Angela Ghinato

Angela Ghinato

Ferrarese, laureata nel 1984 con una tesi di storia estense premiata con borsa di studio da “Soroptimist International” (1985), dopo aver insegnato in istituti di istruzione secondaria e collaborato con l’Università di Ferrara prima quale coordinatore didattico e responsabile della progettazione (con Anna Quarzi) per il diploma di perfezionamento in “Didattica della storia” (2000-2001), poi quale docente nell’area beni culturali (2003-2005), è free lance nel campo della ricerca storica. Si occupa inoltre di ricerca d’archivio e di editoria specializzata. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni su temi riguardanti il Ferrarese; collabora con diverse case editrici e con istituzioni culturali; svolge lezioni sulla storia e lo sviluppo del territorio presso scuole e corsi di formazione professionale; collabora con un’associazione che progetta e realizza percorsi didattici sul territorio e nei musei ferraresi. Per due volte (1999 e 2007) ha vinto il premio “Francesco Ravelli” bandito dal Comune di Ficarolo (Rovigo) per ricerche storiche sul territorio della Transpadana ferrarese (Piccole storie di antiche terre. Appunti storici e spunti di ricerca tra XVI e XIX secolo, in Transpadana ferrarese. Terre e genti di confine, Ferrara, Comunicarte, 2000; La “villeggiatura” di Ficarolo in un inventario del 5 aprile 1892, in Villa e villeggianti, Rovigo, Minelliana, 2009).

Tra le pubblicazioni, alcune delle più importanti: Frammenti di storia. Terre bondenesi nelle carte dell’Archivio Giglioli, in Studi di storia civile bondenese, «Atti e Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di Storia Patria, s. iv, vol. xiv (1997); Terre, acque, uomini e case tra xvi e xix secolo, in Migliaro e Migliarino. Un millennio di storia in comune (Ferrara, Cartografica, 2000); La villa del Verginese: da casa a castello”, in Il Verginese: progetto per un’identità ritrovata, a cura di Anna Maria Visser Travagli (Comune di Portomaggiore, 2000); L’Archivio di Casa Giglioli, presentato da Gianni Venturi (Ferrara, Istituto di Studi Rinascimentali, 2001); Le terre di Bondeno nelle carte dei periti agrimensori ferraresi. Repertorio commentato delle perizie da Bartolomeo Coletta a Giuseppe Maestri - 1853-1890 (Comune di Bondeno - Archivio di Stato di Ferrara, Cartografica, 2002); L’istituzione del Dipartimento del Basso Po. Storia, memoria e uomini, in Terra di Provincia. Uomini Donne Memorie Figure, a cura di Delfina Tromboni (Ferrara, 2003); Parlano le carte dell’Archivio: “microstorie” tra donazioni, legati ed eredità, in Alfredo Santini, Etica Banca Territorio. L’Archivio del Monte di Pietà di Ferrara (Milano, Federico Motta, 2005); Ferrara e il pane. Un viaggio lungo settecento anni (Bologna, Atlante, 2007); Il tempo e la gente nei documenti. Fonti e storia per Argenta e il suo territorio, in Catalogo generale del Museo Civico di Argenta (Ferrara, Este Edition, 2008); Il paesaggio, le emergenze, i borghi, la gente: percorsi sul territorio storico, in Gente di terra e di acque. Il Comune di Formignana nel Centenario della fondazione (1909-2009), a cura di Delfina Tromboni (Ferrara, Nuove Carte, 2009); Storie di uomini coraggiosi. 1860: l’Italia da fare (con Fabio Passarotto; Ferrara, Este Edition, 2010).

È socio effettivo della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, socio onorario della “Ferrariæ Decus”.

Martedì, 04 Settembre 2012 07:49

Pane

Il «pane più buono del mondo» – così definito da Riccardo Bacchelli sulle pagine del «Corriere della Sera» (1958) – e la classica forma della “coppia” diventata una delle icone di Ferrara, ha dipanato la sua lunga storia attraverso vicende legate alla città, alla sua pianura, alle sue atmosfere e alle sue leggi fin dal XIII secolo, passando indenne o quasi attraverso i cambi di governo.

In età napoleonica, come nei secoli precedenti, il governo cercava di colpire le molteplici frodi commesse particolarmente dai mugnai. Nel triennio cisalpino, infatti, la crisi generale fu accompagnata dalla carestia dei grani, dovuta anche al gelo e alla scarsità di acqua che impedivano il funzionamento dei mulini sul Po, ritardando la macinazione. Un ordine della Repubblica Cisalpina dato in Ferrara nel 1798, ammoniva che nemici dell’ordine pubblico tentavano di suscitare un allarme per la carestia del pane, facendone comperare per diverse persone: per questo motivo solo i capi di famiglia potevano acquistare personalmente il pane, dichiarando onestamente la composizione del proprio nucleo familiare per non incorrere nel processo secondo le Leggi normali di Polizia.

Con la Restaurazione, il governo pontificio iniziò la vendita dei mulini galleggianti che fin dall’età estense affollavano la riva del Po tra Francolino e Pontelagoscuro. Incombeva sempre la minaccia della carestia, tanto che si dovette ricorrere alla preparazione del “pane di mistura” confezionato con farine di cereali minori mescolate a patate lessate e del triste “pane succedaneo” preparato con farine di ghiande da quercia, rovere, cerro e simili. La rilevanza sociale della panificazione non era molto considerata in età pontificia e il commercio dei grani era regolato in modo caotico sotto la copertura di un sistema doganale controllato dagli austriaci. Proprio in un episodio di contrabbando di grani fu coinvolto il corrotto delegato pontificio conte Filippo Folicaldi, il cui emblema nel Salone degli Stemmi del Castello Estense è stato annerito per cancellarne la memoria.

Una nuova valorizzazione dell’arte dei fornai si ebbe nel 1863 con l’apertura del “Forno sociale”, nell’intento di favorire le classi meno agiate. Sei anni dopo, però, lo Stato fece applicare la “tassa affamatrice dei popoli” e i mugnai boicottarono le macine, arrivando ad aspri scontri sociali proprio per l’imposizione sul macinato (Legge n. 4490, 7 luglio 1869), abolita gradualmente solo dal 1880.

Nello stesso 1869 il nuovo Regolamento di Polizia Municipale disciplinava la materia su forni e mugnai: alcuni articoli richiamavano legislazioni precedenti, perfino norme già presenti negli statuti di Ferrara del 1287.

Nell’Ottocento non cessarono gli abusi che implicavano i fornai. Nel 1841, per esempio, il proprietario di due panifici in città pubblicizzava il pane di lusso detto “mistone”, preparato con farina di granturco, nonostante gliene fosse stata vietata la vendita. In alcune località del Ferrarese ci si lamentava per il pane poco fermentato, disgustoso e addirittura rischioso per la salute.

Col tempo decaddero, almeno formalmente, le disposizioni a tutela del consumatore; il pane era venduto non solo nei “forni”, ma anche nelle locande, dai pizzicagnoli e dai girovaghi. Nel 1873 alcuni fornai si riunirono in società: furono loro, due anni dopo, a segnalare che a Ferrara il numero dei panificatori era superiore rispetto a tutte le città italiane. Si erano però aggiunti degli abusivi che non denunciavano il peso del pane e lo consegnavano a domicilio (anche al personale degli uffici pubblici) senza controlli da parte delle autorità. Per legge, infatti, le pezzature dovevano corrispondere ai campioni depositati presso il Consolato di Annona e per chi contravveniva erano previste sanzioni pecuniarie, il carcere e l’interdizione dall’esercizio, pena che colpì la proprietaria di un forno di via della Rotta (via Garibaldi) perché vendeva pane sottopeso traendone un vantaggio economico.

Anche i fornai aderirono agli scioperi di fine secolo, cercando un riconoscimento adeguato alle esigenze di vita e di lavoro. L’8 maggio 1897 la Giunta comunicava pubblicamente che in seguito alla dichiarazione di sciopero dei lavoranti fornai la vendita del pane sarebbe stata fatta, a cura del Municipio, presso la già Chiesa di San Maurelio (Chiesa Nuova) (ora Sala Estense). Lo stesso succedeva nel 1898, quando il Comune, invitando la cittadinanza alla calma, pregandola di considerare le cause di diversa natura: gli scarsi raccolti, la guerra Ispano-Americana e l’agitazione dei grandi mercati che avevano determinato un forte rialzo nel prezzo del grano e delle farine e, per conseguenza del pane, lo mise in vendita a 40 centesimi il chilo ancora nella Chiesa Nuova, segnalando che il Municipio pagava la stessa quantità alla “Società degli Esercenti Fornai” 48 centesimi.

Secondo un avviso comunale del 1° maggio 1898 in città erano in attività 10 rivenditori di pane e 35 fornai, mentre al 1° dicembre si contavano 11 rivenditori e 34 fornai, quattro dei quali si davano il turno, mese per mese, tenendo aperto il loro negozio fino alle ore 21; il prezzo del pane per chilogramma oscillava tra i 35 e i 70 centesimi, secondo la pezzatura. Tra le pagnotte e le coppiette, in un avviso pubblico compare anche il curioso nome “svizzerone” che richiama l’idea di una “coppia” di grandi dimensioni, ma bisogna ricordare che nel 1862 un panificio situato nella piazza del Mercato (piazza Trento e Trieste) fu ceduto alla ditta “Balzar e Liesch” e fu sempre chiamato “il forno degli svizzeri”.

La Redazione, 2012

Bibliografia

Geminiano Grimelli, Metodi pratici per fare al bisogno pane e vino con ogni economia e salubrità nelle circostanze specialmente di carestia, Modena, Tip. Vincenzi, 1854; Giorgio Mantovani, Profumo di pane, «La Pianura», 3, 2000, pp. 60-65; Angela Ghinato, Andrea Samaritani, Paolo Righi, Ferrara e il pane. Un viaggio lungo 700 anni, Monteveglio (Bologna), Atlante, 2007.

Martedì, 10 Gennaio 2012 13:54

Fotografia

Era il 7 gennaio 1839 quando il deputato francese François-Jean Arago esponeva sommariamente all’Accademia delle Scienze francese l’invenzione di Louis-Jacques Mandé Daguerre, presentata poi ufficialmente il 19 agosto dello stesso anno all’Accademia delle Scienze e delle Belle Arti di Parigi. Lo stesso Arago aveva proposto un contributo economico per la dagherrotipia, la creazione del pittore e scenografo Louis-Jacques-Mandé Daguerre che, unendo le proprie esperienze a quelle del ricercatore Nicéphore Niépce, aveva realizzato immagini dagherrotipe, riproduzioni meccaniche che aprirono la strada alla vera e propria fotografia. Non senza questioni su diritti di paternità, tra la Francia e l’Inghilterra – dove già nei primi anni dell’Ottocento il ceramista Thomas Wedgwood aveva portato avanti importanti ricerche – l’invenzione, in continuo e rapido miglioramento, si dilatò in tutta l’Europa e nelle Americhe. In Italia il fenomeno trovò un riscontro notevole specialmente nelle regioni del centro-nord, nonostante lo stato sociale e politico degli anni 1840-60.

Se Bologna fu la prima città italiana a pubblicare la traduzione dal francese del manuale di Daguerre (Historique et description des procédés du daguerréotype et du diorama, Paris, Alphonse Giroux et Cie, 1839), a Ferrara – ancora in bilico tra Stato pontificio e Austria – il primo articolo riguardante l’invenzione comparso su un giornale data al 23 gennaio 1851, più di vent’anni dopo l’annuncio di Parigi. Dalle pagine de «L’incoraggiamento», il segretario dell’Istituto Conferenza Agraria, Massimiliano Martinelli, titolava: “Istruzione popolare: il daguerrotipo”, mentre in città si diffondeva il fenomeno dei “fotografi viaggiatori”, ricordati da annunci pubblicitari degli anni tra il 1850 e il 1861. Se ne leggono numerosi sulla «Gazzetta di Ferrara», come l’arrivo da Ginevra di Enrico Béguin, che assicurava in pochi secondi ritratti coloriti di gruppi e fanciulli dalla somiglianza perfettissima grazie al nuovo metodo di Parigi, al costo di uno scudo e oltre (18 ottobre 1850). Béguin riceveva in piazza Municipale, tutti i giorni, qualunque sia il tempo, nella casa del sarto Barritoni o Berettoni, dove ebbe il suo studio provvisorio anche un tale Lewis che offriva la scelta tra un ritratto a dagherrotipo o un più economico ritratto su lamina e carta eseguito entro la stanza e senza il sole in 8-10 secondi (17 luglio 1851). Tra i fotografi itineranti era anche il ferrarese Tancredi Ragazzi, di passaggio proveniente da Roma, che lavorava al dagherrotipo con esattezza, precisione e inappuntabile somiglianza ricevendo nella trattoria di Geminiano Paltrinieri da Santa Margherita strada Volta Paletto n. 1820, proponendo, oltre ai ritratti, vedute e gruppi in miniatura (3 maggio 1853). L’apprezzato artista tedesco Ferdinando Brosy nel 1856 aveva lo studio al terzo piano dell’albergo “Stella d’Oro” in piazza della Pace (ora corso Martiri della Libertà angolo via Cairoli): assicurava ritratti che sorpassano in somiglianza, precisione e finezza tutti quei metodi che sono finora conosciuti (24 febbraio 1856).

La prima uscita ufficiale della fotografia ferrarese fu in occasione della “Terza festa agraria provinciale d’incoraggiamento con esposizione agricolo-industriale e del bestiame” tenuta a Ferrara dal 13 al 20 luglio 1857 e inaugurata da papa Pio IX Mastai Ferretti. Nel catalogo della rassegna stampato a Ferrara da Taddei, tra gli espositori compare una non meglio identificata Pierina Cappellati (non si sa se fotografa o proprietaria delle immagini) con Saggi di fotografia, nella categoria “Prodotti industriali - oggetti e lavori distinti d’arte e industria manifatturiera qualunque”.

Il bolognese pittore e scultore Raffaello Ferretti aprì per primo, nel 1863, uno studio fotografico a Ferrara, seguito di lì a poco tempo da Giovanni Gattei, ottico che nel 1861 offriva al colto pubblico ferrarese ... un grande assortimento d’oggetti d’ottica, tra cui objettivi per fotografia («L’Eridano», 30 agosto 1861) e che aprì il suo primo studio in società con Paladini in via della Rotta (ora via Garibaldi) in faccia alle Tre Corone.

Recuperando il ritardo accumulato nella propria crescita grazie al miglioramento della rete ferroviaria e alla caduta delle barriere doganali, in età postunitaria Ferrara vide lo sviluppo di varie attività economiche e commerciali: dal 1863 operarono in città, con ottimi risultati, diversi stabilimenti fotografici, perlopiù inquadrati come aziende artigianali a conduzione famigliare. Prevalentemente impegnati nell’esecuzione di ritratti, si ricordano, oltre al già citato Raffaello Ferretti che poi si trasferì a Roma e a Napoli, l’artigiano Ettore Codognato che esercitò dalla fine dell’Ottocento occupandosi anche dell’applicazione della fotografia alle arti grafiche (corso Giovecca 64, all’insegna “La Glisentiana”); il veronese Pietro Codognato che, essendo pittore, eseguì ritratti fotografici molto vivaci tra il 1870 e il 1887 negli studi di via Madama e del palazzo Crispi di via Borgo dei Leoni, dove subentrò al celebre Francesco De Rubeis, attivo dal 1865, trasferito in via Madama 31, poi in piazza Sacrati dal 1880 e infine in via Garibaldi 34 dal 1903, con un successo che ha resistito per mezzo secolo. Dagli inizi del Novecento aveva lo studio in via XX Settembre Gualtiero Fabbri, mentre intorno al 1914 il valente dilettante Sarro Ferraguti aprì l’attività insieme ad Alberto Giulianelli in via Borgo dei Leoni 42, collaborazione che terminò quando Giulianelli, qualche anno più tardi, si mise in proprio. Nella geografia degli studi professionali ferraresi rientrano quello dei fratelli Roveri, fin dagli anni Sessanta in via della Picca (ora via Ercole de’ Roberti); di Luigi Vancini, dal 1866 in via del Turco 16; lo studio “Fotografia Ariostea” (via Ripagrande 21) di Alfonso Galassi nel 1874 e due anni dopo condotto da Vincenzo Passari che, visto il sensibile aumento di commissioni da quando egli era subentrato nella gestione, invitava tutti coloro che bramino dedicarsi all’arte fotografica e che abbiano qualche cognizione di disegno, a presentarsi per occupare due posti di ritoccatori per le prove positive e negative («Il Popolo», 26 marzo 1876). Ancora lavoravano con successo gli studi di Romualdo Gervasutti, dalla fine degli anni Ottanta successore di Pietro Codognato in via Borgo dei Leoni 28, dedicandosi anche alle vedute esterne e a lavori specializzati; di Guido Mignani, con sede dal 1884 nel palazzo Schifanoia; di Alessio Roppa, operante alla fine dell’Ottocento in via Saraceno 45; di Adrasto Rossi dagli inizi del Novecento in via Vittoria 66. Specializzato in istantanee per bambini era lo studio “Fotografia Artistica” di Settimio Buzzoni, situato in piazza delle Erbe (ora Trento e Trieste) di fronte al Campanile del Duomo («Indicatore generale di Ferrara», 1914). Ultimo, ma soltanto per cronologia, è da ricordare lo stabilimento fotografico “Vecchi e Graziani”, che iniziò l’attività nel secondo decennio del Novecento in via Camposabbionario 11 per poi trasferirsi in via XX Settembre 131: negli anni Venti e Trenta fu uno dei migliori studi della città.

Tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento la passione per la nuova tecnica artistica coinvolse professionisti, imprenditori, personalità di rilievo della borghesia ferrarese che si cimentarono come “dilettanti” riprendendo particolarmente Ferrara e i suoi monumenti. Tra questi, l’ing. Giulio Gatti Casazza (direttore del Teatro Comunale di Ferrara, della Scala di Milano e del Metropolitan di New York) privilegiava i paesaggi; Alberto Zaina collaborò agli inizi con il citato Sarro Ferraguti, lasciando poi documentazione dei suoi viaggi in Italia e all’estero in numerosi negativi stereografici (lastre in vetro); il dottor Ottorino Leoni partecipò ad esposizioni presso il palazzo dei Diamanti (1900) e nella ex chiesa di San Lorenzo (1903); il pellicciaio Tito Obici si dedicò ai monumenti ferraresi producendo immagini utilizzate, tra le altre, da Giuseppe Agnelli per il suo Ferrara e Pomposa (Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1902); l’ing. Carlo Turchi, contitolare del saponificio di Pontelagoscuro e consigliere della Cassa di Risparmio, dedito a vedute ferraresi e a dettagli architettonici. Altri dilettanti di ottime capacità furono l’avv. Umberto Avogadri, sindaco di Vigarano Mainarda (1901) e scrittore; il letterato, pittore e critico d’arte Ferruccio Luppis; il farmacista del borgo di San Giorgio Giuseppe Bonatti, il marchese Alfonso Costabili, il conte Antonio Scroffa e molti altri. Il più attivo tra gli amatori fu il medico Nando Bennati, che collaborò con i principali editori ferraresi (Fontana, Pistelli e Bartolucci, Noglage, ecc.) fornendo le immagini per cartoline illustrate tra la fine dell’Ottocento e il 1905.

Parallelamente alla passione per la fotografia, si sviluppava il magazzino dei negozi specializzati: l’ottico Dalan era tra i più forniti di Ferrara; l’ottico Alberto Buffa (portico del Teatro) pubblicizzava il grande assortimento delle vere macchine fotografiche inglesi ad obbiettivo acromatico; la cartoleria Ruiba (piazza Commercio, ora parte di corso Martiri della Libertà) promuoveva le proprie macchine fotografiche d’ogni genere, istantanee e per posa, e relativi accessori a prezzi di fabbrica («Gazzetta Ferrarese», 1889-90). L’ottico Maruzzi si rivolgeva ai potenziali dilettanti informandoli che con sole lire 18 ogniuno può essere fotografo, invitandoli nel suo negozio sotto il portico dei Camerini, oggi piazza Savonarola («Chichèt da Frara», 24 novembre 1889).

Verso la fine dell’Ottocento si diffondeva il ritratto di gruppo, e nel primo decennio del Novecento prendevano piede i “ritratti emozionali” e i “ritratti multipli” dell’eclettico Federico Camuri – fotografo, pittore, restauratore e “cinematografista” – che nel suo studio di via Centoversuri prima e di via Porta San Pietro poi, eseguiva insiemi di immagini ricavate con il procedimento delle doppie esposizioni.

La smania per la fotografia che aveva investito anche le scuole era disapprovata da «La Rivista» (21 aprile 1893) a causa della richiesta alle famiglie di concorrere volontariamente con un contributo in denaro: Non basta la spesa continua per nuovi libri, quaderni, penne, ecc. ... molti insegnanti fanno eseguire in gruppo la fotografia della propria scolaresca, tassando ogni singolo allievo di cent. 10 e di cent. 60 se ne prendono una copia .... I fotografi ambulanti erano bollati come una delle piaghe del genere umano, antesignani dei “paparazzi” che appena hanno addocchiato la loro vittima, la seguono con perversa attrazione e non l’abbandonano fino a che non si è presentato il momento opportuno ... la negativa si prende quando il soggetto si aggiusta la cravatta, si soffia il naso, tira su la calza.... Il fotografo dilettante è traditore per sua natura, colpisce spesso alle spalle e arriva a mascherare la macchinetta diabolica tra le pieghe di un fazzoletto o di un giornale... («Gazzetta Ferrarese», 23 settembre 1898). Il dibattito sulla nuova invenzione e sui nuovi artisti si inseriva in quello più ampio del confronto/scontro tra pittura e fotografia, che ha visto di fronte pareri discordi: chi sosteneva che la fotografia avesse ucciso la pittura, chi, al contrario considerava la fotografia una sorta di continuazione della pittura con altri, più moderni strumenti. I ritratti pittorici, in particolare, erano prerogativa della nobiltà e davano lavoro agli artisti del pennello, messi in crisi dalla forte domanda di ritratti fotografici e dalla nascita di una nuova professione, che permetteva anche alla fantesca di farsi ritrarre con pochi soldi ... Viva il progresso che anche per mezzo della fotografia fa scomparire i privilegi («La Sentinella del Po», 22 novembre 1865).

 

AG, 2012

 

Bibliografia

Alberto Cavallaroni, Ferrara nelle cartoline illustrate (1895-1945), Ferrara, Banca di Credito Agrario, 1979; Dino Tebaldi, I pionieri della fotografia nella Ferrara crepuscolare, «La Pianura», 2, 1979; Roberto Roda, Renato Sitti, Carla Ticchioni, Fotografia ferrarese (1850-1920), Portomaggiore (Ferrara), Arstudio C, 1984 (testi di Michele Perfetti, Renato Sitti, Dino Tebaldi, Giovanni Guerzoni, Roberto Roda, Lucio Scardino, Carla Ticchioni, Eros Menegatti); Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza combattimento”, Milano, Bruno Mondadori, 2000.

 

 

Mercoledì, 21 Dicembre 2011 21:59

Cartografia

«I progressi della scienza geografica sono disgraziatamente dovuti a una causa terribile, la guerra, che spinge a conoscere i territori che poi distrugge...»: questo scriveva nel 1803 il cartografo e ingegnere militare Giovanni Antonio Rizzi Zannoni (Padova, 1736 - Napoli, 1814), richiamando, per perfezionare la materia, la necessità di una collaborazione di tutti i sovrani che si erano «più applicati a distruggere il mondo che a misurarlo». L’esigenza di “conoscere i luoghi” era una priorità per i regnanti dell’epoca, per Napoleone, per esempio, che fin dal tempo delle prime campagne d’Italia aveva nominato un bureau cartografico diretto dal pittore paesaggista e cartografo Bacler d’Albe, in grado di rendere sulla carta la vista degli obiettivi che il generale intendeva attaccare.

Altro intento, primariamente civile, portò alla progettazione e alla stesura, tra il 1812 e il 1814, della cosiddetta Carta del Ferrarese conservata al Kriegsarchiv di Vienna, ultimata proprio sul finire della dominazione napoleonica: un unicum nel panorama cartografico dell’epoca, sia per la vastità del territorio raffigurato e per la pregevole qualità tecnica, sia per la rilevazione su grande scala dell’ampia area prima dei lavori di bonifica intrapresi dall’ultimo quarto dell’Ottocento. La carta – composta da 38 tavole in scala 1:15.000, disegnate a china e colorate ad acquarello – faceva parte della raccolta costituita presso il Deposito della Guerra di Milano (creato nel 1803, emanazione del Dépôt de la Guerre di Parigi), che dopo il 1815 e l’istituzione del Regno Lombardo-Veneto passò automaticamente all’Istituto Geografico Militare dell’Imperiale Regio Stato Maggiore austriaco, vincolato a Vienna ma con direzione e personale tecnico italiani.

La carta comprende le terre del “Basso Po”, entro i confini amministrativi dell’omonimo Dipartimento, istituito dal decreto vicereale dell’8 giugno 1805, con Ferrara capoluogo e suddiviso nei distretti di Ferrara, Rovigo, Comacchio e Adria (nel 1807 inserito nel Dipartimento del’Adriatico). Era uno strumento a disposizione di ingegneri e di tecnici idraulici, come dimostra la particolareggiata rilevazione anche toponomastica, attenta all’idrografia del territorio da Ficarolo al mare, tra il Po Grande, il Po di Volano e il Po di Primaro. Non figurano la parte occidentale del Comune di Bondeno (al tempo Comune di Burana) e il comparto di Poggio Renatico entrato nel Ferrarese nel 1796; naturalmente mancano i Comuni di Cento, Sant’Agostino e Mirabello che appartenevano in età napoleonica al Dipartimento dell’Alta Padusa prima, poi a quello del Reno, ma vi è aggiunta, a sud, una fascia territoriale che sconfina nei Dipartimenti del Reno e del Rubicone (Molinella, Marmorta, Sant’Alberto) e, a nord, il Delta padano, dal 1807 parte del Dipartimento dell’Adriatico nel distretto di Adria. Comacchio è ancora un’isola, e lo rimarrà fino al 1825. Oltre a tutto l’edificato e alla minuziosa rappresentazione con diverse colorazioni dell’uso del suolo, spicca la viabilità con i percorsi postali segnalati in rosso, per esempio il tragitto tra Padova e il Bolognese che, passando per Polesella e fiancheggiando il Po oltrepassa il fiume con un traghetto a Pontelagoscuro raggiungendo Ferrara presso la porta di San Benedetto, per proseguire attraverso la bonifica della Sanmartina.

Gli studiosi hanno notato un collegamento tra la grande carta e il rilievo catastale condotto e compiuto sul Ferrarese dalla Direzione Generale del Censo di Milano tra il 1807 e il 1812.

Del ricco fondo cartografico conservato presso la biblioteca Ariostea fanno parte alcune rappresentazioni territoriali rilevate nel XIX secolo utili alla comprensione di un territorio in via di cambiamento in particolare per le trasformazioni idrauliche. Esempi in questo senso sono la Carta topografica dei lavori idraulici eseguiti dal 1767 al 1816 di Tommaso Barbantini (Fondo Cartografico Crispi, serie XIV, 61), raffigurante solo il territorio a sud del Po di Volano con le date dei maggiori interventi di canalizzazione e la Topografia della provincia ferrarese, della pianura bolognese e di una parte delle provincie di Romagna con l’indicazione dei lavori idraulici eseguiti dal 1767 a tutto giugno 1836 (ivi, 57) dello stesso Barbantini, dove sono rilevati i centri abitati, le strade, le stazioni di posta, i boschi, le zone umide, i terreni dunosi e le risaie, rilevate anche nella Topografia del territorio centese ... con l’indicazione delle risaie di Stefano Ficatelli datata 1820 (ivi, serie XIV, 79). L’edilizia cittadina compare nella pianta degli stabilimenti religiosi, politici, militari e civili stilata nel 1834 da Francesco Pampani (ivi, serie XV, 16bis), mentre sono da ricordare le carte della città (1888) e della provincia di Ferrara (1899) di Enrico Scanavini (Serie Rossa, 8 e 24), nonché la nota Pianta della città di Ferrara nell’anno 1597 di Filippo Borgatti, redatta nel 1895 (ivi, 3), importante strumento di confronto per la facies urbana. Altrettanto celebre la pianta piano-prospettica di Andrea Bolzoni, che nel 1800 veniva ancora ristampata dall’originale del 1747 (Nuova pianta ed alzato della città di Ferrara, con tutte le sue strade, chiese, palazzi ed altre fabbriche come si trovano nell’anno 1747), «a testimonianza di una popolarità che porta a identificare la città in questa sua rappresentazione», come scrive Ranieri Varese. Nello stesso anno si ristampava anche un altro strumento cartografico: la Corografia del Ducato di Ferrara di Ambrogio Baruffaldi, del 1758, di prevalente interesse idrografico ma dove per la prima volta vengono messi in risalto l’insediamento e la rete viaria del Ferrarese.

Non si deve trascurare, infine, la microcartografia prodotta dalla schiera di tecnici periti agrimensori che depositavano, come prevedeva la legge, le copie delle loro perizie nell’Ufficio Governativo, riordinato nell’Ottocento dall’ingegner Pietro Colla, anch’egli perito di cui sono conservate stime tra il 1841 e il 1844. I corposi carteggi, datati a partire dalla fine del XVI secolo, riuniti in 546 buste sono custoditi dal 1962 nell’Archivio di Stato di Ferrara, versati dalla Prefettura. Le meticolose rilevazioni degli agrimensori assecondavano, ancora, l’esigenza di “conoscere i luoghi” non solo da parte di chi voleva verificare i confini delle proprie terre, che potevano cambiare nel giro di poco tempo a causa delle alluvioni (rotte di fiumi e canali), ma anche per studiare l’andamento degli argini, la posizione delle chiaviche, per la livellazione dei corsi d’acqua, ecc. Attraverso le perizie, a volte corredate da disegni, è possibile delineare la microstoria di una casa di città o di campagna, di una terra – sia essa una piccola braglia o un’estesa tenuta –, leggendovi il paesaggio agricolo insieme a quello della corte aperta ferrarese dominata dai grandi fienili: “una casa ed un fienile di pietra merita ogni terreno che si abbia a coltivare”, annotava il perito Luigi Passega in una sua relazione del 1798.

Più in generale, nel corso dell’Ottocento la quantità di informazioni da mettere sulla carta era in crescita continua, così che l’imponente massa di dati diede origine alla cartografia tematica (atlanti fisici e fisico-economici), mentre si sviluppava la tecnica della rappresentazione a grande scala. Dopo l’unificazione italiana (1861) i servizi cartografici degli Stati furono aggregati – a fatica, dati i differenti metodi di rilevazione e le diverse scale – negli uffici dell’Esercito Italiano, dove trova le proprie radici l’Istituto Geografico Militare, istituito nel 1882.

 

AG, 2011

 

Bibliografia

Una carta del Ferrarese del 1814, a cura di Stefano Pezzoli e Sergio Venturi, Ferrara, Amministrazione Provinciale, Bologna, Istituto per i Beni Culturali Artistici Naturali della Regione Emilia Romagna, 1987; Paola Zanardi, Mappe digitali in biblioteca, «Ferrara. Voci di una città», 15, 2001, pp. 33-37; Le terre di Bondeno nelle carte dei periti agrimensori ferraresi. Repertorio commentato delle perizie da Bartolomeo Coletta a Giuseppe Maestri (1583-1890), a cura di Angela Ghinato, Comune di Bondeno - Archivio di Stato di Ferrara, Ferrara, Cartografica, 2002; Ranieri Varese, Andrea Bolzoni incisore, storico e cronista, in Gli Este a Ferrara. Il Castello per la città, a cura di Marco Borella, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana, pp. 113-115.

Mercoledì, 21 Dicembre 2011 21:48

Cooperazione

Dagli anni Sessanta dell’Ottocento erano stati diversi e numerosi i tentativi di formare cooperative di produzione e lavoro, progetti coraggiosi che fallirono nel giro di pochi anni non riuscendo a rafforzarsi per la generale mancanza di fondi da investire. Tra cooperative di produzione e lavoro – dove i soci sono al tempo stesso produttori e lavoratori – e cooperative di consumo – dove i soci-consumatori acquistano e rivendono beni di qualità a condizioni migliori e senza intermediari –, non furono facili gli esordi della cooperazione ferrarese, che tuttavia rappresentò sempre una realtà in forte movimento.

Il germe della cooperazione ferrarese, con i primi esperimenti nel campo del consumo, è da ricercare nella più antica Società Operaia Maschile di Mutuo Soccorso, creata nel 1860, che promosse un Forno Sociale, aperto a Ferrara tre anni più tardi grazie ai fondi provenienti dal prestito sociale con il concorso dell’amministrazione comunale. Se la vita del Forno fu breve e complicata, l’esperienza fu basilare per l’avvio di un Magazzeno Cooperativo di Consumo, aperto al pubblico il 1° settembre 1868 e attivo per dieci anni tra mille difficoltà fino alla morte del presidente, Felice Cavalieri (fondatore, tra l’altro, della Banca Mutua Popolare di Ferrara). Inizialmente dedito alla vendita di farine e paste, già dall’ottobre seguente il magazzino allargò lo smercio a caffè, zucchero, sapone, aromati, amido, candele steariche, farina, fava ed orzo.

La prima cooperativa di produzione e lavoro della provincia nacque a Bondeno a seguito della rotta del Po (23 ottobre 1872) che aveva allagato quelle terre immobilizzando l’agricoltura; fondatore della Cooperativa delle Operaje Tessitrici di Bondeno Ferrarese fu l’allora assessore Gioacchino Napoleone Pepoli (ministro del governo Rattazzi e sindaco di Bologna, con residenza estiva presso Bondeno), sostenuto da Luigi Luzzatti (senatore e teorico della cooperazione), dal Comune e dalla marchesa Federica di Hohenzollern, moglie di Pepoli, che ebbe la presidenza della società. L’originale progetto prevedeva, a lungo termine, l’interazione tra agricoltura e industria anche tramite un’importante qualificazione del lavoro femminile, ma naufragò presto, nel 1877, a causa di un credito non riscosso.

La prima cooperativa di consumo di cui si ha notizia nel Ferrarese è quella di Cento, costituita nel 1875 e fallita sei anni più tardi.

In tutta la provincia nascevano via via associazioni di generi diversi: dall’Unione cooperativa di consumo i cui soci erano impiegati, professionisti, docenti e pensionati di Ferrara (1889; probabile derivazione dell’analoga Società di mutuo soccorso del 1871) all’Unione cooperativa rurale tra i dipendenti dell’azienda agricola “F.lli Spisani” di Cologna Ferrarese (1897), alla Cooperativa farmaceutica di Guarda Ferrarese (1897); dalla prima cooperativa di matrice socialista di Voghiera (1898) poi estesa a Voghenza, Ducentola e Gualdo (1901) con 150 soci e dalla quale ebbe origine alla cooperativa di consumo di Portomaggiore (1903), alle cooperative di consumo di Codigoro (1903, nata dalla Fratellanza Artigiana di Mutuo Soccorso), di Poggio Renatico (1903), di San Biagio d’Argenta (1904), alla nuova cooperativa di consumo di Boccaleone (1905).

Dal 1888 si erano formate in tutto il Ferrarese Società braccianti e Società braccianti e costruttori – associazioni ibride, in quanto a metà strada tra le cooperative di lavoro e quelle di produzione – associati in autogestione: tra il 1888 e il 1889 a Berra, Ferrara, Bondeno, Voghiera, Voghenza, Formignana, Roncodigà Cologna, Copparo, Serravalle, Guarda, nel Basso Ferrarese (la cui Sezione Po includeva i Comuni rivieraschi tra Copparo e Mesola), Casumaro, Argenta; nel 1890 a Vigarano, San Martino, Poggio Renatico; oltre a cooperative di sarti, di calzolai, di barbieri, a società cooperative come quella degli operai braccianti ed artieri di Villa di Guarda, Ro, Zocca, Francolino, Tamara (1890), per la costruzione di case economiche a Bondeno (1890) e di case operaie a Ferrara (1890); la società cooperativa braccianti di Ariano, Massenzatica, Santa Maria in Bosco (1891); la società cooperativa tra operai, braccianti, muratori e affini di Ferrara (1891)... e l’elenco potrebbe continuare coinvolgendo ogni centro della provincia.

L’intento delle classi meno agiate – in particolare braccianti e operai – di tramutare il proprio stato di necessità in una risorsa per modificare le cose, di assicurarsi “pane, libertà e giustizia”, ruotava attorno al cardine dell’esigenza di intervenire sul territorio per opere di pubblica utilità. E proprio sul finire dell’Ottocento il movimento cooperativo interpretava appieno quell’intento, mettendo in gioco operai e braccianti in prima persona per trasformarli in imprenditori di loro stessi.

Il 19 dicembre 1896 nacque una prima forma di consociazione nella Federazione delle Cooperative di Produzione e Lavoro della Provincia di Ferrara, Bologna e Ravenna con sede ad Argenta, che si rifaceva al modello della prima associazione bracciantile, quella di Ravenna fondata nel 1883.

Gli sconvolgimenti sociali di fine secolo, le proteste e gli scioperi sfociati in processi contro i dimostranti accusati di reati «contro la libertà del lavoro», misero all’angolo il movimento cooperativo, costringendolo a segnare il passo.

La materia della cooperazione diede adito a discussioni, a un lungo dibattito teorico, a polemiche tra socialisti e moderati, fino alla convocazione da parte della Federazione provinciale delle leghe tra i contadini del primo congresso dei cooperatori ferraresi, fissato per l’11 ottobre 1903. Il fine dell’incontro era di dare vita a una Federazione Provinciale delle cooperative di produzione e lavoro. Al primo congresso, che si tenne solo alla vigilia di Natale nei locali della Camera del Lavoro e vide nascere la Federazione (presidente ing. Ugo Mongini, segretario Raffaele Mazzanti), ne seguirono altri, più o meno condivisi, che si intrecciarono ai fatti nazionali (per esempio la guerra di Libia), creando schieramenti e ancora scissioni politiche tra i cooperatori.

In età giolittiana (1901-1913) i sodalizi della Federazione furono qualificati quali «tesoro di attività e di virtù», una ricchezza che, muovendo i primi passi tra associazioni di stampo mutualistico e soccorsista, aveva «introdotto l’idea e la pratica della solidarietà operaia» – come scrive Delfina Tromboni – in una tra le province italiane più povere, in un momento in cui il Ferrarese vedeva forti investimenti di capitali, per la maggior parte stranieri, nelle grandi opere di bonifica.

Tra complicate vicende politiche si era tenuto il V congresso provinciale delle cooperative il 31 gennaio 1914, che, secondo le cronache («La Scintilla», 8 febbraio 1914), aveva sollevato una «discussione vivace e contraddittoria» sulla cooperazione agricola, riconoscendo, infine, la debolezza della cooperazione di consumo, da accrescere mediante la realizzazione di un «magazzino centrale per il rifornimento delle cooperative della provincia», per il quale però servivano forti mezzi finanziari di cui «purtroppo» la cooperazione ferrarese non poteva disporre.

Iniziava così il declino, concluso in un paio di anni, della Federazione provinciale, mentre l’economia ferrarese era dominata dal neonato Consorzio provinciale delle cooperative di produzione e lavoro, fondato da 14 cooperative e operativo dal 1913 con la presidenza di Quirino Lugli e sotto l’esperta guida del direttore amministrativo Raffaele Mazzanti.

 

AG, 2011

Bibliografia
Renato Sitti, Italo Marighelli, Un secolo di storia del movimento cooperativo ferrarese, 1860-1960, Roma, Editrice Cooperativa, 1960; Anna Rosa Remondini, La cooperazione di consumo nella provincia di Ferrara dalle origini al 1972, Bologna, Clueb, 1982; Delfina Tromboni, Dal mutualismo alla cooperazione: il percorso ferrarese (1860-1960), in Emilia Romagna Terra di cooperazione, a cura di Angelo Varni, Bologna, Eta/Analisi, 1990; Delfina Tromboni, «A noi la libertà non fa paura...». La Lega Provinciale delle Cooperative e Mutue di Ferrara dalle origini alla ricostruzione (1903-1945), Bologna, il Mulino, 2005.

Venerdì, 16 Dicembre 2011 22:26

Biblioteche

Il 6 luglio 1796, all’indomani dell’occupazione francese, emissari napoleonici si presentarono alla Municipalità di Ferrara per visitare nel palazzo delle Scienze (palazzo Paradiso) la Pubblica Biblioteca – nata da circa quarant’anni – con il compito di prelevare i materiali di maggiore interesse da trasferire alla Biblioteca Nazionale di Parigi. La ripetitiva e conosciuta prassi a cui dovevano ubbidire tutte le città occupate da Napoleone aveva messo in allarme Giuseppe Faustini, l’accorto bidello della Biblioteca, che ebbe il tempo di mettere al sicuro i pezzi unici e più pregiati all’interno dell’alzata delle cornici di legno che ancora oggi chiudono le scansie di quella che era la Prima Sala (ora Sala Ariosto). Si salvarono così gli autografi di Ariosto, Tasso, Battista Guarini insieme ad edizioni del XV e XVI secolo, tanto che il commissario francese incaricato dovette accontentarsi di due codici quattrocenteschi, per di più mutili, lasciati intenzionalmente in bella vista da Faustini.

La Biblioteca – titolare della quale era l’Università – rientrava nei servizi da razionalizzare nel quadro dell’organizzazione amministrativa del nuovo regime, con il quale venne comunque stabilita una fattiva collaborazione. Fin dal 1796 l’Università inoltrò la richiesta di unire al patrimonio librario i volumi della biblioteca dell’umanista Celio Calcagnini e quelli del giurista Marco Aurelio Galvani, lasciati in eredità, rispettivamente, ai conventi di San Domenico e dei Teatini, entrambi soppressi dal regime francese. Seguì un decreto che imponeva agli enti religiosi ferraresi aboliti o in via di abolizione la consegna alla Pubblica Biblioteca dei loro libri, intervento che iniziò nel gennaio 1797 con l’asportazione di codici di ogni epoca e di tutte le edizioni del XV secolo, di opere che potessero sostituire pezzi usurati, di tutte le opere di autori ferraresi o riguardanti Ferrara o, ancora, prodotte da stampatori ferraresi, nonché di quelle che servissero a completare collezioni possedute dalla Biblioteca. I volumi scartati dallo spoglio vennero in parte ridistribuiti a conventi che svolgevano attività didattiche e scolastiche, come, per esempio, i padri Somaschi del convento di San Nicolò (poi cacciati nel 1801 per ordine della Cisalpina), mentre il rimanente fu raccolto in San Domenico e in Sant’Agnese. Francesco Azzolini, Giuseppe Faustini e suo figlio Vincenzo vennero incaricati della redazione degli elenchi di quanto prelevato dalle biblioteche conventuali: secondo la stima del bibliotecario Luciano Gallisà circa 8.000 preziosi volumi erano entrati nella Biblioteca alla fine dell’operazione. Lo stesso Gallisà – che con orgoglio commentava come la Biblioteca potesse “gareggiare con [biblioteche] più famose e ricche d’Italia” – in seguito si adoperò per aggiornare il patrimonio con l’acquisto di “novità” come l’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert, proseguito negli anni seguenti con Girolamo Baruffaldi junior, il nuovo bibliotecario al quale si deve l’acquisizione di altre numerose edizioni francesi. La Biblioteca mostrava già una propria tipologia anche per i lasciti databili tra la metà e la fine del XVIII secolo, nel tempo del bibliotecario Giovanni Andrea Barotti, letterato e bibliofilo: dalle librerie del cardinale Cornelio Bentivoglio (1749-50) e dell’abate Giuseppe Carli (1758) alla considerevole donazione del cardinale Giovanni Maria Riminaldi (1780-82) – collezionista, bibliofilo e promotore della Riforma dell’Università di Ferrara (1771) –, oltre all’assegnazione, da parte del pontefice, dei volumi conservati nelle librerie della Compagnia di Gesù, soppressa nel 1773. Nel periodo austriaco (maggio 1799 - gennaio 1801) che precedette il ritorno dei francesi, superato l’ostacolo della paventata restituzione dei volumi provenienti dai riabilitati enti religiosi anche grazie all’intervento del cauto bibliotecario Baruffaldi jr., il XIX secolo dovette affrontare il problema della complessa riorganizzazione funzionale, per “assorbire” gli accrescimenti pure sul piano dello spazio a disposizione. L’aspetto logistico fu risolto dall’architetto Antonio Foschini, mentre il vice bibliotecario Prospero Cavalieri Ducati si occupò della catalogazione, producendo 13 grossi tomi tra il 1802 e il 1813. Nel frattempo l’Università era stata sospesa e degradata a Liceo (1803) e la Biblioteca, ormai acquisita una propria specificità, divenne una struttura autonoma, raggiungendo l’indipendenza anche amministrativa sancita dal Regolamento del 1847 e rimanendo tale anche quando fu istituita la Libera Università (1862).

Altra biblioteca nata dalla fusione di diversi patrimoni librari è quella di Cento (aperta nel 1760 con la donazione del notaio Gianfrancesco Cariani), alla quale fu incorporata la libreria del Collegio Clementino che a sua volta aveva assorbito nel 1774 il patrimonio librario della soppressa Compagnia di Gesù. A questo si aggiunse l’accorpamento della libreria dei Cappuccini, ricca di edizioni pregiate e di incunaboli. Nel 1870, a seguito della chiusura del Collegio Clementino, la biblioteca divenne proprietà del Patrimonio degli Studi (fondazione testamentaria del XVII secolo) che sovvenzionò l’acquisto di libri e nel 1900 incaricò un bibliotecario del riordino e della compilazione dei cataloghi, che in quegli anni contarono circa 11.000 volumi.

Secondo il regio ispettore delle scuole primarie della provincia di Ferrara, il piemontese Agostino Dalmasso, nel disordine dei programmi educativi anche l’insegnamento elementare era “un privilegio, un monopolio di casta”. Era il 1862 quando rientrò nel programma di recupero della qualità della didattica la fondazione a Ferrara delle scuole magistrali, affiancate da una Biblioteca Magistrale che raccoglieva opere tendenti “a fare buoni maestri”. Nonostante gli ottimi proponimenti e il sostegno dei privati e dei Comuni, la biblioteca venne superata, nel 1878, dall’istituzione della Biblioteca Pedagogica, aperta nei locali dell’omonimo sodalizio in via Borgo dei Leoni, il 26 agosto 1880. La “nuova” biblioteca era improntata ai princìpi del mutuo soccorso tra gli affiliati della Società Pedagogica, secondo il modello sociale a cui faceva riferimento anche l’associazionismo culturale ferrarese dagli anni Sessanta dell’Ottocento.

La diffusione del libro (anche del genere romanzo) e della cultura “aperta a tutti” spinsero il presidente della filantropica Società Savonarola, Giovanni Gattelli, a mettere a disposizione i volumi della biblioteca dell’associazione, che aveva come scopo “la diffusione dell’istruzione intellettuale e morale”. La prima biblioteca popolare circolante di Ferrara esordì nell’ultimo trimestre del 1868, quando i libri – miranti all’“istruzione del popolo” – rigorosamente controllati e catalogati, vennero ammessi al prestito per i soci nella sede presso il liceo classico “Ariosto” in via Borgo dei Leoni. L’attività della biblioteca ebbe un buon riscontro: tra il maggio 1874 e il dicembre 1875, per esempio, si avvicendarono 356 lettori, movimentando in generale oltre 5.000 libri. La società si sciolse nel 1888 e la sua biblioteca, come stabilito dallo statuto, fu versata all’amministrazione comunale che a sua volta individuò nella Biblioteca Pedagogica l’erede del lascito. Dalla fusione emerse una notevole raccolta con un proprio catalogo stampato dalla Tipografia Sociale (1890), ma il carattere divulgativo e popolare della Biblioteca Savonarola perdette la sua specificità con l’accorpamento nella più tecnica Biblioteca Pedagogica.

Mentre a Ferrara si sentiva la mancanza di una biblioteca realmente “popolare”, altri Comuni andavano dotandosi di proprie biblioteche circolanti: a Bondeno, per esempio, la biblioteca popolare circolante costituita nel 1884 era connotata principalmente dall’importante sezione di storia locale, di cui facevano parte anche manoscritti, come la settecentesca Cronaca bondesana.

La Camera di Commercio creò, nel 1874, un “Gabinetto di Lettura” in alcuni vani situati sopra alle sale commerciali. Grazie al buon risultato, l’iniziativa poté svilupparsi, completandosi nel 1914 con l’istituzione della Biblioteca Popolare Ferrarese, del cui comitato direttivo faceva parte il bibliotecario comunale Giuseppe Agnelli. Nata anche questa a fianco di un istituto scolastico (la scuola serale di commercio) e come biblioteca circolante per il modesto numero dei libri disponibili, inizialmente fu aperta soltanto agli affiliati della Società Operaia, della Consociazione Mutua, agli operai degli stabilimenti industriali, agli studenti della scuola serale, ma nel giro di due anni si corredò di un proprio catalogo e diede inizio all’incremento del patrimonio librario (con sovvenzioni della Camera di Commercio e della Provincia), a seguito del quale il servizio di prestito per un mese fu aperto agli impiegati e salariati delle amministrazioni pubbliche, agli studenti della III classe tecnica e a quelli della III-IV-V ginnasio.

Ai primi anni del Novecento risale un tentativo privato di creare una rete di “bibliotechine” gratuite per gli alunni delle scuole elementari presso le scuole del Comune e della Provincia. Del progetto, che si affidava alla “generosità dei giovanetti delle famiglie agiate” e al “sacrificio” di una commissione di “Signore e Signorine” per curare la raccolta di denaro e di libri “educativi e dilettevoli”, fu promotrice Clara Archivolti – moglie del ferrarese prof. Giuseppe Cavalieri –, che con piglio imprenditoriale esportò con successo il programma in diverse città italiane.

I “giovanetti agiati” del progetto Archivolti provenivano da famiglie borghesi e nobili; di queste ultime sono da ricordare le biblioteche private, nascoste ai più nelle sale dei loro palazzi di città. Se alcune librerie o parte di esse, come le citate Bentivoglio e Riminaldi, andarono ad arricchire la Pubblica Biblioteca, altre vennero disperse. È il caso, per esempio, della celebre biblioteca (e della quadreria) di Giovanni Battista Costabili Containi, conte di nomina napoleonica (1809) e marchese di nomina pontificia (1836). Conservata nella “stanza della biblioteca” del palazzo di via Voltapaletto (ora sede della Facoltà di Economia), la libreria di circa 10.000 volumi fu messa in vendita dagli eredi in quattro lotti, a Parigi nel 1858. Ne resta il ricordo nel catalogo compilato da Giuseppe Antonelli.

Sorte simile, di dispersione ma anche di distruzione, conobbero numerose biblioteche private cresciute a Comacchio, tra le quali si ricordano in particolare quella del convento dei Cappuccini e quella del già citato Prospero Cavalieri Ducati, vice bibliotecario della Biblioteca Pubblica di Ferrara.

Da menzionare, infine, la presenza della più specialistica biblioteca del Seminario arcivescovile (dal 1721 in via Cairoli, già strada del Seminario), che, incrementata con acquisti e donazioni (non ultima quella dell’intera biblioteca del cardinale Ignazio Cadolini, arcivescovo di Ferrara dal 1843 al 1850), raggiunse nel Novecento i 25.000 volumi.

AG, 2011

Bibliografia

Alessandra Chiappini, «Dove schierati giacciono / mille volumi e mille». La Biblioteca Pubblica a Ferrara nella temperie cisalpina, in Ferrara. Riflessi di una rivoluzione. Itinerari nell’occasione della Mostra per il Bicentenario della Rivoluzione Francese, a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Corbo, 1989, pp. 135-145; Ead., Biblioteche popolari e circolanti a Ferrara tra Otto e Novecento, in 1892-1992. Il movimento socialista ferrarese dalle origini alla nascita della repubblica democratica, a cura di Aldo Berselli, Cento (Ferrara), Centoggi, 1992, pp. 157-163; Ead., Palazzo Paradiso e la Biblioteca Ariostea, Roma, Editalia, 1993; Giorgio Mantovani, La biblioteca popolare ferrarese, «La Pianura», 2, 1994, pp. 104-105; Aniello Zamboni, Biblioteche private di Comacchio, secoli XVI-XIX, Ferrara, Este Edition, 2009.

Venerdì, 16 Dicembre 2011 22:25

Archivi

I mutamenti di competenze nelle amministrazioni comunali che si sono verificati tra la fine del Settecento e il Novecento si rispecchiano nei metodi di archiviazione riscontrabili particolarmente negli archivi storici comunali. Lo scavo archivistico, infatti, deve tener conto di due stratificazioni: una formata dai documenti di età pre-napoleonica, generalmente ordinati per serie; la seconda che prende avvio nei primi anni del XIX secolo, in seguito all'introduzione del titolario d'archivio (classificazione suddivisa in categorie e articolata in sottoripartizioni aggiuntive, sulla base della quale i documenti sono sistemati in un ordine che riflette l'attività dell'ente). Su tutto il territorio nazionale l'omogeneità dei criteri di archiviazione si ebbe con l'applicazione della circolare del Ministero dell'Interno in materia di ordinamento degli archivi comunali (1° marzo 1897): la circolare Astengo (dal nome del ministro Carlo Astengo) disciplinava infatti l'organizzazione degli atti dei Comuni in quindici categorie ripartite in classi e fascicoli.

Rispetto alla conservazione e all'ordinamento degli archivi comunali, gli studiosi ritengono ottima la situazione specialmente nella seconda metà del Settecento (basti pensare ai diligenti e accurati repertori che permettevano di risalire facilmente all'atto ricercato), buona lungo tutto l'Ottocento e discreta nella prima metà del Novecento, fino al secondo conflitto mondiale che per alcuni archivi fu sinonimo di distruzione quasi totale. Il pensiero corre alle devastazioni di Argenta e di Portomaggiore – dove perdite archivistiche, oltre a scarti abusivi, si erano già verificate nel 1850, dovute anche a una sollevazione popolare – e alle forti diminuzioni subìte dagli archivi di Migliarino, Copparo, Vigarano Mainarda, Comacchio – continuativamente saccheggiato tra il XVI secolo e il primo Novecento –, Lagosanto e Massafiscaglia – già danneggiati in età napoleonica –, Ostellato – che nel 1807 era stato incendiato da briganti implicati in scontri tra fazioni locali – e Ro Ferrarese, dove fu traslocato, con l'intento di metterlo in salvo e conservarlo, l'Archivio della Legazione con i suoi due secoli e mezzo di storia post estense. I preziosi documenti della stagione legatizia ferrarese giacevano disordinati e in parte confusi con quelli dell'Archivio della Prefettura al secondo piano del Castello Estense; con il benestare del soprintendente agli archivi dell'Emilia, essi furono immagazzinati nell'agosto 1943 in un edificio adiacente la villa dei conti d'Harcourt, sede municipale di Ro Ferrarese, distrutta da un bombardamento alleato il 24 aprile 1945. Le carte, a quel tempo ancora poco indagate, comprendevano: tante serie quanti erano stati i cardinali legati che avevano governato Ferrara per conto dello Stato pontificio, ordinate cronologicamente fino al 1796; pochi documenti tra il 1796 e il 1802; carte posteriori al 1802, ordinate rigorosamente secondo la classificazione "determinata dalle leggi che ressero il regno italico", sistema che continuò ad essere applicato anche dopo la caduta dell'Impero francese. Nella pubblicazione del 1876 edita da Botta a Roma, Notizie generali e numeriche degli atti conservati negli archivi giudiziari, aggiornata al 1873, sono citati i 2.058.350 documenti facenti parte di alcune categorie dell'Archivio di Prefettura ferrarese.

Erano anni in cui si cercava di esortare l'interesse verso i giacimenti archivistici, come esprimeva Galdino Gardini, direttore del Museo Civico di Storia Naturale, in una lettera aperta al deputato al Parlamento Elio Melli (pubblicata dalla «Gazzetta Ferrarese» il 20 novembre 1895), sollecitando l'istituzione di un Archivio di Stato a Ferrara, progettato nel 1892 dal direttore dell'Archivio di Stato di Bologna, Carlo Malagola, e appoggiato nel 1893 dal giornale ferrarese «L'Indipendente». Il programma prevedeva che il nuovo Archivio si costituisse attorno al cospicuo Archivio Notarile ferrarese – "bene ordinato e tenuto dall'avvocato Ottorino Venturini" – unendovi quello comunale – in quel momento "senza archivista" –, quello dell'ospedale Sant'Anna e altri archivi che necessitavano di "radicale e scientifico ordinamento", tra cui quello "di Prefettura già Legatizio". Di questo, Gardini citava le serie degli atti di Polizia, dei Bilanci delle Comunità, del Tribunale, dell'Inquisizione di Adria, della Congregazione dei Lavorieri, riallacciandosi anche a quanto registrato da Francesco Bonaini sulle condizioni degli archivi emiliani alla fine del 1860. Si diceva che l'insieme degli archivi ferraresi fosse tra i più importanti d'Italia, e che se il progetto fosse stato realizzato, avrebbe chiuso "l'era della sottrazione e dilapidazione a cui purtroppo andò soggetta la sua Provincia che a tutti diede e non ebbe mai nulla...". Non mancarono i detrattori, che non influirono però sull'arenarsi del progetto, ripreso in considerazione nel 1899 con la relazione commissionata dal Ministero dell'Interno a Carlo Malagola (nel frattempo passato alla direzione dell'Archivio di Stato di Venezia) per un nuovo piano di formazione di un Archivio di Stato, che avrebbe trovato sede nell'ex convento di Santa Monica. Dopo un'altra lunga sosta, si riparlò a diverse riprese negli anni Trenta del Novecento della ricca documentazione abbandonata in condizioni precarie nel Castello, ma l'Archivio di Stato fu istituito a Ferrara solo il 15 novembre 1955, quando era già scomparsa la memoria di oltre due secoli di storia ferrarese. Il periodico Notizie degli Archivi di Stato, nel numero unico 1944-1947 (anni IV-VII) pubblicato nel 1950 e dedicato ai danni di guerra subiti dagli archivi italiani, riporta otto (ma forse furono di più) archivi ferraresi perduti in toto o in parte:

- Ufficio Atti Giudiziari Bollo e Demanio. Distrutto in parte. Bombardamenti del 5 giugno 1944

- Archivio Legatizio. Completamente distrutto. Bombardamento del 24 aprile 1945

- Tribunale. Distrutto dall'incendio del 22 aprile 1945

- Orfanotrofi e Conservatori. Semidistrutti. Bombardamento del 5 giugno 1944

- Archivio Capitolare. Distrutto

- Ufficio Demanio. Gravemente danneggiato

- Archivio Notarile. Una parte interamente distrutta

- Archivio privato Sacrati Strozzi. Danneggiato

Se il Camerale III conservato all'Archivio di Stato di Roma supplisce limitatamente alla perdita dell'Archivio della Legazione ferrarese, altri archivi o stralci di essi si salvarono, come, per esempio, l'Archivio dei Periti agrimensori (1563-1796), rimasto in Castello probabilmente perché funzionale ai lavori dell'Ufficio Tecnico provinciale; ora, accresciuto delle carte ottocentesche e riordinato nel XIX secolo dal perito Pietro Colla, è custodito presso l'Archivio di Stato.

In altre carte, in altri registri, durante l'Ottocento, si andava via via sedimentando la storia del Ferrarese: negli importanti archivi privati di famiglia – alcuni dispersi, altri poi acquisiti da istituti e da enti pubblici o ivi depositati –, in quelli di persone giuridiche che interagivano con il governo del territorio (archivi dell'Università, della Partecipanza Agraria di Cento, del Consorzio della Grande Bonificazione Ferrarese, del Teatro Comunale, della Lega delle Cooperative...), negli archivi ecclesiastici (Archivio Storico Diocesano, archivi parrocchiali) con i loro archivi aggregati.

La storia degli archivi ferraresi è stata dunque fortemente segnata da eventi politici e bellici, da sovrapposizioni e fusioni, ma è provato che nell'Ottocento si avvertiva la necessità di conservare, organizzare, accrescere i luoghi della memoria, incrementare quelle carte chiuse a chiave negli armadi e controllate, sfogliate, aggiornate costantemente da laboriosi archivisti, "essendo necessario per il buon governo la perpetuità delle scritture, senza le quali i posteri caminarebbero all'oscuro...", come recita una rubrica dei Capitoli del Monte di Pietà, il cui archivio è conservato presso la Cassa di Risparmio di Ferrara.

AG, 2011

Bibliografia

Francesco Bonaini, Gli Archivi delle provincie dell'Emilia. Le loro condizioni sul finire del 1860, Firenze, coi tipi di M. Cellini e C., 1861; Archivi storici in Emilia-Romagna. Guida generale degli Archivi storici comunali, a cura di Giuseppe Rabotti, Bologna, Analisi, 1991; Giacomo Savioli, L'Archivio di Legazione e il costituendo Archivio di Stato, «Ferrara Storia», 2, marzo-aprile 1996, pp. 11-16; Labirinti di carta. L'archivio comunale: organizzazione e gestione della documentazione a 100 anni dalla circolare Astengo, Atti del convegno nazionale (Modena, 28-30 gennaio 1998), Roma, 2001 (pubblicazione degli Archivi di Stato, Saggi, 67); Angela Ghinato, Andrea Nascimbeni, "Essendo necessario per il buon governo la perpetuità delle scritture...": l'Archivio del Monte di Pietà di Ferrara, in Alfredo Santini, Etica, banca, territorio: il Monte di Pietà di Ferrara, Cassa di Risparmio di Ferrara - Milano, Motta, 2005, pp. 182-251 (con repertorio).

Venerdì, 16 Dicembre 2011 22:20

Paesaggi letterari

Il Grand Tour, l’itinerario di istruzione che i giovani delle famiglie aristocratiche europee intraprendevano per completare la loro educazione, dalla fine del Seicento portò in Italia – tappa-culmine del viaggio – nobili e intellettuali, antiquari e artisti, filosofi, uomini politici e semplici, liberi viaggiatori che nei loro taccuini di viaggio annotavano ogni movimento, ogni curiosità, ogni “meraviglia” accompagnati da una sincera implicazione emotiva. L’afflusso di viaggiatori a Ferrara fu perlopiù dovuto alla sua posizione geografica: quasi non la si poteva evitare sulla strada tra Venezia e Roma. Le testimonianze di viaggiatori stranieri lasciano intendere un giudizio comune: responsabile dello stato di decadenza in cui versava la città era il governo pontificio. Se i visitatori erano colpiti dalle strade spaziose e dai palazzi imponenti, non potevano fare a meno di notare la deserta Ferrara, la cui popolazione era sostanzialmente diminuita con l’avvento (1598) dello Stato della Chiesa (la lupa vaticana che abbattendosi sull’Eridano aveva trafitto l’aquila bianca estense, come scriveva Carducci) colpevole di avere trascurato il territorio e di aver trasformato la città in una piazza di guerra. Tra Sette e Ottocento agli occhi dei viaggiatori Ferrara si presentava grande, solenne ma solitaria, imponente e maestosa ma spopolata, pulita perché non c’era nessuno per sporcarla; circondata da una campagna piatta, suggestiva ma a tratti mal sana, così come affascinante ma terribile appariva il Po. Una voce fuori dal coro, quella del commediografo spagnolo Leandro Fernández de Moratín (1760-1828) che arrivò nel 1794. Nel suo giudizio più controllato (si pensi però al legame della Spagna con lo Stato pontificio) Ferrara e i ferraresi lasciarono un’impressione positiva: Il territorio di Ferrara … non è un deserto, come alcuni lo dipingono; né esistono ora le cause che in altri tempi fecero malsano questo paese. La coltura dei campi è … aumentata, sono stati prosciugati molti acquitrini, le acque sono state incanalate, rendendole utili e ora l’aria di quella città non è più contagiosa … La gente mangia bene, beve meglio e vi è colorita e robusta (Obras pòstumas, Madrid, Imprenta y estereotipia de M. Rivadeneyra, 1867, I, pp. 444-445).

Il letterato tedesco Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) arrivò sulla barca-corriera che navigava sul dolce fiume Po, a traverso pianure estese, il 16 ottobre 1786: quel giorno era triste (sorpreso da non so che uggia) e non apprezzò molto Ferrara (né il mausoleo dell’Ariosto, né la prigione del Tasso), una grande e bella città, ma tutta in piano e spopolata. Meglio, anche di umore, il giorno dopo a Cento: Una piccola e simpatica città, ben costruita, … piena di movimento e di vita, linda, in mezzo a una pianura tutta coltivata a perdita d’occhio. Salito sul campanile rimase affascinato da un mare di pioppi svettanti, nel cui mezzo osservò delle piccole masserie, ognuna circondata dalla sua campagna: le terre della Partecipanza (Viaggio in Italia 1786-1788, a cura di Lorenza Rega; trad. it. di Eugenio Zaniboni, Milano, BUR, 1993, pp. 99-100).

La Nuovissima guida dei viaggiatori in Italia degli editori – e viaggiatori – Ferdinando Artalia e figlio di Milano (“negozianti di Musica, Stampe e Carte geografiche”), aveva raggiunto nel 1839 la quinta edizione. Nel tragitto tra Venezia e Bologna un capitolo è riservato a Ferrara: … la di lei popolazione è ridotta a 24.000 abitanti, ed il commercio non è ragguardevole. Questa città, che ora fa parte degli Stati del Papa, ha un aspetto imponente: diritte e larghe ne sono le contrade: quella di S. Benedetto è lunga circa 1959 metri, ed è diritta sino alla porta di S. Giovanni; quanto alla lunghezza totale della città, valutasi a 2814 metri dalla porta di S. Benedetto sino alla porta di S. Giorgio, le quali due contrade sono men belle dell’altra, che chiamano della Givecca [sic]. Belli ne sono gli edificj sì pubblici, come privati; il castello posto all’occidente della città [la Fortezza] è grande, forte e regolare. Ma dal finire del secolo XVI a questa parte, la popolazione, l’industria, ed il commercio, vi si trovano … in istato di decadenza …; né veggonsi meglio popolate le circostanti campagne, essendone colpa l’aria mal sana, che esala dalle paludi …. In mezzo alla città sorge un altro Castello altre volte residenza dei duchi, ed ora abitazione del cardinal Legato: gli gira intorno un fosso, e lo fiancheggiano quattro grosse torri.

Il percorso consigliato dalla guida toccava la Cattedrale, le chiese dei Teatini, di San Domenico e San Benedetto, i palazzi Villa [dei Diamanti] e Camerini, il Teatro, la Certosa convertita in pubblico Cimitero; la piazza della Ragione [piazza delle Erbe, ora Trento e Trieste], l’ospedale Sant’Anna e la cella dove Torquato Tasso fu chiuso sotto pretesto di follia, l’università ricca tanto in libri, quanto in manoscritti preziosi, oltre alla casa del Guarini, quella di Ariosto e alla piazza detta Napoleonica ed oggi Ariostea. Uno sguardo alla gente e al territorio: Le qualità sociali di quei cittadini sono veramente amabili. Il territorio è frastagliato da parecchi fiumi, e per conseguenza paludoso; abbonda però di grani, e di vasti e grassi pascoli, e vi è molto coltivata la canape. La pescagione, massimamente quella che si fa nelle valli di Comacchio, è un de’ più ricchi prodotti del paese. Non si viaggia per contorni di Ferrara senza udir parlare degli allagamenti del Po. Nulla […] è tanto imponente quanto l’aspetto di cotesto fiume, sia per la sua grande estensione, sia pei canali, che vi sboccano, i siti che lo circondano, e la prodigiosa quantità di barche, che il coprono: ma dall’altro lato […] è sì terribile ne’ suoi allagamenti…

In generale, non sono la piazza e il Castello – sede della “colpevole” Legazione – i protagonisti dei diari di viaggio, ma le strade grandi come fiumane dell’addizione di Ercole I d’Este, l’antico splendore, la memoria dei poeti – George Gordon Byron (1788-1824) si fece rinchiudere nel 1821 nella cella del Sant’Anna per dare voce ai Lamenti del figlio delle muse (vedi Letteratura) –, il grande silenzio, la solitaria pace, la deserta bellezza, l’aëre greve che si rincorrono ancora nei versi di Carducci e D’Annunzio.

Ferrara, su le strade che Ercole primo lanciava / ad incontrar le Muse pellegrine arrivanti, / […] come, o Ferrara, bello ne la splendida ora d’aprile / ama il memore sole tua solitaria pace! / Non passo i luminosi misteri vïola né voce / d’uomo […] / così per le tue piazze dilette dal sole, o Ferrara / il nuovo peregrino tende le orecchie e ode / da’ marmorei, palagi su ’l Po discendere lenta / processïone e canto d’un fantastico epos.

Chi è, chi è che viene? Con piangere dolce di flauti, / tra nuvola di cigni volatiti da l’Eridano, / ecco il Tasso. Lampeggia, palazzo spirtal de’ dïamanti, / e tu, […] /o porta de’ Sacrati, sorridi nel florido arco! / d’Italia grande, antica, l’ultimo vate viene. / Ei fugge i colli dove monacale tedio il consunse, / ei chiede i luoghi dove gioventù gli sorrise. / Castello d’Este, in vano d’arpie vaticane fedato, / abbasso i ponti, leva l’aquila bianca. Ei torna. (vv. 1-25)

O dileguanti via su la marina / tra grige arene e fise acque di stagni, / […] terre pensose in torvo aëre greve, / su cui perenne aleggia il mito e cova / leggende e canta a i secoli querele / (vv. 33-39)

(Giosuè Carducci, Ode alla città di Ferrara - nel XXV Aprile del MDCCCXCV , da «Rime e ritmi», 1898).

O deserta bellezza di Ferrara, / ti loderò come si loda il volto / di colei che sul nostro cuor s’inclina / per aver pace di sue felicità lontane; / e loderò la chiara / sfera d’aere e d’acque / ove si chiude / la tua melanconia divina / musicalmente. […] Loderò i tuoi chiostri ove tacque / l’uman dolore avvolto nelle lane / placide e cantò l’usignolo/ ebro furente. / Loderò le tue vie piane / grandi come fiumane /che conducono all’infinito chi va solo / col suo pensiero ardente / e quel lor silenzio ove stanno in ascolto / tutte le porte / se il fabro occulto batte su l’incude, / e il sogno di voluttà che sta sepolto / sotto le pietre nude con la tua sorte.

(Gabriele D’Annunzio, Il Silenzio di Ferrara, da «Nuova Antologia», 1899; in seguito Ferrara, in «Elettra»).

Riferimenti a Ferrara e alla sua storia si trovano in lettere e ricordi di viaggiatori italiani, dalla veneziana Gioseffa Cornoldi Caminer (Viaggio per l’Italia intrapreso nell’anno 1798…, Venezia, Pietro Sola, 1800) al ferrarese Giuseppe Maria Bozoli (1815-1878) che accompagnò il futuro comandante dei Bersaglieri del Po marchese Tancredi Trotti Mosti in un tour europeo tra Germania, Belgio e Francia (Brevi memorie di un viaggio fatto in Francia, in Germania ed in Italia…, Ferrara, Gaetano Bresciani, 1844), allo scrittore lombardo Ignazio Cantù (1810-1877) che dava alle stampe la sua opera nel 1844 (La patria ossia l’Italia percorsa e descritta da I.C. Letture giovanili, Milano, Tamburini).

Ariosto e Tasso tornano nelle parole del veneziano Achille, il miglior amico del letterato bondenese Arrigo Poletti detto Calofilo (1862-1884) che le fissò nella prosa Una passeggiata per istruzione del 1880:

Giovedì mattina partii [da Bondeno; Achille vi abitava da poco tempo] che erano le 4 pigliando scorciatoie arrivai felicemente a Ferrara che eran le 8. Avevo fame e andai alla “Gaiana” per rifocillarmi un poco; appesi al muro dell’albergo vidi diversi quadri rappresentanti monumenti, edifizi di Ferrara. Figurati io che sinceramente credevo che nella vostra Ferrara non vi fosse d’ammirare che valli, paludi, miserie e inondazioni, mi stupii un bel po’ di vedere tanti capi-lavori. … Mi prese però la matta voglia di andare a girare, e presa una guida visitai ed ammirai le più belle cose Mi fece una grande impressione l’antico castello Non dimenticai il Duomo né trascurai l’Università, nel qual ultimo edifizio ammirai il sepolcro dell’Ariosto, una magnifica Biblioteca di oltre 100.000 volumi Stamattina ch’eran le nove andai a vedere la casa dell’Ariosto in Via Mirasole; quindi a S. Anna ad osservare il carcere dell’infelice cantore della Gerusalemme… (Arrigo Podetti detto Calofilo, Poesie e prose inedite, a cura di Giuseppe Muscardini, Ferrara, Liberty house, 1988, pp. 68-70).

Terminato ormai il tempo del Grand Tour, l’inglese Ella Noyes (1863-1949) visitando Ferrara ne coglieva l’aspetto di città gentildonna che grazie al suo distacco dalla vita moderna aveva conservato una tutta sua aristocratica immagine. Il libro uscì a Londra nel 1904, illustrato dai disegni a china della sorella Dora.

Le lagune e le foci del Po sono protagoniste del suggestivo viaggio da Comacchio ad Argenta di Antonio Beltramelli (1879-1930), nel 1905. Lasciati alle spalle i piccoli ponti di Lago Santo e i profili delle donne che li traversavano per recarsi alla fonte con le loro secchie lucenti..., la Laguna d’Isola gli si parò di fronte nella sua sterminata chiarità. Aveva appositamente noleggiato un navicella per raggiungere Comacchio, che risaltava sotto le ultime luci come un’isola luminosa fra le acque di smeraldo … co’ suoi campanili e le torri, lontanamente, alla deriva… Il viaggiatore fu colpito dal frastuono tutto speciale mescolato al grido dei battellieri, dal suono secco degli zoccoli trascinati sui selciati, dalle piccole case, dai canaletti tortuosi…, ma fu il lucore riflesso negli occhi dei bimbi e delle giovanette a “parlargli” dell’anima di Comacchio, che gli piacque definire la pallida. Seguendo la periferia delle lagune, egli percorse poi la strada da Portomaggiore – una gaia cittadina situata tra due affluenti delle lagune di Comacchio … un tempo in mezzo alle sterminate paludi e ora circondata da ubertose pianure – a Sant’Alberto. Là dove i campi di grano cedevano il posto ai pascoli, tra le canape dagli esili steli il viaggiatore individuò il bianco gruppo di case che formava Argenta, cittadina romagnola dispersa fra le verdi messi, ai limiti della laguna.

AG, 2011

Bibliografia

Anna M. Mandich, Viaggiatori stranieri del Settecento, in Storia illustrata di Ferrara, a cura di Francesca Bocchi, Milano, Aiep, 1987, II, pp. 545-560 (da cui sono tratti i corsivi nella prima parte del testo); Ella Noyes, The story of Ferrara (1904), a cura di Giuseppe Inzerillo, Ferrara, Corbo, 1998, p. 190 (ed. orig.: London, J.M. Dent & Co., 1904); Antonio Beltramelli, Da Comacchio ad Argenta. Le lagune e le bocche del Po nel 1905, Bologna, Massimiliano Boni, 1994; Luca Clerici, Viaggiatori italiani in Italia 1700-1998. Per una bibliografia, Milano, Sylvestre Bonnard, 1999; Luigi Davide Mantovani, Mazzini e Ferrara, «Ferrara. Voci di una città», 34, 2011, pp. 67-69.

Mercoledì, 14 Dicembre 2011 21:16

Luoghi della socialità

Dai salotti culturali ai caffè, dai circoli alle osterie, Ferrara offriva ritrovi adatti ad ogni categoria sociale, luoghi dove scambiare idee, confrontarsi, discutere, ascoltare, divertirsi. Nei salotti aristocratici della prima metà dell’Ottocento agli incontri mondani si alternavano le riunioni cospirative contro l’Austria, ma le “associazioni” non erano soltanto quelle segrete, ne esistevano altre per lo svago dei nobili e della cosiddetta “notabilità civile”: banchieri, commercianti, professionisti, possidenti, funzionari pubblici, militari. Negli anni della Restaurazione nei “casini dei nobili” – ai quali si accedeva pagando una quota associativa che finanziava le attività ricreative – si poteva leggere, giocare a carte o a biliardo, a scacchi o a dama, colloquiare, intervenire a feste danzanti e a concerti. Due erano i circoli a Ferrara: il Circolo Unione e il Circolo dei Negozianti.

Il primo nacque da un progetto che prese corpo nella primavera del 1803, quando il marchese Carlo Bentivoglio e il notaio Ruggiero Ragazzi, affiancati dal conte Girolamo Cicognara e dal commerciante-banchiere Luigi Massari, decisero di studiare un Piano per un Casino di Società in qualche modo erede di due sodalizi nati nel decennio precedente nei locali del teatro comunale: il Casino de’ Cittadini (1793-1802) e il Circolo costituzionale (1798). La Società del Casino si riunì per la prima volta il 5 luglio 1803 nella platea del teatro per la presentazione di un regolamento provvisorio e l’elezione delle cariche che, oltre alla conferma dei quattro promotori, videro presidenti Alessandro Strozzi e Antonio Avogli Trotti. Già da questo primo incontro risalta un elemento di modernità del sodalizio: tra i votati vi furono anche sei signore (Adelaide Foscarini Bentivoglio, Marietta Rossi Scutellari, Anna Massari, Wilhelmina Stein Strozzi, Caterina Malvezzi Mazza, Giuseppa Massari Recalchi). Fin dall’inizio, infatti, le donne – 70 comprese nel novero dei 289 fondatori – ebbero accesso con pari diritti al circolo, aperto anche ai “forestieri” previo avviso al presidente di turno. La sera del 28 dicembre 1803 ebbe luogo la grande festa dell’inaugurazione ufficiale della Società del Casino – nome conservato fino al 1888, poi cambiato in Circolo Unione – nei locali del teatro comunale ora noti come Ridotto, di fronte al Cantòn della Campana. Il «primogenito dei circoli italiani» – così lo definisce l’Enciclopedia Treccani – durante i moti risorgimentali fu più volte colpito per il patriottismo degli aderenti, che continuarono ad impegnarsi nel sociale, come in occasione della rotta del Po del 1872, quando alcuni soci ospitarono nelle loro case famiglie di alluvionati. Nelle sue sale passarono Giosué Carducci, Vincenzo Monti e Leopoldo Cicognara (amici della socia Marietta Scutellari, fondatrice di un frequentatissimo salotto culturale); scrittori, studiosi, compositori e regnanti nel secolo lungo attraversato da vicende fondamentali per la storia d’Italia e della città, dalla Rivoluzione francese al Regno d’Italia.

E proprio alla vigilia della proclamazione del Regno d’Italia, il 26 febbraio 1861, nacque il Casino dei Negozianti, di origine e di ispirazione risorgimentale, idealmente erede del Circolo Nazionale ferrarese e della Società del Movimento. Uno dei soci fondatori fu Felice Bartoletti, che possiamo vedere ritratto ne La famiglia del Plebiscito di Giovanni Pagliarini – opera esposta al Museo dell’Ottocento – mentre legge i risultati della consultazione popolare del marzo 1860 che sanciva l’annessione di Ferrara al Regno d’Italia. I 155 soci, che desideravano un ordine sociale adatto ai tempi nuovi, erano rappresentanti della borghesia del commercio e delle professioni. Il primo presidente del circolo fu Cesare Monti e la prima sede, dal 1861 al 1869, fu nell’antica locanda dei Tre Mori di via Boccaleone, poi lo sfratto costrinse al trasloco in una parte del palazzo Roverella, concessa in affitto per 18 anni dal conte Enzo Aventi. Grazie a versamenti volontari dei soci, la nuova sede fu sistemata, arredata e inaugurata con un concerto e un “gran ballo” il 14 febbraio 1871. Nel tempo l’“eletta Società dei Negozianti” – nelle cui sale erano ammesse donne solo se conviventi con i soci –, nonostante un calo degli iscritti, si strinse sempre più alla vita cittadina, promuovendo iniziative patriottiche, culturali e di solidarietà; il 7 gennaio 1891 vi si aggregò il Circolo di scherma. Il maestoso cinquecentesco palazzo Roverella, attribuito dai più a Biagio Rossetti, nel frattempo aveva cambiato diversi proprietari, fino ad arrivare al cav. Federico Zamorani (1866-1932), ricco agrario di origine ebraica, che dal 1906 fu l’unico intestatario dell’edificio, lasciato in eredità al Circolo del quale era stato socio per quaranta anni.

Nella piazza, poi, indiscusso punto di riferimento per tanti incontri e palcoscenico della vita quotidiana di ogni centro abitato, i pensieri e le parole si mescolavano agli odori che provenivano, allettanti, dalle bancarelle, botteghe, osterie e caffè che numerosissimi vi si alternavano così come nelle vie circostanti. In città, già dagli anni Trenta dell’Ottocento sono documentati lavori di abbellimento alle porte di entrata dei negozi – in questo senso l’istanza di Luigi Bassi, caffettiere presso i Camerini (piazza Savonarola) almeno dal 1832 – mentre data agli anni Sessanta l’invito della Commissione di Ornato del Comune di provvedere alla sostituzione delle serrande di quegli esercizi commerciali che affacciavano sulle piazze; l’articolo 141 del Regolamento di Polizia Municipale, inoltre, disponeva che ogni bottega dovesse essere provvista di un’insegna. La mappa dei caffè e delle osterie si ricostruisce facilmente sfogliando le richieste presentate alla Municipalità per migliorie di ogni genere. Tra gli anni Sessanta e Settanta, solo per fare qualche esempio, nel già ricordato loggiato “dei Camerini” si trovavano, condotti in affitto, la bottega per uso di caffè e il Nuovo Caffè dell’Alba di proprietà rispettivamente di don Antonio Azzi e del dottor Roveri; nella piazza Commercio erano il Caffè Magni e il Caffè Melloni detto anticamente Venerandi – il cui gestore, Achille Melloni, chiedeva di poter scrivere con lettere dorate (or ora arrivate da Parigi) il nome del suo esercizio sui cristalli delle porte –; Giuseppa Saffi Borgatti aveva in locazione il Caffè dei Negozianti e Giuseppe Castiglioni l’Antico Caffè del Commercio. Nella via Cortevecchia si trovavano, oltre a diverse locande, le osterie dei due Arabi, All’insegna del Cavalletto, San Marco e il Caffè degli Orefici con bigliardo; in via Garibaldi le osterie del Bersagliere, della Fortuna, delle Tre Rose, la bettola dell’Unione e caffè con “distesa” esterna, come quello, con otto sedie, di Maria Franceschini. Sotto i portici di San Romano erano i caffè Bezzecca, Romano, Aleotti e l’Osteria del milite in permesso, vicini al “salotto” di piazza, dove per lungo tempo trovarono posto il Caffè Milano e il Caffè Napoli (o del Napoletano) sotto il porticato del palazzo della Ragione, di proprietà della famiglia Giusti dal 1862 (chiusi nel 1933). Tra i palazzi Pepoli e Montecatini, nell’odierna via Contrari, c’era l’Osteria dell’Italia, mentre il caffettiere e pasticciere Luigi Marani aveva la bottega proprio sotto l’abitazione (n. 19) di Giacomo Succi, fucilato dagli austriaci il 16 marzo 1853 insieme a Luigi Parmeggiani, oste e albergatore nella già citata locanda dei Tre Mori di via Boccaleone. All’ombra del Castello, sul Canton della Campana (tra corso Giovecca e via Borgo dei Leoni) era, infine, il Botteghino inaugurato il giorno di San Giorgio del 1848, dove trovarono rifugio i carbonari fuggiti dal Polesine. L’ultimo gestore del locale – luogo di incontri anche politici e frequentato dall’onorevole Severino Sani – fu Aldo Gabbari, che lo trasformò in una curiosa fiaschetteria dove con bicchieri di vino si servivano fumanti piatti di tagliatelle, ma quando calava la notte una delle due cucine del retro si trasformava in bisca.

Tramite la bisca, il gioco aggancia la distrazione, l’evasione dal quotidiano. Tema magari un po’ difficile da affrontare, ma non può mancare un cenno alle “case di tolleranza”. In età napoleonica anche in Italia fu applicata la legislazione francese sulla prostituzione; più avanti nel tempo, accertati numerosi casi di malattie veneree tra i soldati sabaudi, negli anni 1859-60 Cavour incaricò un medico della redazione di un Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione, in vigore dal 1° aprile 1860 nelle province del Nord Italia annesse al Regno: uno strumento di controllo che prevedeva l’apertura di “postriboli di Stato” a seguito del rilascio di una licenza, la creazione di uffici sanitari, l’imposizione di tariffe e tasse statali. Seguirono altri regolamenti che divisero l’opinione pubblica, fino alla legge Crispi, approvata il 29 marzo 1888, con la quale, tra numerosi divieti, si proibiva anche l’apertura delle persiane (da qui, forse, l’appellativo di “case chiuse”). Non sappiamo se i ferraresi fossero schierati con gli “abolizionisti” o con i “rigoristi”, ma siamo a conoscenza di numerosi lupanari situati perlopiù negli stretti vicoli della città medievale, così come siamo informati che fino al 1865 le “donne infette” dal dilagante mal francese erano assistite dalle Congregazioni di Carità e delle dame di San Vincenzo presso Santa Maria della Consolazione, poiché non potevano essere curate nell’ospedale Sant’Anna per ragioni economiche e scarsità di posti letto. In città, méta di “incontri” anche per il circondario, la cronaca ricorda, tra gli altri, una «casa di bordello» in via del Gambero (ora Bersaglieri del Po) annessa a una «lurida taverna, frequentata da buontemponi e scioperati»; il «Postribolo vecchio» di vicolo della Lupa; una «casa antica di prostituzione» rivolta quasi esclusivamente alla «studentesca universitaria» nell’attuale via Romiti (già via del Bordelletto).

AG, 2011

 

Bibliografia

Gerolamo Melchiorri, Nomenclatura ed etimologia delle piazze e strade di Ferrara, Ferrara, Prem. Tipografia Ferrariola, 1918; Giorgio Zanardi, Circolo Unione 1803-2003, «Ferrara. Voci di una città», 19, 2003; Luigi Davide Mantovani, Valentino Sani, Il Circolo e la città. Il Circolo Unione di Ferrara dalla nascita all’Unità d’Italia, Ferrara, Este Edition, 2005; Lauretta Angelini, Enrica Guidi, Carlo Contini, La sifilide a Ferrara nell’800, «Le infezioni in medicina», 2, 2009, pp. 117-124; Giuseppe Inzerillo, Un Palazzo, un Circolo e una lunga storia ferrarese. Dai Magnanini ai Roverella, sino a Federico Zamorani e oltre, Ferrara, Liberty house, 2011; Graziano Gruppioni, Il bar che con il vino serviva le tagliatelle di notte diventava bisca, «Il Resto del Carlino», 26 febbraio 2012, p. 9; Angela Ghinato, La piazza viva, «Bollettino della “Ferrariæ Decus”», 27, 2011, pp. 33-64.

Venerdì, 02 Dicembre 2011 14:41

Ferrara

Dopo essere stata la capitale dell’esteso Ducato estense, Ferrara aveva conservato la propria identità di capoluogo. Le mura che la racchiudevano, già fortemente guastate nei secoli XVII e XVIII, subirono ancora numerosi interventi che modificarono sia la loro funzione, sia il tessuto urbano. Il periodo napoleonico aveva inciso profondamente sulla struttura della città storica, basti pensare alla confisca e successiva vendita dei beni ecclesiastici e alle destinazioni d’uso di chiese e monasteri, trasformati perlopiù in quartieri militari. Molti degli edifici religiosi che costellavano Ferrara vennero demoliti tra l’Ottocento e primi anni del Novecento (solo qualche esempio: Ognissanti, tra via Vegri e via del Mercato, 1806; Sant’Agostino sulla via Coperta, 1813; San Tommaso presso il “Montagnone”, oggi viale Alfonso I d’Este, 1836; Santa Lucia Vecchia in via delle Vigne, 1860) a volte per essere incorporati in fabbricati di abitazione civile (come l’antichissima chiesa di Sant’Alessio in via Porta San Pietro, distrutta nel 1904; quella di Santa Maria Novella dei Battuti Bianchi nel borgo di Sotto, prima ridotta a bettola dal 1804) e pubblici (es. la chiesa di San Silvestro demolita per far posto al nuovo ospedale Sant’Anna, la cui prima pietra fu posata da Vittorio Emanuele III nel 1910) o a seguito di eventi avversi (es. la chiesa di Santa Maria degli Angeli in via Piopponi, devastata da un incendio nel 1805).

L’applicazione del provvedimento legislativo (12 giugno 1804) che imponeva la collocazione dei cimiteri fuori dai centri abitati, di fatto provocò l’isolamento del quadrante nord-est della città, quello dell’addizione di Terranova o erculea, lasciando decentrata la piazza Nova (piazza Ariostea, sulla cui colonna centrale fu collocata nel 1833 la statua di Ludovico Ariosto), dove non si tenne più il mercato del bestiame, spostato in altre zone, dagli orti di Schifanoia al Montagnone, dai rampari di San Paolo alla piazza suburbana di San Giorgio.

Mentre avevano già preso avvio i lavori per adattare a camposanto la vasta area dell’ex convento della Certosa abbandonato dai monaci a seguito delle soppressioni napoleoniche, ad apertura già avvenuta, nel 1813, fu affidato al marchese Ferdinando Canonici il progetto del cimitero comunale, pubblicato nel 1851 e realizzato in parte, con modifiche successive, durante il XIX secolo (la sistemazione definitiva avverrà nel 1933, sotto la direzione dell’ing. Carlo Savonuzzi). Poco distante era l’“orto degli Ebrei”, in via delle Vigne, area di proprietà della comunità ebraica ferrarese fin dal XVII secolo, destinata a cimitero (sistemato e ampliato nel 1910), al quale ancora si accede attraverso un maestoso portale in granito progettato dall’ing. Ciro Contini (ca. 1912).

I simboli del progresso erano comparsi a Ferrara dalla metà dell’Ottocento: data infatti al 1859 l’inaugurazione della linea ferroviaria Ferrara-Bologna, mentre il primo saggio di luce elettrica illuminò la piazza della Pace la sera dell’11 luglio 1857 – durante i festeggiamenti per la visita di papa Pio IX Mastai Ferretti – evento accompagnato da un’inattesa scossa di terremoto, da alcuni interpretata come effetto causato dalle lampade senza fiamma e senza stoppini. La luce del gas arrivò il 24 dicembre 1861; nel 1868 fu completata l’illuminazione della Giovecca mentre procedevano le prove in altre zone della città.

A cavallo dei due secoli la maglia urbana si stava velocemente trasformando. La stazione ferroviaria (1862) divenne il fulcro del nuovo ordine viario, presso il quale crescevano depositi, magazzini, strutture industriali. Dopo i lavori di tombamento del canale Panfilio, conclusi nel 1880, il “viale della stazione” (viale Cavour per delibera del Consiglio comunale del 17 febbraio 1883) che entrava nel cuore di Ferrara fino al Castello, divenne l’accesso privilegiato alla città, costeggiato dai villini borghesi in costruzione – villa Melchiori (all’attuale civico 184), 1904; villa Amalia (194), 1905; palazzina Finotti (112), 1908, progettate da Ciro Contini; villa Fano (149), 1912, su progetto di Domenico Barbantini e Antonio Mazza –, dall’edificio dei bagni pubblici (progettato nel 1899), da locali di ristoro e da giardini. L’area verde a fianco del Castello, di dimensioni maggiori rispetto all’attuale, sorse nel 1873, ricca di essenze arboree e con una fontana; il monumento dedicato a Giuseppe Garibaldi, opera dello scultore cesenate Tullo Golfarelli, vi fu collocato nel 1907.

Frattanto, a seguito della legge Luzzatti (n. 251 del 3 maggio 1903) che fissava la nascita dell’Istituto per le Case Popolari e consentiva ai Comuni di sostenere l’“edilizia economica e popolare”, sorsero case “operaie” fuori Porta Mare (1906) e di fronte alla stazione ferroviaria (1910), presso il canapificio Sinz. La collaborazione del Comune con il citato Contini, iniziata nel 1902, produsse, tra altro, il piano per la sistemazione dell’area dove sorgeva la Fortezza (demolita nel 1859), che portò alla nuova urbanizzazione del “Rione Giardino” negli anni Venti del Novecento.

Nello stesso 1902 era stato introdotto il tram a cavalli che collegava la stazione ferroviaria al centro; alcune linee furono elettrificate a partire dal 1910: il tram elettrico aprì la città verso il territorio favorendo nuovi insediamenti residenziali e produttivi. In quegli anni i servizi ebbero un notevole incremento con la costruzione dell'acquedotto (1890), della Poliambulanza in via Piangipane (1909), della centrale termoelettrica (1910) nel borgo di San Luca (attuale via Putinati), del palazzo della Cassa di Risparmio (1907-10) fondata nel 1838 e del già ricordato nuovo arcispedale Sant’Anna (1910) in corso Giovecca, del teatro Verdi (1913), delle scuole elementari di Quacchio (1910-14).

Il 25 marzo 1912 venne inaugurata la tramvia elettrica Ferrara-Pontelagoscuro, centro che già dagli ultimi anni del XIX secolo giocava un ruolo primario per la localizzazione delle industrie di trasformazione, grazie alla vicinanza del Po navigabile e al ponte della ferrovia (1904) che collegava la “città sul fiume” alla sponda veneta. Alle porte di Pontelagoscuro fu costruito nel 1900 l’imponente edificio, ancora visibile, della “Raffineria Ferrarese-Ligure” (meglio noto come “Zuccherificio Eridania”), mentre al 1899 data la realizzazione del fabbricato dello “Zuccherificio Agricolo Ferrarese” sull’Argine Ducale (ora sede della Facoltà di Ingegneria), in una posizione strategicamente importante per i trasporti, non lontano dalla stazione ferroviaria e da uno scalo sul canale di Volano-Burana, altro snodo strategico per il trasporto e il commercio via fiume.

Uno sguardo, infine, al cuore della città storica. La “piazza” in cui Ferrara si era da sempre identificata era quella delle Erbe (piazza Trento e Trieste dal 21 gennaio 1919), il Verzaio, luogo del mercato della frutta e della verdura ai lati del listone, il “viale” sulla strada costruito nel 1846. Attorno alla piazza, da secoli, si affollavano botteghe, banchi, trabacche, osterie e locande nelle strade della quotidianità ferrarese. Tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento un “cantiere di piazza” coinvolse in progetti di trasformazione – più o meno compiuti – il palazzo della Ragione (1831-40) e l’antica loggia dei Merciai (1842-44), dove tradizionalmente avevano le loro botteghe (le strazzarie addossate al Duomo) i venditori di stoffe e lane. Il Verzaio aveva perso di importanza con l’entrata in vigore del Regolamento di polizia del 1850, che privilegiava come “salotto buono” – dove era proibito esercitare a macellai, pescivendoli e castagnari – lo spazio delle piazze che formavano l’attuale corso Martiri della Libertà: la piazza Commercio, dall’angolo del palazzo Arcivescovile presso il Duomo a via Cairoli (strada del Seminario); la piazza del Mercato, dal palazzo Arcivescovile al vòlto del Cavallo; la piazza della Pace, delimitata dal fossato del Castello e dall’angolo del teatro Comunale, tra via Cairoli e piazza Savonarola detta anche piazza de’ Camerini (ducali) e, dal popolo, piazza de’ Fiaccherai perché lì era la stazione delle vetture pubbliche inaugurata il 20 maggio 1858; la piazza della Cattedrale, il cui fianco meridionale costeggia il listone.

Il lunedì, il mercoledì e il venerdì si radunavano in piazza Commercio i possidenti e i commercianti di ritorno dal mercato suburbano di San Giorgio o da quello più piccolo dei rampari di Piangipane: in piazza o nella borsa di commercio definivano compravendite di derrate alimentari o di animali. Le quinte di scena delle piazze erano l’antico palazzo di Corte – con il vòlto del Cavallo orfano delle statue di Nicolò III d’Este e del figlio Borso (il rifacimento della facciata risale agli anni Venti del Novecento) – e il palazzo Arcivescovile, i cui piani terra erano adibiti, come oggi, alle più varie attività commerciali.

La vita delle piazze era ritmata dai rintocchi dell’orologio del Castello, che il 3 dicembre 1860 accompagnò anche la prima entrata di 7 professori e 35 studenti al Regio Liceo Statale (istituito il 2 dicembre 1860), situato nell’edificio di via Borgo dei Leoni oggi sede del Tribunale. Nel 1865 il liceo – che fino ai primi anni del Novecento contava tre classi e una settantina di studenti – fu intitolato a Ludovico Ariosto; il ginnasio vi fu aggregato nel 1909.

Al Verzaio, che nel frattempo aveva recuperato la propria identità di piazza “viva”, arrivavano gli odori, i rumori, gli umori, delle strade circostanti: dall’aroma del pesce fritto dai frizzún di San Romano al lezzo dello stallatico del palazzo del Goretto (ora vicolo mozzo Agucchie); dal trambusto della gente che si aggirava tra banchi, caffè e osterie ai preziosi riflessi delle vetrine della strada degli Orefici (primo tronco di via Cortevecchia); dal mormorio di chi si recava al teatro popolare di legno allestito nel cinquecentesco palazzo Montecatini di via Contrari, agli echi ovattati della tranquilla via Canonica e fino a quelli più vivaci della strada dei Sabbioni (via Mazzini) e delle vicine vie del laborioso Ghetto ebraico.

AG, 2011

Bibliografia

Gerolamo Melchiorri, Nomenclatura ed etimologia delle piazze e strade di Ferrara, Ferrara, Premiata Tipografia Ferrariola, 1918; Ferrara Disegnata. Riflessioni per una mostra, a cura di Marica Peron, Giacomo Savioli, Portomaggiore (Ferrara), Arstudio C, 1986; Lucio Scardino, Itinerari di Ferrara moderna, Firenze, Alinea, 1995; Alberto Cavallaroni, Giorgio Mantovani, Alfio Mascellani, Ferrara “illuminata”. Fonti, strumenti e servizi prima e dopo l’energia elettrica, Ferrara, Fondazione Carife, stampa Litografia Tosi, 2004; Angela Ghinato, La piazza viva, «Bollettino della “Ferrariæ Decus”», 27, 2011, pp. 33-64.

Venerdì, 02 Dicembre 2011 14:36

Nobili

«Coloro che avevano i ritratti dei loro antenati si chiamavano nobili; coloro che avevano i propri ritratti furono chiamati uomini nuovi; e coloro che non ne avevano alcuno, gente ignobile»: con queste parole si apre la definizione del lemma Noble, nobile, nell’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert (volume del 1765). Nobiltà “di nascita” e nobiltà “di denaro”, dunque, che tra la metà del Settecento e il 1815 perdette, in Europa, circa un terzo dei propri componenti. A Ferrara, ancora alla fine del Settecento, un centinaio di famiglie controllava più di un terzo delle complessive proprietà fondiarie, immerse in un immobilismo che i ceti borghesi emergenti delle campagne cercavano di scuotere, nel tentativo di svolgere nella vita cittadina il proprio ruolo politico, ancora soffocato dal sistema aristocratico e dal potere pontificio.

Un brusco cambiamento travolse il Ferrarese nel giugno 1796 con l’arrivo dei francesi, anzi, dei «Rapitori Francesi», come scriveva il marchese Cesare Lucchesini – originario di Lucca e vissuto a Ferrara, proprietario della vasta tenuta di Guarda Ferrarese – in alcuni suoi appunti sui primi giorni di ‘invasione’, giudicata un «castigo dalla Mano Celeste». Tra gli sconvolgimenti sociali, politici, economici e culturali portati da Napoleone, un ruolo importante giocò l’abolizione delle corporazioni religiose, provocando un massiccio trasferimento di beni immobili e fondiari dalla Chiesa alla borghesia, mediante la confisca e la vendita pubblica – piuttosto frettolosa e a basso prezzo – di quei possedimenti che erano patrimonio degli enti religiosi. Aboliti i diritti feudali della nobiltà, fu impiantato un sistema politico-finanziario per il quale la terra – dati i differenti rapporti in ordine alla proprietà – divenne una merce di scambio, «merce tra le merci», scrive Franco Cazzola, alla quale potevano avere accesso i nuovi gruppi sociali arricchiti dagli appalti, dalle professioni, dalle attività agricole e commerciali. Ma la nobiltà dell’ancien régime «per quanto mascherata dietro l’apparentemente egualitario appellativo di “cittadino”, non si lasciò sfuggire le occasioni di cospicui aumenti della massa patrimoniale» acquistando i beni della Chiesa divenuti “nazionali”.

Sintomatica per il Ferrarese è la vicenda della famiglia Massari (in seguito conti di nomina pontificia), il cui proverbiale patrimonio affonda le radici proprio in età napoleonica, con l’acquisto del 18 aprile 1799 comprendente diversi beni fondiari del Ferrarese provenienti dalle proprietà di monasteri soppressi, oltre alle terre di Voghiera e Voghenza (con fabbricati e mobili) già della Mensa arcivescovile di Ferrara. Per fare solo un altro esempio, i veneziani marchesi Revedin comperarono nel 1808 le terre conquistate con una delle prime bonifiche estensi che formavano la tenuta della Sammartina, una parte della quale (i “prati Revedin”) venne poi acquistata dal Comune di Ferrara nel 1911 per costruirvi un hangar dove custodire i dirigibili.

Parte dell’aristocrazia ferrarese rimase a guardare il succedersi degli eventi dalle proprie villeggiature di campagna, al centro dei feudi disseminati nel Ferrarese e nella Transpadana, altri ebbero una parte attiva nella politica contemporanea, adattandosi, pur con qualche contraddittorio, ai cambi di governo, ma, in generale, i protagonisti della scena cittadina nella prima metà dell’Ottocento rimanevano i rappresentanti delle famiglie aristocratiche sopravissute alla decadenza (Calcagnini, Costabili, Strozzi, Trotti...) – nei cui salotti si alternavano incontri mondani a riunioni con patrioti e cospiratori contro l’Austria –, insieme a quelli di famiglie di fortuna più recente (Bonaccioli, Camerini, Fioravanti, Gulinelli, Massari, Nagliati, Ortolani, Pareschi, Pavanelli…).

Tra i complessi problemi portati dal contesto politico e amministrativo che seguì l’unità nazionale, emersero le differenze di personalità di coloro che si erano fatti promotori degli avvenimenti, spesso limitandosi a caldeggiare iniziative provenienti dall’esterno. Il consenso dei ceti più elevati al movimento risorgimentale derivava anche dalla convinzione che il governo precedente non fosse più in grado di accontentare, sul piano economico, le esigenze di una società “moderna”: era più conveniente, secondo il loro punto di vista, affidarsi a un sistema costituzionale non solo garante della libertà, ma capace di tutelare i loro interessi. In sintesi, la rivoluzione liberale poteva ancora assicurare la posizione privilegiata dei grandi proprietari terrieri – fossero nobili o alto-borghesi – senza pretendere l’impegno in nuove iniziative imprenditoriali che avrebbero richiesto abilità specifiche, implicando i rischi del libero mercato e, soprattutto, la mobilità di capitali che metteva sul piatto sia la possibilità di grosse fortune, sia le incognite di pesanti perdite. In questa situazione si andavano spegnendo l’intraprendenza e l’attivismo – seppur contenuti – che avevano distinto la prima metà del secolo, espressi in forme diverse e a volte improvvisate. Vale la pena ricordare la partecipazione di giovani delle “prime famiglie” ferraresi alle cospirazioni contro l’Austria del 1821, ai moti rivoluzionari del 1831 e del 1848, anno in cui da un’idea del marchese Tancredi Trotti Mosti si formò anche il corpo di volontari “Bersaglieri del Po” (di cui fecero parte il conte Gherardo Prosperi e il conte Carlo Aventi, morto nella battaglia di Cornuda durante la prima guerra di indipendenza), mentre un Canonici, uno Strozzi e un Trotti nel 1849 furono tra i volontari ostaggi del Comando austriaco e a Ugo Bassi tornavano utili l’amicizia e l’ospitalità dei conti Giglioli ai fini della rivolta.

Dieci dei quaranta convocati per la sessione straordinaria del Consiglio provinciale del 21 giugno 1860, erano nobiluomini: i conti Francesco Aventi, Cleto Gnoli, Giovanni Gulinelli, Francesco e Scipione Magnoni, Francesco Massari, Tancredi Mosti, Gherardo Prosperi, i marchesi Giovanni Costabili e Rodolfo Varano; ne faranno parte in seguito anche esponenti della Casa Giglioli. La loro ricchezza proveniva prevalentemente dalle proprietà fondiarie, che nel giro di un quindicennio conobbero altri proprietari: la statica geografia delle terre e della loro gestione mutò con l’avvicinarsi della stagione delle grandi bonifiche (1870-1885) nel Ferrarese orientale, impresa nella quale numerosi nobili e possidenti videro un immediato vantaggio nella vendita delle proprie terre e valli, soprattutto dopo la disastrosa rotta del Po del 18 maggio 1872. I nobili Bentivoglio, Giglioli, Graziadei, Gulinelli, Saracco, Varano vendettero ampie estensioni a quelle società italiane e straniere che intrapresero la bonifica del Polesine di Ferrara.

Tra le «qualità pregevoli» della nobiltà – come scriveva Leone Carpi dopo aver tracciato un quadro sulla «mollezza» dell’aristocrazia – erano «l’indole di una generosa beneficenza», la fedeltà alla parola data, il sentimento dell’onore. Oltre ad aiutare chiese, orfani, poveri e ammalati – nel 1880 il duca Galeazzo Massari Zavaglia con altri benefattori fondò una società di aiuto ai pellagrosi –, diversi nobili ferraresi si mobilitarono in occasione della tremenda epidemia di colera del 1855, mettendo a disposizione locali delle loro residenze come fecero, per esempio, i marchesi Tassoni, nel cui antico palazzo rimase aperto per 80 giorni un asilo. La filantropia, la beneficenza come solidarietà sociale fu uno dei canoni per le “nobilitazioni” ottocentesche, atto imprescindibile tra le pieghe di un supremazia sociale paternalistica. Anche nel tempo ormai conclusivo della propria vicenda, sempre meno stretta nell’endogamia di ceto quindi più aperta verso la borghesia (spesso mediante abili strategie matrimoniali), l’aristocrazia ferrarese rimase sulla scena economica, politica e culturale adeguandosi, fin dove possibile, alle esigenze della “modernità”.

Per evitare appropriazioni indebite nel mantenimento dei titoli nobiliari esistenti negli Stati preunitari, con regio decreto n. 313 del 10 ottobre 1869 veniva istituita la Consulta Araldica del Regno, con il compito di dare pareri al governo in materia di titoli nobiliari, araldica, pubbliche onorificenze e di tenere un registro dei titoli nobiliari nel quale era fatto obbligo di iscriversi per avere diritto alla pubblica attribuzione del titolo. Le famiglie interessate, dopo aver completato la prevista procedura amministrativa, poterono essere censite nel Libro d’oro della nobiltà italiana ufficializzato nel 1910, dove erano riunite le famiglie elencate nel Libro d’oro della Consulta Araldica del Regno d’Italia e quelle comprese negli Elenchi Ufficiali Nobiliari (aggiornati negli anni seguenti).

Con l’avvio dei lavori della Consulta Araldica, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, nonostante i problemi e le divisioni che coinvolgevano la nobiltà italiana, si moltiplicarono iniziative e studi, dati alle stampe da istituti specializzati, sulla genealogia e sull’araldica. Nei primi anni della «Rivista Araldica», fondata nel 1903 dal conte pontificio Ferruccio Pasini Frassoni, tra i rappresentanti del Collegio araldico c’erano solo due non romani: un nobile napoletano e il ferrarese Carlo Guido Bentivoglio. A differenza dei titoli nobiliari, assegnati con moderazione, nell’Italia unita le onorificenze cavalleresche erano conferite con grande liberalità, e se il ceto nobile aveva imboccato la strada del declino, continuava a rivestire un grande prestigio il Sovrano Militare Ordine di Malta di San Giovanni di Gerusalemme, istituzione sovranazionale e sovrana che prescriveva per l’ammissione dei “cavalieri di giustizia” la prova dei quattro quarti di nobiltà. Per otto anni, dal 1826 al 1834, la palazzina detta dei Cavalieri di Malta di corso Porta Mare – tra il palazzo e il parco Massari – fu sede dell’Ordine fondato nel XII secolo.

AG, 2011

Bibliografia

Leone Carpi, L’Italia vivente. Aristocrazia di nascita e del denaro. Borghesia, Clero, Burocrazia. Studi sociali, Milano, Vallardi, 1878; Franco Cazzola, La bonifica del Polesine di Ferrara dall’età estense al 1885, in La grande impresa degli Estensi, Ferrara, Consorzio di Bonifica 1° Circondario Polesine di Ferrara, 1991, pp. 223-224; Luciano Chiappini, Introduzione a Ferrara nell’Ottocento, Roma, Editalia, 1994, pp. 9-44: 18-35; Gian Carlo Jocteau, Nobili e nobiltà nell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1997; Angela Ghinato, Le terre del duca. La famiglia Massari nel territorio di Voghiera, «Atti e Memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, s. IV, vol. XXI, 2012.

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