ricca di sostanze stupefacenti. La difficoltà a riconoscere le due sottospecie della stessa pianta rende oggi problematico un ritorno sui nostri campi di questa coltivazione.
In Italia il cuore della produzione specializzata della canapa era localizzato nelle province emiliano-romagnole orientali, Bologna e Ferrara in primo luogo. Anche il Veneto (soprattutto Padova e Rovigo) aveva avuto in passato una importante produzione di fibra, destinata all’Arsenale di Venezia. La diffusione della coltura è accertata in età medievale sulle vallate del Frignano ma già nel 1400 essa va ad occupare le più favorevoli terre di pianura del Bolognese (San Giovanni in Persiceto e Cento). Dal Centese, dopo che nel 1502 il suo territorio era entrato a far parte del Ducato di Ferrara, la coltivazione della canapa iniziò la sua marcia verso il Ferrarese centrale, dove affiancava nel corso del Seicento la più tradizionale coltura del lino (Linum Usitatissimum), coltivato nel Ferrarese come materia tessile per gli abiti estivi del contadino e per utilizzazioni più raffinate. Un celebre dipinto del Guercino descrive con grande efficacia il faticoso lavoro della canapa nella fase centrale del processo produttivo: l’estrazione dei fasci di piante dal maceratoio e la loro collocazione in pile coniche ad asciugare. Nel 1741 il letterato centese Ambrogio Baruffaldi dedicava proprio alla canapa un poemetto, da lui annotato con numerose informazioni sulla coltivazione della preziosa pianta tessile.
Nel corso del secolo XIX il primato produttivo della canapicoltura passò dalla provincia di Bologna a quella di Ferrara. Legata alla consistente esportazione di canapa verso l’Inghilterra è la residenza in Ferrara, nella prima metà dell’Ottocento, del viceconsole inglese William Donald McAlister (1798-1880), una delle figure interessanti del Risorgimento, noto per aver salvato nel 1849 la città dal bombardamento austriaco.
A fine Ottocento, mentre il paese stava uscendo dalla lunga crisi dei prezzi agricoli e cerealicoli (1881-96), l’esportazione di canapa offriva un importante sostegno all’economia provinciale, come attestava in due articoli pubblicati sulla rivista «l’Italia Agricola» il direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura di Ferrara Adriano Aducco. A scala nazionale la coltura della canapa era concentrata in Emilia-Romagna, che con 390.000 quintali realizzava il 53,5% della produzione. L’altro grande polo produttivo si trovava in Campania, dove le province di Napoli e Caserta fornivano, con 163.000 quintali, quasi un quarto della fibra di canapa italiana. Seguivano con apporti minori il Veneto e il Piemonte. La provincia di Ferrara, con ben 190.000 quintali produceva da sola oltre un quarto (26,5%) della produzione nazionale, superando ormai largamente quella di Bologna (130.000 quintali pari al 17,8%). Al terzo posto si collocava Caserta, con 105.000 quintali (14,5 per cento). Nel corso dell’Ottocento solamente l’Impero russo, che produceva 2,1 milioni di quintali su una superficie di 632.000 ettari, superava la produzione italiana, che Aducco stimava aggirarsi tra il 16 e il 18 per cento della produzione mondiale.
Per dare un’idea di quanto la canapa fosse ormai coltura di primaria importanza nell’economia delle famiglie di mezzadri, boari e braccianti ferraresi, basterà ricordare che sul finire del secolo XIX dei 4.218 telai domestici censiti nella provincia, ben 3.075 erano destinati alla tessitura di lino e canapa. Ma la fatica maggiore del lavoro contadino era riservata alla coltivazione e alla lavorazione sul podere per ottenere la canapa grezza, il cui prezzo finale era strettamente legato alla qualità, lunghezza e resistenza della fibra. Queste caratteristiche si ottenevano grazie ad abbondantissime concimazioni; a lavorazioni profonde e all’aerazione del suolo in profondità con vangatura supplementare del solco tracciato dall’aratro (ravagliatura); a diserbi, diradamenti e sarchiature dopo la nascita delle piantine; alla macerazione ottimale degli steli nei maceratoi (màsar), grandi vasche in cui gli steli della pianta uniti in fasci venivano affondati con grossi ciottoli di fiume per ottenere il distacco del tiglio. Quest’ultima importante fase della lavorazione avveniva però dopo altre faticose operazioni che consistevano nel taglio delle bacchette alla base nei primi giorni di agosto; la loro esposizione al sole prima disponendoli sul suolo a spina di pesce, poi raggruppandoli in mazzi sovrapposti e incrociati a X (messa in cagna) ed infine rialzandoli da terra in grandi pile coniche (pirle) per essiccare il fogliame. Seguiva sul campo la ripetuta sbattitura degli steli per ottenere la rimozione della parte fogliare ormai secca; la creazione di fasci formati da 20 mannelle ciascuno di lunghezza uniforme con selezione degli steli in base alla loro lunghezza (tiratura); la legatura in fasci degli steli; il trasporto e l’affondamento dei fasci nel maceratoio. Dopo alcuni giorni avveniva l’estrazione dei fasci dall’acqua ormai putrida, l’apertura delle mannelle e la loro faticosissima lavatura, nelle prime ore del mattino, per eliminare la parte verde superficiale. Da una buona lavatura dipendeva spesso la qualità mercantile delle fibre. «Chi non lava bene la canapa – scriveva l’agronomo Giuseppe Ragazzi – ottiene tiglio bigio (argentino) e sporco, e che per di più, durante la successiva lavorazione, spande abbondante e molesto polverìo». Di nuovo la canapa lavata veniva posta ad essiccare in pile coniche legate in cima. Riunita ancora in mannelle si accatastava in cumuli (tasselli) ricoperti e protetti dalla pioggia con altre mannelle che formavano una specie di tetto.
Seguivano poi, dopo il trasporto sull’aia delle mannelle, le faticose operazioni per l’estrazione della fibra. Qui avveniva di solito la frantumazione a mano con bastoni e gramole delle bacchette (scavezzatura e gramolatura) per provocare la separazione del tiglio dalla parte legnosa (sticc, canapuli), questi ultimi destinati a importante combustibile domestico. Il ciclo agricolo della canapa si completava con la riunione delle mannelle gramolate in coppioni o manoni (ammanamento), con la loro esposizione alla rugiada del mattino e la legatura dei capi. Con essi si procedeva alla formazione di mazzole composte da 20 manoni (cioè 200 mannelle) legate tra loro e disposte in magazzino in forma di grossi cubi.
I commercianti di canapa, mediatori e mercantini, acquisito il prodotto, organizzavano le successive fasi che si possono definire come il ciclo industriale della canapa. Esso consisteva nella pettinatura con graffi metallici e nella perfetta ripulitura della fibra da residue parti legnose, operazione svolta da artigiani specializzati (canepini, gargiolari). Durante questa fase avveniva anche la selezione delle fibre per qualità: le più fini e incolori erano destinate alla filatura, mentre quelle più grossolane ed opache andavano alle produzione di cordami. Allo scopo si formavano delle matasse distintamente per qualità, pronte per la vendita e per il trasporto ad opera dei commercianti che piazzavano la fibra sui mercati.
La canapa e le sue faticosissime lavorazioni hanno segnato in profondità la memoria storica dei contadini, dei braccianti e degli agricoltori ferraresi. La coltivazione di questa fibra tessile con contratti di compartecipazione del lavoratore al risultato è stato lo strumento con cui il mercato e le sue leggi sono penetrate nelle campagne fin dal secolo XVII coinvolgendo uomini, donne e ragazzi nel suo lungo e complesso ciclo produttivo. L’Ottocento ha visto la provincia di Ferrara al primo posto offrendo ai suoi agricoltori una fonte di redditi monetari di primaria importanza. Sul duro lavoro della canapa si è formata anche nei lavoratori agricoli una prima coscienza dei propri diritti. Le grandi lotte agrarie del 1897 e degli anni 1901-1903 portarono il Ferrarese all’attenzione del Parlamento nazionale ma anche ai primi contratti collettivi di lavoro scritti che stabilivano la remunerazione del faticosissimo lavoro dei coloni, boari, castaldi e braccianti ferraresi per una coltura che rimarrà dominante nelle campagne ferraresi fino alla seconda guerra mondiale.
FC, 2011
Bibliografia
Adriano Aducco, Produzione e commercio della canapa, 1, «L’Italia Agricola - Giornale di Agricoltura», XXXIII, n. 23, 15 dicembre 1896, pp. 541-544; Id., Produzione e commercio della canapa - 2, ivi, XXXIII, n. 24, 30 dicembre 1896, pp. 560-563; Una fibra versatile. La canapa in Italia dal Medioevo al Novecento, a cura di Carlo Poni, Silvio Fronzoni, Bologna, Clueb, 2005; Tra campagna e industria: attività tessili nel Centopievese, a cura di Carla Bagni, Cento, Società editrice Baraldi, 1988; Renato Sitti, Roberto Roda, Carla Ticchioni, Il lavoro della canapa nel ferrarese, Ferrara, Arstudio C, 1982.
L’agricoltura ferrarese dell’Ottocento rientra tra i sistemi agricoli a base organica, ossia funzionanti prevalentemente ad energia primaria (sole) e a ciclo chiuso. L’unità principale della produzione, l’azienda agricola, usa infatti quasi esclusivamente energia prodotta dalla famiglia contadina e dagli animali impiegati nell’aratura e nei trasporti. Questo vale anche per tutto quanto può servire da concime per la riproduzione della fertilità del suolo. Solo dopo la metà del XIX e nei primi anni del XX secolo le macchine mosse dal vapore e i primi motori a combustione interna cominceranno a sostituire uomini e animali in alcune operazioni agricole maggiormente faticose: la trebbiatura dei cereali, l’aratura dei suoli più tenaci, la falciatura dei foraggi, il sollevamento dell’acqua dai bassifondi a scopo di bonifica. Si diffonderà anche rapidamente l’uso di concimi chimici prodotti da fabbriche o comunque provenienti dall’esterno dell’azienda agricola. L’agricoltura delle “terre nuove” create dalla bonifica a partire dal 1870 nel Ferrarese orientale comincerà a sconvolgere la struttura sociale dell’agricoltura concentrando sulle terre prosciugate con le macchine idrovore una massa crescente di lavoratori avventizi e giornalieri. Aziende agricole con centinaia e migliaia di ettari diventeranno alle soglie del XX secolo protagoniste assolute della vita economica, creando un conflitto sociale sempre più acuto tra un capitalismo agrario e bancario e il lavoro precario di giornalieri e braccianti, nuova classe sociale unita dalla ricerca quotidiana e disperata di occupazione. La cerealicoltura praticata su queste terre nude di case, di alberi e viti, create in breve tempo dalla bonifica sarà infatti all’origine della forte disoccupazione stagionale dei lavoratori e dei gravi problemi sociali che investiranno le campagne ferraresi nel Novecento.
Volgeremo perciò lo sguardo soprattutto sull’agricoltura “tradizionale”, che mantiene le sue caratteristiche principali fino alla metà del Novecento. Essa veniva praticata su quelle che i ferraresi chiamano le “terre vecchie”, ovvero sui terreni di più antica coltura, a giacitura più elevata e con caratteristiche del suolo migliori (terre di medio impasto). Al suo centro vi era la “possessione”, cioè quella unità produttiva costituita da un complesso di appezzamenti di terra, di edifici di abitazione e di servizio (stalle, pollai, porcili, forno, pozzo, tettoie ecc.), di dotazioni tecniche e strumentali, di forze umane ed animali.
Questo genere di azienda agricola svolgeva funzioni di produzione, di trasformazione e di consumo molto più ampie e diversificate di quanto non avvenga ai nostri giorni. Basterà considerare la massa di oggetti che componevano la dotazione media di una “boaria” ferrarese, che rappresentava l’unità aziendale di base delle nostre campagne, detta localmente versuro. Nell’ambito dell’azienda e della famiglia colonica erano svolte anche lavorazioni che oggi consideriamo esclusivamente extra-agricole o ricadenti nell’ambito di attività specializzate: l’allevamento del baco da seta, delle api, delle pecore, la lavorazione domestica del lino e della canapa, la produzione e cottura del pane, la fabbricazione dei salumi e degli insaccati, quella di burro, formaggi e ricotte, la vinificazione e la conservazione del vino prodotto sul podere.
La relativa autosufficienza dell’azienda agricola tradizionale, pur nel quadro di crescenti e sempre più strette relazioni con il mercato, era anche il prodotto di un preciso equilibrio dei rapporti agronomici e delle singole funzioni fra di loro. Nel corso dell’Ottocento questo equilibrio appare consolidato e assume le caratteristiche di un vero e proprio modello economico-agrario.
Si considerino, ad esempio, le stesse dimensioni fisiche del versuro, che, come si è detto, è l’unità agronomica di base tipica del Ferrarese, con una superficie compresa fra i venticinque e i trentadue ettari. Questa singolare misura agraria nasce, al pari di molte altre (biolca, jugero, ecc.) come effetto di un rapporto tecnico abbastanza rigidamente determinato fra la natura prevalentemente tenace dei suoli del Ferrarese e la dimensione del tiro animale dell’aratro (ferr. varsùr) necessario per eseguirne l’aratura in tempi debiti. Il limite tecnologico che deriva dall’uso degli animali come fondamentale energia motrice e la necessità di utilizzare per l’aratura un tiro molto potente impongono al podere la dotazione di una vasta base foraggera per il nutrimento degli animali della stalla e conseguenti dimensioni della “pezza”, cioè dei campi arabili, dei fienili e pagliai, delle stalle. Per questo motivo la superficie agraria utilizzata tende a ruotare attorno ad una misura ottimale di venticinque-trenta ettari.
L’agricoltura ferrarese, dal Rinascimento in avanti, appare strutturata, quanto a dimensioni poderali, attorno ad un elemento centrale: la “seminatura” di frumento. Al frumento è riservata almeno metà della superficie dell’arativo (avanzone), avvicendandolo con cereali inferiori (segale, orzo, avena) e con gli altri “marzatelli” rappresentati da leguminose (fave, ceci, fagioli, lenti, ecc.) e altre colture primaverili, come il lino e il sorgo (melica). Una parte dell’arativo era poi lasciata a riposo col sistema del maggese lavorato (terre “manzatiche”). Tra campo e campo di arativo il sistema prevedeva la presenza di spazi erbosi (strene) su cui erano impiantati filari di alberi (campagne abbragliate). Ad essi erano maritate le viti in varie fogge (a festone, a cavalletto, ecc.). L’alberatura dei campi, nelle varie forme assunte dalla piantata padana, oltre a fornire sostegno vivo alle viti, assicurava nei mesi estivi una disponibilità di foraggio supplementare, proprio mentre gli erbai riducevano la loro forza vegetativa. Vaste superfici a prato e a pascolo completavano la dotazione fondiaria della possessione ferrarese. Per larga parte dell’Ottocento questa rimase la dimensione agronomica e tecnica dominante sulle terre vecchie.
L’agricoltura ferrarese, tradizionalmente vocata alla produzione del frumento, conosce però tra Seicento e prima metà dell’Ottocento, due importanti novità: l’ingresso precoce (fine secolo XVI) della coltura del mais (granoturco, o frumentone), e la formidabile espansione della coltivazione della canapa, fino al punto che la provincia di Ferrara sopravanza in quantità prodotta anche la vicina Bologna da cui era partita la coltivazione. Alla fine dell’Ottocento giungerà infine la barbabietola da zucchero.
Gli agronomi ferraresi dell’Ottocento descrivono molto chiaramente le dotazioni ormai tipiche del versuro ferrarese in termini di forza-lavoro e di forza animale. Per quanto riguarda quest’ultima, la tradizione che ci appare consolidata nelle opere di Andrea Casazza e di don Michele Cariani si fonda sulla regola della “scala di sedici bovini” costituita da dieci animali tiratori accoppiati al giogo in ordine decrescente di età, e dalla “scorta” costituita da due vacche fattrici, due vitelli lattanti e due vitelli di un anno o anguanini.
Anche la forza-lavoro umana, necessaria alla conduzione di un versuro a proprie mani, cioè in economia da parte del proprietario o conduttore con il patto colonico, non scritto, detto di boarìa, rimane predeterminata in modo tendenzialmente rigido. Gli agronomi ferraresi tendono a stabilire quale sia la “soglia” minima di unità lavorative familiari da impiegare nei lavori campestri e nella cura della stalla durante il corso dell’annata agraria partendo dal presupposto, implicito o esplicito, che minimo debba essere il ricorso a manodopera avventizia e giornaliera, la cui retribuzione resta a carico del proprietario. Il lavoro avventizio o giornaliero di braccianti e castaldi, necessario nei momenti di punta del lavoro agricolo o per le operazioni più faticose legate alla canapa, è presente in varia misura ai margini (braccianti) o nell’ambito dell’azienda agricola (castaldi), spesso remunerato con forme di partecipazione al raccolto.
Nel podere ideale di Andrea Casazza, composto da venticinque ettari di seminativo e da cinque ettari di prato, la forza di lavoro ottimale deve essere fornita da tre uomini, uno dei quali con il compito di boaro e due con la mansione di bragliani, cioè addetti ai lavori campestri. Delle tre donne necessarie alla vita produttiva della famiglia colonica, una resta addetta ai lavori della casa mentre le altre due devono aiutare in campagna. È ritenuta infine necessaria la presenza di due ragazzi, dei quali uno deve assolvere alla funzione di boarolo addetto alla stalla e l’altro di custode del bestiame al pascolo e in particolare dei vitelli e delle vacche da latte (vaccarino). Anche secondo don Michele Cariani la possessione ferrarese esige almeno sette persone attive oltre ai ragazzi e ai bambini. Per il governo della stalla si dovrebbe poter contare, infatti, su almeno due uomini e un giovanetto.
FC, 2011
Bibliografia
Don Michele Cariani, L’agricoltura ferrarese in pratica, ovvero guida per dirigere ed eseguire i lavori campestri secondo le osservazioni ed esperienze più accurate e per ottenere i più belli ed abbondanti prodotti, opera di un vecchio agricoltore ferrarese, In Ferrara, per A. Taddei e figli tipografi editori, s.d.; Andrea Casazza, Stato agrario economico del Ferrarese, Ferrara, Domenico Taddei, 1845; Franco Cazzola, L’agricoltura ferrarese del passato. Profili strutturali e linee evolutive, in La terra vecchia. Contributi per una storia del mondo agricolo ferrarese, Atti degli incontri di studio, a cura di Violetta Ferioli e Roberto Roda, Firenze, La Casa Usher, 1989, pp. 11-20; Giuseppe Ragazzi, Sistemazione ferrarese delle campagne «abbragliate», edito dall’Ispettorato provinciale dell’agricoltura di Ferrara pei tipi della SATE, Ferrara, 1942; Mario Zucchini, Storia del versuro ferrarese, in Georgici ferraresi del passato, a cura dell’Associazione laureati in scienze agrarie Ferrara, Bologna, Tamari, 1968, pp. 15-31.