Ricercatore a tempo determinato (2011-2014) presso il laboratorio TekneHub dell'Università di Ferrara, dove si occupa di gestione e valorizzazione del patrimonio culturale.
Laureatosi in Conservazione dei beni culturali all’Università di Udine (1992), si è in seguito specializzato in Storia dell’arte all’Università di Bologna (1996) ed ha conseguito il dottorato di ricerca nella stessa disciplina presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti e Pescara (2006).
È stato inoltre borsista dell’Accademia Nazionale di San Luca di Roma (1993), della Fondazione “Roberto Longhi” di Firenze (1994-95) e Research Assistant presso il Metropolitan Museum di New York (2000-01). Ha vinto il Premio Raimonda Gazzoni Frascara per la miglior tesi di specializzazione in storia dell’arte all’Università di Bologna (1997) e si è classificato secondo all’VIII Premio Niccolini (2003) per opere di argomento ferrarese (1997-2002) con il volume Giuseppe Mentessi. Opere nelle collezioni del Museo dell’Ottocento di Ferrara (Ferrara, Civiche Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, 1999).
Dal 1994 al 1999 è stato collaboratore a contratto delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea del Comune di Ferrara, dedicandosi in particolare alla schedatura informatica del patrimonio, al riallestimento e alla redazione degli apparati didattici e delle guide dei musei, alla programmazione delle campagne di restauro e alla riorganizzazione dei depositi.
Ha curato mostre dedicate ad artisti ferraresi dell’Ottocento tenutesi in Palazzo dei Diamanti (Un museo in mostra, 1994, con Beatrice Buscaroli; Giovanni Boldini. Opere su carta, 1997, con Andrea Buzzoni; Giuseppe Mentessi, 1999) e ha redatto i cataloghi delle opere di Giovanni Boldini (1997), Filippo de Pisis (1998) e Giuseppe Mentessi (1999) di proprietà delle Civiche Gallerie.
Dal 2003 al 2008 è stato docente a contratto di Teoria e storia del restauro delle opere d’arte presso l’Università di Chieti. Nel 2009-10 ha insegnato Storia dell’arte rinascimentale italiana presso la sede ferrarese del Council on International Educational Exchange (affiliato alla Association of American College and University Programs in Italy). Dal 2011 tiene il corso di Museologia presso l'Università di Ferrara.
Come studioso di arte antica si è occupato soprattutto di Cosmè Tura e dell’ambiente artistico ferrarese del Quattrocento, con particolare attenzione alle tecniche artistiche, alla storia sociale dell’arte e alla storia delle esposizioni d’arte antica. Su questi argomenti ha pubblicato articoli su riviste scientifiche, saggi e schede nei cataloghi delle mostre su Tura tenutesi al Gardner Museum di Boston (Milano, Electa, 2002) e in Palazzo dei Diamanti a Ferrara (Ferrara, Ferrara Arte, 2007) e nel volume dei “Mirabilia Italiae” dedicato a palazzo Schifanoia (Modena, Panini, 2007).
Fra le pubblicazioni di carattere divulgativo, è autore di monografie su Rogier van der Weyden (2004), Hans Memling (2005) e Cosmè Tura (2005) per la nuova serie della collana dei “Classici dell’arte” pubblicata da Rizzoli - Skira, del fascicolo monografico dedicato a Tura dalla rivista “Art Dossier” (2007) e della guida ufficiale Unesco di Ferrara: la città rinascimentale e il suo delta del Po (Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2005).
Le sue pubblicazioni più recenti sono: Le arti a Ferrara nel Quattrocento. Gli artisti e la corte, Ferrara, EdiSai, 2010; Ferrara: gli Este. 1395-1535, in Corti italiane del Rinascimento. Arti, cultura, politica, 1395-1530, a cura di Marco Folin, Milano, Officina Libraria, 2010 (ed. inglese: Woodbridge, Suffolk, Antique Collectors’ Club, 2011); Melozzo romano e Melozzo romagnolo: la mostra del 1938, in Melozzo da Forlì. L’umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello, a cura di Daniele Benati, Mauro Natale, Antonio Paolucci (catalogo della mostra: Forlì, 2011), Milano, Silvana, 2011.
La nascita della Scuola di Ornato, nel 1820, fu intesa come un momento istituzionale sulla strada della formazione dello stile e della maturazione di competenze locali (vedi: Pittura; Architettura e scultura). Il progetto prevedeva la “costruzione” di un gruppo di persone, non necessariamente “artisti”, in grado di intervenire nella città conservando e mantenendo il suo decoro. Docente e animatore ne fu Giuseppe Saroli (1779-1873), il pittore che scoprì gli affreschi quattrocenteschi di Schifanoia (vedi Musei) dandone notizia nel 1821 negli Atti, pubblicazione che per il triennio 1820-22 divulgò le attività e la vita della Scuola, che aveva sede presso il Civico Ateneo. L’intento era stato, fin dagli inizi, quello di creare una scuola di arti e mestieri, ricollegandosi alla tradizione estense dell’artigianato e dell’arredo urbano. Ma, come scrive Ranieri Varese, la Scuola «ripiegò su se stessa» nel momento in cui cadde l’idea “artigiana” per formare, con maggior ambizione, “professori” e “artisti”. Il culmine della crisi si ebbe alla fine degli anni Sessanta, quando Girolamo Scutellari, deputato della Commissione Municipale di Belle Arti, denunciava, insieme alla modesta istruzione di chi insegnava, un generale stato di degrado. Nel 1870 fu pubblicato il Nuovo Regolamento per le scuole di Belle Arti, che definiva i campi delle attività e i corsi, mantenuti dal Comune: Ornato-elementi di Architettura e Prospettiva; Figura “dai primi elementi sino alla statuaria compresavi”; Nudo e Anatomia, “Pittura ad olio compresavi la Composizione”; Scultura “figurativa ed ornamentale, tanto in plastica quanto in marmo”. Il Consiglio comunale cambiò totalmente l’ordinamento delle Scuole nel 1881, sottolineandone di fatto l’esaurimento del ruolo strettamente legato all’arte e aprendole ai segnali provenienti dal mondo del lavoro e dai cambiamenti sociali, verso le arti applicate, l’artigianato e l’industria. La “Scuola di disegno per artisti e artefici” prenderà poi il nome di “Scuola di disegno Dosso Dossi”.
Nella serie di cambiamenti e di passaggi, qui appena accennati, si inserisce l’istituzione, nel 1868, della “Società Promotrice di Belle Arti Benvenuto Tisi”, sulla scia del forte interessamento verso le arti figurative riscontrato nella seconda metà dell’Ottocento. Alla Società aderirono anche architetti e scultori come Giovanni Pividor, Ambrogio Zuffi, Angelo Conti, Camillo Torreggiani, mentre tra i pittori che si distinsero si devono ricordare Gaetano Previati – sempre presente nelle esposizioni della “Benvenuto Tisi” –, Giuseppe Mentessi, il ritrattista Angelo Longanesi, il paesaggista Augusto Droghetti, Giuseppe Mazzolani, Federico Bernagozzi.
Il 17 marzo 1884 segna un momento importante per la cultura ferrarese: la costituzione della Deputazione di storia patria, dietro l’impulso del sindaco di Ferrara Anton Francesco Trotti – primo presidente – che garantì alla neonata associazione una sede e adeguati mezzi finanziari per iniziare l’attività. Il sodalizio nasceva con le funzioni delle società storiche fondate negli ultimi decenni del’Ottocento negli ex Stati italiani preunitari con lo scopo di contribuire allo studio della storia della città e del suo territorio, come chiaramente espresso nelle finalità dell’istituzione ferrarese: “La Deputazione si occupa di tutto ciò che spetta alla storia di Ferrara, dalla sua origine ai tempi nostri, indagando dovunque le memorie del passato, illustrando monumenti, traendo dagli archivi, sì pubblici che privati, quella ricchezza di patrie notizie politiche, civili, militari, religiose, letterarie, artistiche, archeologiche e biografiche che vi giace tuttavia negletta. Prende anche a materia delle sue ricerche le memorie della altre provincie italiane, laddove abbiano relazione con la storia di Ferrara. Si occupa della pubblicazione dei codici diplomatici degli statuti, delle cronache della città e suoi territori odierni e di quelli sui quali in passato signoreggiò, e di tutti gli altri documenti inediti che comunque interessano Ferrara nonché di bibliografie riferentisi a studi storici ferraresi, e si può pure occupare di studi folcloristici e del dialetto, e della letteratura dialettale dell’intera provincia”. Quando il primo presidente morì, la Deputazione contava già tredici pubblicazioni. Dal 1886 pubblica la serie “Atti e Memorie”.
Da una costola della Deputazione di storia patria nacque la “Ferrariæ Decus” per iniziativa di Giuseppe Agnelli (1856-1940), vice di Anton Francesco Trotti, alla cui morte subentrò come presidente. Il principale impegno statutario era (ed è ancora) la tutela del patrimonio artistico, da perseguire accanto e in parallelo alla ricerca e allo studio della storia. Il 7 febbraio 1906 nella Sala dei Matrimoni (ora Sala degli Arazzi) della residenza Municipale, si radunarono sessanta cittadini che fondarono la società per la conservazione dei monumenti ferraresi in risposta alla situazione di degrado e di incuria della città, che lo storico dell’arte e senatore Corrado Ricci aveva definito «la più spogliata d’Italia». Riuniti in assemblea il successivo 15 marzo, i fautori del nuovo sodalizio decisero la denominazione di “Ferrariæ Decus”, il decoro di Ferrara. Il primo presidente fu lo stesso Agnelli – direttore della biblioteca Ariostea, allievo prediletto di Giosuè Carducci e presidente della Deputazione di storia patria – che guidò l’associazione fino alla morte. Non è possibile elencare la capillare attività della Ferrariæ Decus nei 34 anni della presidenza Agnelli, un impegno faticoso ma affrontato per diletto, con un interesse “pionieristico” e diffuso per il patrimonio culturale, perché “anche le più tenui testimonianze sono parole del passato”, come diceva lo stesso presidente nella sua relazione generale del 1909.
Per l’impegno di un gruppo di intellettuali guidati da Giosuè Carducci, nel 1889 nasceva la “Società Dante Alighieri”, avente come fine principale la tutela e la diffusione della lingua e della cultura italiana nel mondo, “ravvivando i legami spirituali dei connazionali all’estero con la madre patria e alimentando tra gli stranieri l’amore e il culto per la civiltà italiana” (art. 1 dello Statuto sociale). L’attività si indirizzava sia all’interno dei confini nazionali, sia all’estero e non solo in Europa (per esempio organizzando corsi di lingua italiana per gli emigrati). Il sodalizio fu intitolato dai fondatori a Dante Alighieri per confermare come in quel nome si fosse compiuta l’unità linguistica nazionale, riconosciuta politicamente sei secoli dopo. Le attività di formazione culturale della “Dante” ebbero una forma meglio strutturata dai primi decenni del Novecento, quando furono costituiti corsi per la preparazione degli insegnanti di italiano dell’estero. Subito dopo la prima guerra mondiale vennero istituite anche le “Borse Premio” della Società per le terre irredente.
Il Comitato di Ferrara già nei primi anni del Novecento acquistava una certa notorietà grazie al fondatore Pietro Niccolini (1866-1939) e al suo impegno politico-culturale (sindaco, parlamentare, senatore, presidente della Cassa di Risparmio, direttore del Museo di Schifanoia, presidente di numerose associazioni culturali e sociali). Niccolini resse il sodalizio fino al 1932, anno delle sue dimissioni irrevocabili dopo l’allontanamento dalla vita politica anche per gravi motivi di salute. Presto nacquero sottocomitati nei Comuni provinciali, sottocomitati giovanili e uno di “signore e signorine”. Il Comune e la Provincia si associarono in perpetuo al sodalizio, insieme a diversi Enti e scuole, mentre i consiglieri partecipavano a congressi internazionali ricevendo attestati di riconoscimento per l’importante lavoro svolto a Ferrara.
La redazione, 2013
Bibliografia
Ranieri Varese, Le istituzioni e l’immaginario ufficiale nel XIX secolo, in Storia illustrata di Ferrara, a cura di Francesca Bocchi, Milano, Nuova Editoriale AIEP, 1989, vol. IV, pp. 817-832; Luciano Chiappini, Introduzione a Ferrara nell’Ottocento, Roma, Editalia, 1994, p. 44; Cento anni di tutela del patrimonio storico e artistico, «Bollettino della “Ferrariæ Decus» (Studi Ricerche Cronaca di un centenario), 23, 2006, pp. 240-255; Luisa Carrà Borgatti, Il centenario di Pietro Niccolini, «Ferrara. Voci di una città», 26, 2007; Carla di Francesco, La Ferrariæ Decus ha cento anni, ivi.
Il “turismo”, nel senso moderno del termine – che in Italia non risale oltre la metà del XIX secolo – ha origine nei tempi seguiti alle guerre napoleoniche, quando il viaggiare cessava di essere un privilegio di ricchi o avventurosi per diffondersi tra un numero sempre maggiore di persone e arrivare progressivamente al turismo di massa. Il fenomeno del “turismo”, in un’accezione, però, che ancora non corrisponde al significato attuale, è stato reso possibile dalla rivoluzione dei mezzi di trasporto creati nel XIX secolo e perfezionati nel XX, dalla ferrovia alla navigazione a vapore, dalla bicicletta all’automobile, all’aereo, così come dallo sviluppo delle vie di comunicazione.
Se l’abitudine di viaggiare era caratteristica del periodo tra la fine del XVII e il XVIII secolo, si trovano esempi di organizzazioni rudimentali, esempi di “prototurismo” che favorivano l’affluenza dei viaggiatori anche in età più remote: si pensi ai viaggi poco sicuri intrapresi da viandanti e pellegrini, o agli spostamenti in età medievale e rinascimentale, dettati da motivi di studio o di lavoro, verso le università europee, verso le corti signorili, le fiere e i mercati. L’Italia era la tappa-culmine del viaggio di istruzione, quel Grand Tour che durava anche 3-4 anni, intrapreso dai giovani delle famiglie aristocratiche a completamento della loro educazione. Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo il Grand Tour si diffondeva tra la borghesia agiata, tra artisti e letterati, poi, in pieno Ottocento, si allargava alla nuova classe sociale della media borghesia. Nobili, intellettuali, antiquari, artisti, filosofi, politici e semplici viaggiatori riempivano i loro taccuini con le più disparate considerazioni, emotivamente coinvolti dalle “meraviglie” osservate con occhio critico.
Sulla strada tra Venezia e Roma, una tappa quasi inevitabile era Ferrara, città che colpiva i viaggiatori per il suo presentarsi grande, solenne ma solitaria, attorniata dalla campagna piatta, vicina a un fiume affascinante ma terribile: la silenziosa e deserta bellezza tramandata dai versi di D’Annunzio e condivisa da tanti visitatori che ne hanno lasciato testimonianza nei loro diari di viaggio.
Nel 1861 il re Vittorio Emanuele II inaugurava la ferrovia Bologna-Ancona: il collegamento di Rimini alle regioni settentrionali fece ben sperare imprenditori e politici locali in una stagione di forte sviluppo economico, dopo che il primo “Stabilimento di bagni marittimi” riminese, aperto già vent’anni prima, aveva rischiato più volte il fallimento per la mancanza di adeguate strutture di accoglienza. E fu effettivamente un successo, poiché dai primi del Novecento, aumentata la ricettività con la costruzione di residenze formate da appartamenti da affittare, crescevano attorno a Rimini e a Riccione le “città-giardino” che richiamavano la media borghesia per un turismo a prezzi modesti, mentre verso la fine dell’Ottocento le ville della zona venivano trasformate nelle prime pensioni. Nel 1908, a Rimini, si apriva il Grand Hotel.
Il mare della riviera più a nord pareva tagliato fuori dal circuito turistico, ma il riferimento consegnato alla storia dal medico bolognese Giovan Francesco Bonaveri – autore del testo Della Città di Comacchio, delle sue lagune e pesche..., pubblicato a Cesena da Gregorio Biasini nel 1761 – testimonia di un “casino” predisposto alla metà del XVIII secolo a Magnavacca dalla famiglia Tomasi di Comacchio, adatto all’accoglienza di chi si volesse «colà portare a ricrearsi».
Luigi Malagodi nella sua Guida ai bagni di mare del 1856 scriveva che da quel primo «magnifico Stabilimento» di Rimini presero le mosse gli impianti costruiti sulla costa adriatica, citando, tra i numerosi altri, quelli della «spiaggia dello Stato romano, dalla parte dell’Adriatico»: tra le località ricordava Magnavacca, l’attuale Porto Garibaldi – nome assunto 1919 per ricordare lo sbarco dell’eroe dei Due Mondi su questa spiaggia il 3 agosto del 1849 –. Scriveva che le «acque di gradevole temperatura, non che il clima caldo dell’Italia valsero sempre ad eccitare gli abitatori delle sue estese spiagge a gittarsi nell’onde nella estiva stagione, e a dimorarvi a lungo, o per semplice solazzo, o per riacquistare la sanità perduta; ed oltre il grand’uso che se ne fa a piena spiaggia, senza difesa veruna, esistono moltissimi bagni e fissi, e galleggianti, e capannotti portabili, in ogni città e paese marittimo, i quali offrono quanto può essere sufficiente di comodo, di proprietà, e anche di eleganza, da invitare a profittarne quelli, che da terraferma si portano a cercar salute nelle acque del Mediterraneo e dell’Adriatico».
A Magnavacca, nel primo decennio del 1900, vennero costruiti completamente in legno gli stabilimenti balneari “Apollo”, “Esperia” e “Italia”, che divennero punto di riferimento del turismo locale del tempo. Furono abbattuti da una violenta mareggiata nel 1927 e in seguito rifatti, mentre la vecchia ferrovia che da Ostellato faceva capolinea lungo il porto-canale di Magnavacca passando per Comacchio, fu distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Un cenno merita il raduno ciclistico organizzato a Ferrara nel 1902 dal Touring Club Italiano, nato a Milano nel 1894 come “Touring Club Ciclistico Italiano” con l’intento di diffondere la bicicletta, simbolo di modernità e mezzo di locomozione alla portata di tutti. Il raduno Touristico fu accompagnato da una sfilata di donne in bicicletta: un’immagine di libertà e di emancipazione conquistata a fatica, dal momento che la bicicletta era vista come «uno strumento del demonio, se inforcata da gambe femminili».
La redazione, 2013
Bibliografia
Luigi Malagodi, Guida ai bagni di mare, Fano, Lana, 1856; Mario Bertarelli, voce Turismo in Enciclopedia italiana Treccani (1937); Mariangela Dallaglio, La riviera romagnola: un caso di sviluppo economico tra modelli elitari e turismo di massa, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Emilia-Romagna, a cura di Roberto Finzi, Torino, Einaudi, 1997, pp. 463-469; Antonella Cagnolati, Donne e bicicletta, Roma, Aracne, 2011.
L’Ottocento è il secolo della storiografia. Attraverso una rifondazione empirica, con un riferimento costitutivo ai documenti del passato, ma anche grazie alla nascita della “Storia” come singolare collettivo, somma della pluralità di storie, nel corso del secolo lo studio della storia diventa un campo della produzione culturale autonomo dalle generalità filosofiche, giuridiche e teologiche e dal ruolo subordinato di deposito di esempi per questi saperi. Nuove fonti e nuovi metodi trovano un coronamento con la professionalizzazione del mestiere di storico, legato all’avvento dello Stato nazionale e alla crescita delle università: nasce una nuova comunità scientifica, con norme e riti specifici, codificati da associazioni e riviste. A fine secolo, tuttavia, si produce una rottura nel campo storiografico, destinata a riprodursi costantemente, fra la tradizione politico-istituzionale e le innovazioni dettate dal dialogo con le scienze sociali e dalle pressioni dei movimenti sociali e della società di massa.
La storiografia italiana disegna un percorso specifico, meno avanzato delle esperienze tedesche o francesi, ma segnato dagli stessi processi: anche la resistenza di forme erudite ed eclettiche di sapere non è il portato dell’“arretratezza” ma un fenomeno europeo. Le grandi trasformazioni del secolo giungono invece a Ferrara alquanto attutite. Anche per l’assenza di cattedre universitarie non si producono scuole o singoli studiosi di vaglia, nemmeno, come accade in altri campi culturali per migrazione verso poli nazionali o europei. La storiografia resta un’attività coltivata nel tempo libero da bibliotecari e archivisti, da insegnanti e funzionari, da ecclesiastici, professionisti e possidenti, borghesi o nobili. Si concentra su temi locali e contribuisce alla costruzione di una memoria che si nutre della celebrazione delle passate glorie e dei grandi uomini della città e del suo territorio. Contribuiscono a questa costruzione anche le storiografie culturali-settoriali (come arti figurative e letteratura), la cui trattazione esula da questa voce. La storiografia ferrarese è un caso minore, ma questo non significa che non si registrino mutamenti e che non vi siano testimonianze delle innovazioni europee e nazionali: l’attenzione al documento permette la transizione, o meglio la commistione, fra tradizione erudita e nuovo culto “positivo” delle fonti e dei fatti; la nuova cornice nazionale risignifica la storia municipale preunitaria e affida una missione civile alla storiografia; la lotta politica lascia il segno, non più sotto forma di censura e di ossequio ai regnanti di turno, ma come promozione e uso degli studi storici al fine della produzione del consenso, ed è evidente soprattutto nelle generazioni di storici-patrioti, liberali e poi risorgimentali, ma si segnala anche nelle aperture al “sociale” degli studiosi democratici.
Il XIX secolo si era aperto con la scomparsa di Antonio Frizzi (1736-1800), uno dei più importanti intellettuali ferraresi del Settecento. Fino alla morte aveva vergato le note del suo Diario, edito solo nel 1857, per «tenere registro» delle «tante e sì grandi cose» accadute a Ferrara a partire dalla «strepitosa invasion Francese», alla quale non aveva certo guardato con favore. Quegli appunti rappresentavano la continuazione delle ponderose Memorie per la storia di Ferrara, edite in quattro tomi a fine secolo (1791-1796 - il quinto volume uscì postumo nel 1809) e concepite come raccolta di informazioni («fonte [...] ove attingere l’erudite cognizioni delle patrie antichità»), un semplice “ripiego” in attesa di una «storia completa, critica, e fedele». Tuttavia le Memorie, ispirate all’esempio di Muratori, spingevano materia, documentazione ed esposizione ben oltre la tradizione locale e la cronachistica del Diario ferrarese che lo stesso Frizzi aveva redatto fra 1775 e 1777. Si aprivano con una serie di considerazioni tematiche sulla natura del territorio e sulle origini dei suoi primi abitatori, proseguivano con la nascita della città fino alle soglie della signoria, si occupavano quindi largamente del periodo estense e si chiudevano con un volume dedicato al periodo pontificio. Laureato in legge e appassionato verseggiatore (autore anche di un poemetto in onore della salama da sugo, La salameide, 1772), Frizzi era stato per tutta la vita pubblico funzionario, soprattutto segretario del municipio e addetto all’archivio comunale, ma aveva riordinato anche le carte di importanti famiglie ferraresi e pubblicato nel 1787 una guida della città.
Le Memorie e il Diario di Frizzi continuavano una tradizione che non si interruppe nel XIX secolo: senza contare i manoscritti, basti menzionare che Roveri e Fiorentini compilarono degli Annali ferraresi fra 1830 e 1880 (1881), Fabiani diede alle stampe delle Memorie per il periodo 1815-1895 (1896), ma disponiamo anche di Memorie per Argenta (Bertoldi, 1800 e Bandi, 1868), Pontelagoscuro (anonime, 1801 e Bedani, 1898), Portomaggiore (De Stefani, 1863 e Mezzogori, 1864), Cento (Orsini-Vicini, 1904) e Massafiscaglia (Grassi, 1909). Anche la comunità ebraica ebbe le proprie Memorie (Pesaro, 1878-1880). L’opera di Frizzi rappresentò un modello, o comunque un riferimento e un deposito di notizie per buona parte del secolo. Criticamente vi si riferisce il Compendio di Manini Ferranti (1808), vi attingono le compilazioni Bertoldi (Dei diversi dominj a’ quali è stata soggetta Ferrara, 1817 e Vescovi ed arcivescovi di Ferrara, 1818 – ma all’autore si devono anche utili Memorie per la storia del Reno, 1807), mentre le riprende e sintetizza Conti (La fiera Ferrara, 1845-1850 – autore anche di una Illustrazione delle più importanti famiglie ferraresi, 1852), tanto da spingere ad una riedizione dell’opera di Frizzi (1847-1848). Ancora nel 1864, Luigi Napoleone Cittadella (1806-1877), un altro impiegato municipale che dal 1862 era stato nominato bibliotecario e archivista comunale, raccolse una serie di Notizie, «miscuglio di cose patrie» raccolte per temi e restituite in ordine alfabetico, da “Amministrazione” a “Zecca”. Erano il risultato delle scorrerie archivistiche dello studioso locale più in vista, cooptato nel 1860 nella Deputazione di storia patria per le province di Romagna e membro di molte società storiche, non solo nazionali.
Dopo l’Unità l’apertura dell’accesso agli archivi, di contro alla guardinga segretezza preunitaria, stimolò ricerche e pubblicazioni. Il culto del documento produsse nel 1891 l’importante regesto del maestro argentano Patrizio Antolini sui Manoscritti ferraresi, che andava a integrare il Saggio bibliografico del canonico Giuseppe Antonelli (1851). Una svolta nel mondo degli studi storici si segnala negli ultimi decenni del secolo, parallelamente alla nascita della Deputazione ferrarese di storia patria. Nel 1884 la città estense fu una delle ultime fra le vecchie capitali a dotarsi di questa istituzione , ma senza un programma di ricerca o un indirizzo coerente. L’iniziativa si dovette allo stimolo esterno della mostra risorgimentale all’esposizione di Torino e all’iniziativa del sindaco Trotti. La Deputazione fu luogo di raccolta degli studi individuali, dei quali spesso promosse la pubblicazione nei suoi «Atti e memorie» (d’ora in avanti: AM). La rivista esordì con la pubblicazione di una fonte (il “plebiscito” trecentesco a Clemente V) e diede ampio spazio ai documenti. Attraverso lo specchio della Deputazione, la storiografia locale appare tutta concentrata sulla dimensione cittadina, trascurando non solo il periodo antico e l’alto medioevo, ma e persino l’età comunale: fra le eccezioni, gli studi di Antonio Bottoni (1838-1898), medico e poi archivista comunale, su Pomposa (1883) e sugli «antichi abitatori» del Basso Po (1896), dell’ingegner Filippo Borgatti sulle campagne in età romana (1906; ma anche AM, 1907) e sull’origine di Ferrara (AM, 1912), di Antolini sugli Statuti di Massafiscaglia (AM, 1893 e 1895). L’attenzione principale fu rivolta soprattutto ai secoli estensi, che coincidevano con Umanesimo e Rinascimento, ma paradossalmente non si concretizzò in opere durevoli, concentrandosi per lo più su aspetti marginali, confermando così il severo giudizio di Adriano Prosperi sull’«aura di divagazione marginale» o di «erudizione affastellata e refrattaria al problema storico», «quasi svago provinciale di signori della capitale». La deprecata devoluzione del 1598 segna uno spartiacque storiografico e buona parte dell’età pontificia, interpretata univocamente in termini di decadenza, non sollecitò studi, così come non si registrano interessi per la storia religiosa ed ecclesiastica.
Gli studi riemergono con l’età del Risorgimento, soprattutto grazie all’operosità di Patrizio Antolini, che fra numerosi studi, licenziò con Giuseppe Ferraro alcuni Appunti sulla Restaurazione (1885), mentre Ferruccio Quintavalle, professore al liceo cittadino, dedicò un volume alla rivoluzione del 1831 a Ferrara (1900) e Pietro Niccolini ai bersaglieri del Po (1908). Queste pagine di storia “contemporanea” sono oggi importanti perché condotte anche su fonti distrutte dai bombardamenti bellici . Nonostante la maggiore apertura del Proemio di Trotti (AM, 1889), che pure storico non era, lo sviluppo degli studi si concentrò, seguendo lo Statuto originario della Deputazione (AM, 1886) su aspetti della storia politica cittadina. Se gli storici locali diedero qualche buona prova nella storia culturale, occupandosi in particolare della storia dell’università (Bottoni, 1892; Secco Suardo, AM, 1894; Pardi, AM, 1903), non si dedicarono affatto alle vicende della società e del territorio, con importanti eccezioni: Bottoni dedicò alcuni Appunti sulle rotte del Po (1872); il futuro direttore consortile Luigi Fano nel 1903 pubblicò brevi Cenni storici sulla bonifica ferrarese; ancora più tardi (AM, 1911) la storia demografica trovò un compendio ad opera di Giuseppe Pardi, altro professore di liceo. A studi più robusti attese solo il giovane Pietro Sitta (1866-1847), che prima di assumere la cattedra di economia politica nel locale Ateneo, dedicò due lavori alle istituzioni economiche del Ducato e delle corporazioni (AM, 1891 e 1896).
MN, 2013
Bibliografia
Enzo Bottasso, Cittadella, Luigi Napoleone, in Dizionario biografico degli italiani, v. 26, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1982; Il contributo della Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria al volto e alla storia di Ferrara in cento anni, «Atti e memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, s. IV, v. IV, 1986; Bruno Di Porto, Bottoni, Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, v. 13, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1971; Emanuele Morselli, Pietro Sitta e le sue opere economiche, Ferrara, SAIG, 1948; Carlo Zaghi, Commemorazione di Patrizio Antolini, «Atti e memorie» della Deputazione ferrarese di storia patria, 1929.
La “riscoperta dei primitivi”, ovvero il nuovo interesse di intenditori e collezionisti per le opere d’arte del medioevo e la pittura fra Cimabue e Raffaello, è certo il maggiore portato della storia dell’arte tra Sette e Ottocento. Fra i testi più significativi dell’emergere del nuovo gusto, soprattutto per la rivalutazione delle “arti minori” e dei maestri del Trecento, fu la Storia della scultura in Italia (1813-18) concepita dal ferrarese Leopoldo Cocognara, direttore dell’Accademia di Venezia, come continuazione della storia della scultura antica di Winckelmann e di quella dei monumenti medievali di Seroux d’Agincourt.
Se già Giuseppe Lanzi aveva contribuito a far uscire da un oblio durato tre secoli l’antica scuola ferrarese assegnandole un ruolo di rilievo nella sua Storia pittorica della Italia (Bassano 1795-96), la fortuna critica del Quattrocento cittadino cominciò davvero solo con il “provvidenziale” ritrovamento degli affreschi del salone dei Mesi a Schifanoia fra il 1821 e il 1840. Alla notizia del rinvenimento dei dipinti sotto lo strato d’intonaco che li occultava da circa un secolo seguì la pubblicazione di una serie di libelli polemici sulla loro attribuzione e sul loro restauro. Nel render noti gli affreschi il conte Camillo Laderchi contestò l’attribuzione dell’intero ciclo a Cosmè Tura, sostenuta dalla letteratura artistica settecentesca, segnalando le differenza di stile fra le due pareti riscoperte e attribuendo quella orientale a Lorenzo Costa, all’epoca ancora confuso con Francesco del Cossa. In risposta a Laderchi, Giuseppe Saroli e Francesco Avventi tornarono a sostenere la tradizionale attribuzione a Tura e la corretta datazione del ciclo agli ultimi anni del marchesato di Borso d’Este (1469-70). Fra il 1840 e il 1842 la notizia della scoperta si diffuse sui periodici culturali di altre città italiane, con interventi degli stessi Laderchi e Avventi, di Luciano Scarabelli, Giuseppe Petrucci e Giuseppe Maria Bozoli, fino a giungere alla colonia dei pensionanti stranieri a Roma attraverso le colonne del giornale “Il Tiberino”. La lusinghiera menzione degli affreschi come “il più importante monumento storico-culturale di quell’età” nella prima edizione del Cicerone di Jacob Burckhardt (Basilea 1855) consacrò la fama del ciclo di Schifanoia presso il pubblico internazionale. Ancor prima, la pubblicazione da parte di Laderchi del catalogo della maggiore collezione cittadina (Descrizione della quadreria Costabili, Ferrara 1838-41), ricca di tavole dei primitivi, aveva attratto in città i primi grandi conoscitori europei (fra essi Otto Mündler, Henry Layard, Charles Eastlake, Giovanni Morelli, Alexander Barker), solleticati dalla possibilità di approfittare del disgregamento delle quadrerie storiche ferraresi per acquistare dipinti per le loro collezioni e per le gallerie nazionali estere. Il riconoscimento internazionale degli antichi maestri della scuola ferrarese coincise in tal modo con la dispersione delle loro opere.
In ambito cittadino Laderchi, simpatizzante della critica d’inclinazione mistica di Alexis François Rio e di Charles de Montalambert – dei quali era corrispondente – procedette a una rivalutazione in termini fortemente ideologici della pittura devota del secondo Quattrocento e di Garofalo, apprezzata per la sua ispirazione sinceramente cristiana e contrapposta al “lurido paganesimo” imposto dai letterati di corte agli artisti attivi a Schifanoia. Le sue relazioni internazionali, una buona conoscenza delle fonti storiche – seppure attraverso i regesti degli eruditi settecenteschi – e una discreta capacità di discernimento critico fanno di Laderchi la massima autorità cittadina in campo artistico (La pittura ferrarese, Ferrara 1848 e 1857).
Nel clima culturale del Risorgimento e nell’ambito delle élite colte di orientamento liberale la testimonianza dello splendore dell’epoca estense che emergeva così vividamente dai muri di Schifanoia era tuttavia implicitamente posta a confronto con la decadenza della città durante i due secoli di dominio pontificio. I dipinti di Schifanoia, assieme alle pale d’altare del Garofalo, che dal 1836 lasciano le chiese cittadine per entrare nella Pinacoteca Municipale appena costituita, vengono riprodotti e commentati in iniziative editoriali che tuttavia non giungono a compimento, forse a causa dell’assenza in città di un pubblico abbastanza colto da intendere il significato culturale e politico dell’operazione e abbastanza vasto da sostenerla. Tali condizioni sembrerebbero invece darsi una decina d’anni più tardi, ormai alle soglie dell’Unità, con la pubblicazione, fra il 1850 e il 1860, dell’Album Estense per i tipi dell’editore Abram Servadio. Orientato fin dal titolo esclusivamente sul passato ducale, il volume opera una selezione dei monumenti e della storia artistica cittadina che sarebbe rimasta costitutiva dell’identità culturale ferrarese all’interno del nuovo Stato. L’opera è tuttavia priva di un reale impianto storico e si risolve in una serie di medaglioni scritti da illustri dilettanti, mentre la presenza di un testo francese a fianco di quello italiano dimostra la volontà di rivolgersi al pubblico internazionale del Grand Tour, di cui nel frattempo la città era divenuta meta.
Il nuovo interesse per la pittura antica rinfocola anche quello nei confronti della locale letteratura artistica settecentesca, che era – e in buona parte rimarrà ancora a lungo – inedita. Nel 1836 Giuseppe Petrucci pubblicò la Vita di Cosmè Tura, cui fece seguire le biografie di altri artisti del Cinque e Seicento tratte dal manoscritto delle Vite de’ pittori e scultori ferraresi di Girolamo Baruffaldi, che fu pubblicato integralmente nel 1844-46 a cura di Giuseppe Boschini. A Laderchi si deve invece la seconda edizione delle Memorie per la storia di Ferrara di Antonio Frizzi (Ferrara 1848). Nella seconda metà del secolo lo scavo operato negli archivi cittadini da Luigi Napoleone Cittadella (Notizie storiche relative a Ferrara, Ferrara 1864 e 1868) e le indagini del modenese Giuseppe Campori nell’Archivio Estense fornirono una più solida base documentaria agli studi storico-artistici.
Fu però solo con l’affermarsi anche in Italia della critica filologica di matrice anglosassone che la storia dell’arte ferrarese uscì dai limiti angusti dell’erudizione municipale e si compì un reale progresso nella conoscenza delle origini della scuola, liberando il campo dai miti privi di fondamento consolidatisi nella letteratura da Vasari a Baruffaldi e giungendo, attraverso la pratica dell’attribuzione, a una più attendibile definizione della fisionomia stilistica dei suoi protagonisti: Cosmè Tura, Francesco del Cossa e, in parte, Ercole de’ Roberti. Fondamentali in tal senso furono gli studi sistematici di Giovan Battista Cavalcaselle e Joeph Archer Crowe (A History of Painting in North Italy, Londra 1871) e i cataloghi ragionati delle maggiori pinacoteche europee redatti da conoscitori come Giovanni Morelli e Gustavo Frizzoni. Nel 1884 uscì sullo “Jahrbuch” dei musei prussiani lo studio di Fritz von Harck sugli affreschi di Schifanoia che, individuando nel ciclo la presenza di almeno tre diversi maestri e riconoscendo nella parete Est la mano del Cossa, costituì una solida base per le successive indagini filologiche, a cominciare da quelle di Adolfo Venturi. Alla storia dell’arte come storia della civiltà, sull’esempio di Burckhardt e Eugene Müntz, si ispirava invece l’ampia e accurata sintesi di Gustave Gruyer (L’art ferrarais à l’époque des princes d'Este, Parigi 1897), cui seguì quella più agile e sapientemente divulgativa di Edmund Gardner (The Painters of the School of Ferrara, Londra 1911).
E’ difficile sopravvalutare l’importanza degli scritti dedicati all’arte ferrarese dal modenese Adolfo Venturi nell’arco di tutta la vita: i seminali studi sui primordi del Rinascimento, sull’epoca di Borso e di Ercole I d’Este pubblicati fra il 1884 e il 1890 sull’“Archivio Storico Italiano” e sugli “Atti e Memorie” della Deputazione romagnola; gli approfondimenti monografici sui maggiori artisti apparsi negli stessi anni sulle più importanti riviste d’arte tedesche e francesi; la supervisione alla mostra sulla scuola di Ferrara e Bologna dal 1440 al 1540 al Burlington Fine Arts Club di Londra nel 1894; i ritrovamenti documentari, le opere d’arte inedite o nuovamente attribuite, le recensioni di libri e mostre pubblicati sulle pagine dell’“Archivio Storico dell’Arte” e de “L’Arte”. Questi studi – grazie ai quali la disciplina storico-artistica raggiunse anche in Italia uno statuto autonomo, fondato sul confronto fra fonti documentarie e analisi stilistica delle opere – si riversarono, con il loro ricco corredo fotografico, nei tomi della Storia dell’arte italiana dedicati alla pittura del Quattro e del Cinquecento (Milano 1914, 1928 e 1929). I volumi di Venturi, assieme agli scritti di Bernard Berenson, costituiranno i testi di riferimento per l’Esposizione della pittura ferrarese del Rinascimento tenutasi a Palazzo dei Diamanti nel 1933, a cura di Nino Barbantini, da cui si può dire prenda avvio la vicenda novecentesca della storia dell’arte ferrarese.
MT 2013
(Marcello Toffanello)
Bibliografia:
Corrado Padovani, La critica d’arte e la pittura ferrarese, STER, Rovigo, 1954; Ranieri Varese, Atlante e atlanti, in Atlante di Schifanoia, a cura di Ranieri Varese, Panini, Modena, 1989, pp. 9-20; Jaynie Anderson, The rediscovery of Ferrarese Renaissance painting in the Risorgimento, “The Burlington Magazine”, 135, 1993, pp. 539-549; Luisa Ciammitti, “Un non so che di particolare e di nuovo”. Cenni sulla storiografia della scuola ferrarese, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’epoca di Borso d’Este, a cura di Mauro Natale, Ferrara Arte, Ferrara, 2007, pp. 91-109; Marcello Toffanello, Vicende critiche e attribuzione degli affreschi, in Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, a cura di Salvatore Settis e Walter Cupperi, Franco Cosimo Panini, Modena, 2007, vol. Testi, pp. 234-37.
Alla fine del Settecento le raccolte pubbliche d’antichità a Ferrara erano ospitate in palazzo Paradiso, storica sede dell’Università: il Lapidario nel cortile d’onore dal 1735, il Museo numismatico e archeologico in due stanze al piano nobile dal 1758. Qui avevano trovato posto anche l’Orto botanico (1729), il nuovo Teatro anatomico (1732), l’Accademia del disegno di figura e architettura (1736) e la Biblioteca (1746-59). Dal 1771 la stretta relazione fra attività didattica universitaria e musei era stata rafforzata dalla riforma promossa e guidata da Roma dal prelato ferrarese Giovan Maria Riminaldi, che, grazie a un’accorta strategia di acquisti e di donazioni aveva accresciuto in modo considerevole le raccolte del lapidario e del museo, rinnovandone la fisionomia, che si era in tal modo allontanata dal modello della raccolta antiquaria cara agli eruditi cittadini per aderire ai nuovi principi archeologici propugnati dal neoclassicismo romano. L’ambiente universitario ferrarese oppose tuttavia una sorda resistenza all’attività riformatrice di Riminaldi, tanto che dal 1789, anno della morte del cardinale, fino al 1811, il museo, lasciato privo di direzione e custodia, rimase quasi sempre chiuso al pubblico.
Paradossalmente, ad allentare il legame d’impronta illuminista fra attività didattica e museo furono le disposizioni del governo napoleonico riguardanti il declassamento dell’università ferrarese a liceo e l’accentramento dell’educazione artistica superiore nelle sole accademie di Milano e Bologna. Fu probabilmente per reagire a questa situazione che nel 1805 il direttore dello Studio ferrarese, il fisico Antonio Campana, appoggiò l’iniziativa del docente di pittura Giuseppe Santi di allestire una pubblica pinacoteca raccogliendo nell’aula di Sant’Agnese, ex oratorio universitario, una selezione di dipinti provenienti da istituti religiosi soppressi. L’esperimento, probabilmente parte di un più ampio progetto di musealizzazione del patrimonio pittorico delle chiese cittadine, dovette tuttavia essere interrotto per l’opposizione delle autorità centrali. La Civica Pinacoteca venne dunque istituita ufficialmente solo nel 1836, in tutt’altro clima culturale, quando ormai molte opere erano uscite dalle mura cittadine.
Sorta con lo scopo di presentare le opere degli antichi maestri “in miglior lume e alla portata di ogni studioso amatore o conoscitore, [così che] servir potessero ad un tempo e di esemplari per i più giovani, e di testimonianza del valore della nostra scuola, e di onore durevole alla città stessa” (F. Avventi, Il servitore di piazza, Ferrara 1838), la pinacoteca non ebbe dunque origine direttamente dalle soppressioni di età napoleonica, né in seguito le riuscì di acquisire le opere più significative delle collezioni private che da quegli eventi erano sorte e che andarono disperse senza rimedio nel corso del secolo. La quadreria civica si accrebbe invece prelevando i dipinti dagli altari delle chiese cittadine per sostituirli con copie, avvalendosi dei poteri conferiti alle Commissioni municipali di Belle Arti dalla recente legislazione pontificia in materia di tutela del patrimonio artistico. Azioni simili si protrassero per tutto il secolo e comportarono lo stacco di affreschi e la rimozione di intere serie di dipinti d’altare, come nei casi delle chiese di Santa Maria in Vado (fin dal 1834), Sant’Andrea (1847), San Francesco (1865) e San Paolo (1877).
Al momento della sua istituzione la Pinacoteca aveva sede in palazzo Municipale, dove erano stati raccolti una quarantina di dipinti, per la maggior parte provenienti da chiese cittadine, ma già nel 1842 essa venne trasferita nelle più capienti e salubri sale di palazzo dei Diamanti, appena acquistato dal Comune dalla famiglia Villa per farne la sede del nuovo Ateneo Civico. Qui la “Patria Pinacoteca” trovò posto accanto alla Scuola d’ornato, all’Accademia di scienze e lettere e a quella medica, alla Scuola della Società agraria con l’orto botanico, alla Scuola veterinaria con la clinica animale. L’impronta pragmatica conferita al nuovo complesso risulta evidente dalla presenza di diversi istituti tecnico-pratici e dalla sostituzione dell’accademia del nudo con una Scuola d’ornato orientata alla formazione di artigiani piuttosto che di artisti. Fu probabilmente questa impostazione la ragione di fondo delle crescenti difficoltà di gestione cui andò incontro la Pinacoteca, man mano che essa, nella seconda metà del secolo, perse l’originaria funzione educativa per rivolgersi al pubblico ‘colto’ degli intenditori e dei turisti, sostituendosi ai musei di palazzo Paradiso come meta privilegiata.
Le requisizioni napoleoniche del 1796 e del 1805 colpirono Cento ben più di Ferrara, per via del grande favore che le opere del Guercino avevano sempre goduto in Francia. I dipinti recuperati da Parigi nel 1815 furono dapprima esposti nell’oratorio del SS. Rosario, poi nel settecentesco palazzo del Monte di Pietà, adibito a Pinacoteca Civica dal 1839. Nei decenni successivi la quadreria centese incrementò le sue collezioni non solo a spese delle chiese cittadine ma anche grazie a donazioni e acquisti da collezioni private, che dimostrano come la Pinacoteca fosse presto riuscita a divenire il centro di riferimento per le manifestazioni d’orgoglio civico, che avevano nella figura del Guercino la loro bandiera. La prima guida del museo fu pubblicata nel 1861, un anno prima dell’inaugurazione in piazza del monumento al maestro centese scolpito dal concittadino Stefano Galletti; la seconda fu impressa nel 1891, in occasione del terzo centenario della nascita del Barbieri; entrambe documentano, assieme all’accrescersi delle collezioni, l’approfondirsi delle conoscenze sulla scuola pittorica locale.
Anche ad Argenta le soppressioni napoleoniche costarono alla città la perdita di gran parte degli arredi sacri, fra cui due notevoli pale d’altare del Garofalo. Per arginare il degrado del patrimonio artistico locale, reso più acuto dalle leggi soppressive del 1866, il sindaco Giuseppe Vandini promosse il restauro delle maggiori chiese cittadine e nel 1869 fece raccogliere in Municipio i migliori dipinti, costituendo così il primo nucleo della futura Pinacoteca Comunale.
Tornando a Ferrara, dal 1825 i musei di palazzo Paradiso furono risistemati e si arricchirono di nuove donazioni sotto la direzione del bibliotecario Giuseppe Antonelli. Dopo il 1850 giunsero al museo reperti etnografici e naturalistici raccolti in Egitto da viaggiatori ferraresi: il marchese Massimiliano Strozzi Sacrati, il medico Elia Rossi e l’agente commerciale Angelo Castelbolognesi. Analogamente a quanto avvenne agli altri musei di storia patria in Italia – si pensi al caso del Correr a Venezia – nella seconda metà del secolo, anche le raccolte ferraresi persero il loro carattere enciclopedico unitario per venire suddivise in nuclei disciplinari omogenei, ordinati secondo più razionali principi classificatori. Fin dal 1853 diverse opere del fondo Riminaldi (busti, bassorilievi, ritratti di uomini illustri) entrarono a far parte dell’arredo della Pinacoteca di palazzo dei Diamanti. Nel 1869 l’intera sezione naturalistica venne trasferita nell’ex convento delle Martiri a formare un museo autonomo, istituito in occasione della fondazione della Scuola di scienze naturali della Libera Università ferrarese (1862). Ne fu direttore Galdino Gardini, che nel trentennio successivo accrebbe e specializzò le collezioni museali favorendo le donazioni da parte di collezionisti privati. Giunsero così in museo la raccolta di fossili del bacino di Monte Mario a Roma donata dallo scultore Angelo Conti e i preziosi repertori di esemplari zoologici, geologici ed etnografici spediti dall’America del Sud dai concittadini Enea Cavalieri e Angelo Fiorini.
Infine, nel 1898 il gabinetto archeologico e quello numismatico furono trasferiti – non senza opposizioni – da palazzo Paradiso a palazzo Schifanoia, dove furono posti nella sala degli Stucchi e in quella delle Imprese, a fianco del salone d’onore ornato dagli affreschi quattrocenteschi riscoperti fra il 1820 e il 1840, a confronto coi quali si collocarono in apposite bacheche i più bei codici miniati della stessa epoca, tolti dalla biblioteca. Per volontà del sindaco Pietro Niccolini, del direttore della biblioteca Giuseppe Agnelli e del grande storico dell’arte Adolfo Venturi, la delizia di Schifanoia cominciava così a uscire dallo stato di decadenza in cui era caduta dopo la Devoluzione per divenire il museo del Rinascimento ferrarese. A palazzo Paradiso rimase il solo Lapidario, che aveva mantenuto la sua forma settecentesca e che nel Novecento sarebbe stato smembrato fra la sezione romana (oggi esposta nell’ex chiesa di Santa Liberata) e quella medievale (al Museo della Cattedrale e in Casa Romei).
Nel frattempo, fra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento, la Pinacoteca di palazzo dei Diamanti si era trovata al centro di continue polemiche riguardanti i suoi criteri di ordinamento e i restauri condotti sulle opere. Costruita attorno al vecchio mito purista e neoguelfo del Garofalo, “Raffaello ferrarese”, essa contava allora circa 180 dipinti, esposti in una decina di sale, senza alcun ordinamento cronologico o per scuola, con una netta prevalenza di pale d’altare del Cinque e del Seicento. A queste si aggiungevano due stanze dedicate agli artisti contemporanei, con l’intenzione di dimostrare la vitalità della scuola locale.
Nel 1903 fu aperto in palazzo dei Diamanti anche il Museo del Risorgimento, la cui raccolta di cimeli e documenti si era formata per iniziativa della Deputazione di storia patria in occasione dell’Esposizione nazionale di Torino del 1883 ed era in seguito stata donata dai proprietari al Municipio. Abbandonato ben presto a se stesso, il nuovo museo contribuì a trasmettere quell’impressione di eterogeneità delle raccolte, carenza di spazi e generale incuria denunciata dai visitatori di palazzo dei Diamanti. Tuttavia, il restauro dell’edificio e la riorganizzazione degli spazi museali ebbero luogo solamente nel 1933, in occasione della grande esposizione che rese celebre la scuola ferrarese del Rinascimento, dopo che nel 1912 il Comune aveva tentato invano la “regificazione” della Pinacoteca per liberarsi degli oneri di gestione (il passaggio allo Stato sarebbe infine avvenuto nel 1956).
Nello stesso 1898 in cui si diede avvio alla riqualificazione di palazzo Schifanoia, un altro significativo esempio di dimora gentilizia del Quattrocento, casa Romei, entrata a far parte del demanio statale nel 1866 come pertinenza del convento del Corpus Domini, fu consegnata all’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti (futura Soprintendenza), che ne cominciò il restauro mettendo fine a un periodo di degrado e usi impropri. Lo stesso avvenne nel 1906 per la palazzina tardorinascimentale di Marfisa d’Este, affidata dal Municipio alle cure della “Ferrariae Decus”, una società sorta con lo scopo di tutelare il patrimonio monumentale cittadino (vedi Istituzioni culturali). La palazzina sarebbe divenuta sede di un museo nel 1937, a conclusione del processo di radicale rinnovamento del sistema museale cittadino realizzato fra le due guerre, le cui premesse erano state poste nei decenni precedenti.
MT, 2011
Bibliografia
Il Museo Civico in Ferrara. Donazioni e restauri, catalogo della mostra (Ferrara, Chiesa di San Romano, aprile - luglio 1985), Firenze, Centro Di, 1985; La Pinacoteca Civica di Cento. Guida illustrata, a cura di Fausto Gozzi, Bologna, Nuova Alfa, 1987; Ranieri Varese, Un progetto “giacobino”: la Galleria dell’Accademia di Ferrara, in Ferrara. Riflessi di una rivoluzione, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo Paradiso, 11 novembre - 31 dicembre 1989), a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Corbo, 1989, pp. 148-67; Anna Maria Visser Travagli, Palazzo Schifanoia e palazzina Marfisa a Ferrara, Milano, Electa, 1991; Jadranka Bentini, La Pinacoteca Nazionale di Ferrara: origini, acquisizioni, restauri, in La Pinacoteca Nazionale di Ferrara. Catalogo generale, a cura di Jadranka Bentini, Bologna,Nuova Alfa, 1992, pp. XI-XXIV.
Il primo fu «L’Avviso Patriottico», giornale giacobino di cui sono noti 13 numeri usciti nel 1797. Rivolto ai ceti potenzialmente più ostili alla rivoluzione, i contadini e la nobiltà, in ciascun numero cercava di chiarir loro un argomento politico (il federalismo, la divisione dei poteri, il Direttorio ecc.) con un testo in forma di dialogo filosofico. Ne era redattore unico Alessandro Bevilacqua, un aristocratico che aveva aderito alla causa della rivoluzione, autore di un Saggio sulla libertà della stampa nello stesso 1797 e moderatore del Circolo costituzionale.
L’organo ufficiale del Circolo fu però «Il Giornale del Basso Po», uscito con cadenza settimanale dal 22 marzo al 6 settembre 1798. Oltre ai resoconti delle sedute, sul giornale si trovavano notizie amministrative e di cronaca locale, dipartimentale e nazionale tratte da altri giornali, corsivi politici e apologhi repubblicani. Promotore e principale, se non unico, redattore del giornale fu l’avvocato Giulio Mazzolani, segretario del Circolo costituzionale, fervente repubblicano poi intiepiditosi in epoca napoleonica. Mazzolani compilò anche il più duraturo «Giornale Ferrarese» (1808-14; dal 1812 «Giornale del Dipartimento del Basso Po»), esperienza fondamentale del giornalismo cittadino, di cui si tentò una prima effimera continuazione dopo la Restaurazione con il «Corriere Ferrarese» e il «Postiglione di Ponte Lagoscuro», che ebbero un semestre di vita ciascuno fra il 1817 e il 1818. Poche notizie rimangono sugli altri fogli stampati e diffusi nei centri della provincia durante il triennio giacobino, come a Bondeno «Lo Svegliarino» e «L’Occhiale».
Il «Giornale Ferrarese» fu il primo organo di informazione cittadino ad assumere il formato della gazzetta, altrove da tempo collaudato, che sarebbe stato proprio anche degli altri periodici politico-economici del secolo: quattro grandi pagine a cadenza bi- o trisettimanale in cui accanto alle ordinanze, agli atti delle autorità e alle informazioni commerciali si davano notizie di politica nazionale ed europea (tratte da giornali italiani e stranieri), la cronaca locale, commenti redazionali e una serie di rubriche ricorrenti (articoli di contenuto letterario e scientifico, recensioni di libri e spettacoli teatrali, ma anche curiosità, osservazioni meteorologiche, giochi enigmistici e note di costume). Il giornale rispecchiava dunque gli interessi della borghesia in ascesa, che lo impiegò come strumento di lotta politica in occasione di ogni moto insurrezionale. Così avvenne nel 1830-31 con «L’Africano», sorta di rassegna stampa internazionale sulle vicende del colonialismo europeo, e con «L’Italiano», che simpatizzò con i moti liberali. Così fu ancora nel 1848-49 con «La Campana Democratica del Lunedì» e soprattutto con la «Gazzetta di Ferrara» (1848-1929), che appoggiò la causa liberale e patriottica richiamandosi alla precedente esperienza dell’«Italiano», di cui adottò il medesimo sottotitolo di «Foglio politico, scientifico e letterario».
Fondata nel 1848 da Francesco Mayr, che, chiamato a far parte della giunta di governo cittadino, ne cedette la direzione al cugino Carlo e ai collaboratori Luigi Borsari e Camillo Laderchi, la «Gazzetta» sopravvisse al fallimento della rivoluzione e, seppure sottoposto alla censura pontificia, mantenne il ruolo di bollettino degli atti di governo e di gazzettino mercantile, divenendo il più longevo e importante giornale ferrarese del XIX secolo. Cambiato il nome in «Gazzetta Ferrarese», dopo l’Unità si assestò su posizioni liberali moderate e sostenne idealmente il processo di formazione del nuovo Stato sabaudo divenendo nel 1864, da bi/trisettimanale, il primo foglio quotidiano ferrarese. Il periodo di maggior autorevolezza della «Gazzetta» presso l’opinione pubblica locale si ebbe probabilmente durante le direzioni di Guglielmo Ruffoni (1874-75) e Pacifico Cavalieri (1876-95), quando il giornale ispirò la linea politica dello schieramento moderato e chiamò i maggiori intellettuali cittadini a collaborare alle sue seguitissime rubriche culturali.
Fra il 1861 e il 1900 a Ferrara nacquero e rapidamente morirono una sessantina di periodici fra politici, umoristici e culturali, senza contare le riviste specializzate, i bollettini scientifici e gli annuari (per una rassegna completa si rimanda a Maragna 1997 e a Ghesini 1999, pp. 240-248). Si menzionano qui di seguito i più significativi giornali politici, indicando fra parentesi gli anni di pubblicazione e la loro periodicità (Q = quotidiano; B/T = bi/trisettimanale; S = settimanale). Fra le riviste clericali si segnalano: «Il Saggiatore» (S 1864-65), «Il Popolo» (B 1873-77), «Il Buon Giovinetto» (1876-86), quindicinale rivolto ai fanciulli ma di grande influenza sulle famiglie, «L’Annunciatore» (S 1887-88). Nel campo moderato-liberale dominato dalla «Gazzetta» si ebbero le fugaci apparizioni di «Il Corriere ferrarese» (Q 1864-65), «L’Unione» (S 1874-75), «Il Tribuno» (S 1892). Sostennero le idee dei progressisti e dei democratici i quotidiani «L’Eridano» (1861-64) e «La Sentinella del Po» (1865-66), mentre con la sinistra repubblicana e radicale si schierarono «La Lanterna Cieca» (S 1865-66), «Il Povero» (S 1872-73), «La Lanterna» (S 1877), «La Nuova Ferrara» (Q 1882-83); socialista intransigente e internazionalista fu «Il Petrolio» (S 1874), anarchico «Il Proletario» (S 1892) diretto da Caio Mazza.
Se una tale effimera fioritura può essere intesa come segno di vivacità intellettuale, occorre però avvertire che essa si scontrava con l’altissimo tasso di analfabetismo che riduceva a poche migliaia il pubblico dei lettori. Per fondare e stampare una gazzetta bastava infatti radunare un gruppo di sottoscrittori che mettessero a disposizione il relativamente modesto capitale iniziale necessario. Molti dei fogli che circolarono a Ferrara furono dunque strumenti di pressione politica nelle mani di ristretti e occasionali gruppi di potere, incapaci di dare vita a progetti editoriali di più lunga vita che ottenessero l’appoggio dei lettori. In tal senso la nascita a fine Ottocento di alcuni periodici che sarebbero stati pubblicati con continuità fino all’avvento del fascismo rispecchiò lo strutturarsi della società e dell’opinione pubblica ferrarese, come di quella nazionale, in relazione a più stabili e definiti blocchi politico-economici.
Nel 1885 il bi/trisettimanale «La Rivista», fondato nel 1878 con un programma “liberale onesto” e passato nel 1882 su posizioni democratiche estreme di ispirazione mazziniana, fu diretto da un comitato di redazione dominato dallo spregiudicato deputato Severino Sani, rappresentante cittadino dei democratici radicali, del quale sostenne la politica trasformistica e clientelare per diventare col nuovo secolo la voce dell’associazione degli agrari, fino al 1920, quando cessò le pubblicazioni. Si oppose alla deriva saniana dei democratici «L’Indipendente» (B 1889-95), organo dell’Associazione radicale della città e della provincia, mentre nel Novecento il nuovo corso democratico trovò espressione nel quotidiano «La Provincia di Ferrara» (1903-22). Anche in campo liberale all’autorevole «Gazzetta Ferrarese» si affiancarono due nuovi periodici: «“Il Lavoro»” (B 1895-1900), organo dei moderati-costituzionali, e, derivato da questo, il quotidiano «Il Mattino» (1897-99), su posizioni più conservatrici.
Con la fondazione di «La Scintilla» (S 1896-1922) il movimento socialista riuscì ad avere un proprio periodico rendendosi finalmente autonomo dalla stampa democratico-radicale cui fino allora era stato legato. Chiuso d’autorità in seguito ai fatti del 1898, il giornale riaprì nel 1900 grazie all’azione caparbia di Paolo Maranini e del gruppo dirigente, ma dopo le divisioni del congresso provinciale del 1904 risentì fortemente della lotta interna al partito divenendo di fatto il portavoce della fazione al momento prevalente. Le posizioni di minoranza furono così di volta in volta espresse dai massimalisti «Ferrara che veglia» (S 1901-02) e «La Favilla» (S 1909-10) o, sullo schieramento opposto, dal riformista «Il Pensiero Socialista» (S 1905-07) e da “Il Lavoratore” (1912-13), settimanale della Camera del lavoro di Cento; per circa un anno l’organo del partito a Copparo fu “Il Pantalone” (S 1894-95). Va infine ricordato il settimanale «Eva» (1901-03), il primo periodico femminile socialista edito in Italia, che a Ferrara ebbe i suoi difficili inizi prima di trasferirsi a Genova con la sua fondatrice e direttrice Rina Melli.
Organo ufficiale del movimento cattolico ferrarese dal 1895 al 1928 fu il settimanale «La Domenica dell’Operaio». Emanazione diretta della curia, fu sempre sottoposto all’autorità ecclesiastica e rigidamente allineato con le direttive pontificie. Forte di questa posizione e di un rigore dottrinale sconosciuto alle precedenti riviste cattoliche la «Domenica» combatté con forza polemica una battaglia ideologica su due fronti contro il liberalismo politico e il liberismo economico da una parte e contro il materialismo e il collettivismo socialista dall’altra. Sulla questione romana mantenne posizioni fermamente intransigenti sostenendo nel primo decennio di vita l’astensionismo politico in osservanza al Non expedit e in seguito appoggiando sempre più apertamente la partecipazione alle elezioni dei cattolici militanti e le alleanze clerico-moderate guidate dal conte Grosoli. Animato dalla missione di sottrarre le masse popolari all’influenza “scristianizzatrice” della propaganda socialista, fu in costante e accesa polemica su ogni tema sociale, economico e culturale con «La Scintilla» e con i giornali della sinistra radicale.
A Copparo, importante centro agricolo e capoluogo di un vasto Comune, si stamparono gli unici periodici di cronaca locale degni di menzione: «Il Progresso” (S 1900-01) e il «Giornale di Copparo» (S 1905-07), che sulle questioni amministrative spesso tenne posizioni contrapposte a quelle del «Corriere di Copparo», il supplemento locale della «Gazzetta Ferrarese».
Il torbido clima politico precedente l’entrata in guerra fu ben rappresentato sul piano della stampa dall’apparizione dei periodici: «Raffica» (1913), quindicinale di tendenza sindacalista rivoluzionaria, «Avanguardia» (1914), settimanale nazionalista, e del «Gazzettino Rosa» (1914-15), organo mensile del Fascio Anticlericale Studentesco, accesamente interventista.
Dopo la guerra, chiusi con la forza nel 1922 «La Scintilla» e «La Provincia di Ferrara»e presto confluiti nella stampa di regime «La Gazzetta Ferrarese» e «La Domenica dell’Operaio», l’uscita nell’aprile del 1925 del primo numero del «Corriere Padano. Quotidiano della rivoluzione fascista»”, voluto da Italo Balbo e diretto da Nello Quilici, segnò l’aprirsi di un nuovo capitolo nella storia del giornalismo ferrarese.
MT 2013
(Marcello Toffanello)
Bibliografia:
Amerigo Baruffaldi, “La Domenica dell’Operaio” espressione del movimento cattolico ferrarese a cavaliere fra Ottocento e Novecento, «Analecta Pomposiana», 15, 1990, pp. 233-57; Delfina Tromboni, La stampa periodica ferrarese tra la fine del ’700 e gli albori del ’900, in Storia del giornalismo in Emilia Romagna e a Pesaro dagli albori al primo Novecento, a cura di Giancarlo Roversi, Casalecchio di Reno (Bologna), Grafis, 1992, pp. 303-315; AA.VV., schede di periodici, in 1892-1992. Il movimento socialista ferrarese dalle origini alla nascita della repubblica democratica. Contributi per una storia, a cura di Aldo Berselli, Cento, Centoggi, 1992, pp. 83-96 e 175-183; Luciano Maragna, La Stampa Ferrarese. Giornali e Riviste Ferraresi (1848-1996), Ferrara, [Navale Assicurazioni], 1997; Oscar Ghesini, La Gazzetta Ferrarese: percorsi critico-letterari (1848-1899), Ferrara, Liberty house, 1999
Nel corso dell’Ottocento anche in Italia si assistette a un progressivo affermarsi della figura dell’editore moderno come imprenditore capace di elaborare progetti culturali. Non più cioè un tipografo che stampava testi in modo occasionale direttamente su commissione degli autori, ma un intermediario fra questi ultimi e un pubblico di lettori che, soprattutto dopo l’unificazione del mercato nazionale, si faceva sempre più vasto. Si trattò tuttavia di un fenomeno che riguardava quasi esclusivamente i centri maggiori – sopra tutti Milano, Firenze e Torino – mentre nel resto d’Italia la figura dell’editore coincideva ancora con quella del libraio-stampatore.
Anche a Ferrara per tutto il secolo l’editore continuò a essere un tipografo che vendeva al pubblico i suoi volumi in un negozio di cartoleria o un libraio che si dotava di torchi. In mancanza di studi generali per delineare un quadro sommario dell’argomento occorre incrociare i dati repertoriali forniti dal Catalogo dei libri italiani dell’Ottocento (CLIO, 1991) e dalla rassegna degli Editori italiani dell’Ottocento (2004) con quelli risultanti dall’indagine sistematica dei cataloghi delle biblioteche della provincia, resa possibile dai moderni strumenti informatici. Ne emerge un panorama in costante espansione di tipografie artigianali che stampano non solo saggi e opere di erudizione storica e religiosa, testi universitari, trattati medici e di ingegneria idraulica, ma anche e soprattutto opuscoli d’occasione (per matrimoni, funerali, celebrazioni), libretti d’opera, relazioni tecniche, leggi, decreti e documenti amministrativi, locandine, avvisi pubblici e, sul finire del secolo, cartoline illustrate. Se si eccettuano i componimenti in versi, la produzione letteraria era del tutto marginale, mentre la stampa di giornali e periodici costituiva parte significativa dell’attività delle tipografie ferraresi.
Fra Sette e Ottocento erano ancora operosi in città gli eredi di stamperie fondate alla fine del XVII secolo, come Giuseppe Barbieri (attivo 1727-99) e Francesco Pomatelli (c. 1781-1838), cui si aggiunsero gli Eredi di Giuseppe Rinaldi (1784-1810) e la società fra Bianchi & Negri (c. 1800-20). Nonostante si professassero stampatori camerali e del Sant’Uffizio o del Seminario, essi impressero indifferentemente opuscoli di soggetto religioso e libelli rivoluzionari. Nel 1809 Gaetano Bresciani fondò il suo moderno stabilimento tipografico che dominò la produzione libraria ferrarese per tutto il trentennio successivo e grazie agli eredi proseguirà la sua attività fino agli anni Venti del Novecento. Dal 1848 i Bresciani pubblicarono il più importante giornale cittadino, la «Gazzetta Ferrarese», e numerosi altri periodici.
Il maggior stampatore-libraio della seconda metà del secolo fu però Domenico Taddei, che dopo aver condotto e rilevato nel 1838 l’antica tipografia Pomatelli, dal 1840 cominciò a pubblicare a proprio nome. Fra le maggiori opere impresse da Taddei prima dell’Unità vanno ricordate l’edizione annotata delle Vite de’ pittori e scultori ferraresi (1844-46) scritte da Girolamo Baruffaldi nel secolo precedente e, fra il 1843 e il 1875, pressoché tutti i saggi storici di Luigi Napoleone Cittadella. Alla morte di Domenico nel 1883 il figlio Antonio assunse la conduzione della tipografia, della libreria e del prospero negozio di cartoleria, che avrebbe proseguito l’attività mantenendo il nome originario fino al 1994.
Ritornando in epoca preunitaria, figura notevole è quella di Abram Servadio, editore-libraio che non sembra aver stampato in proprio le sue pubblicazioni. Cominciò la sua attività curando l’edizione dei 13 volumi delle Opere in prosa e versi di Agostino Peruzzi, storico anconetano e canonico della Cattedrale ferrarese, impresse a Bologna per i tipi di Sassi nel 1844-47. Seguendo un preciso disegno editoriale Servadio in seguito pubblicò la seconda edizione delle Memorie per la storia di Ferrara di Antonio Frizzi (1847-50; 1.a ed.: Francesco Pomatelli, 1791-1809), facendole seguire nel 1857 dal Diario scritto dallo stesso Frizzi in loro continuazione, a cura di Camillo Laderchi. A corredo delle Memorie di Frizzi fra il 1850 e il 1860 uscì a fascicoli per sottoscrizione l’Album Estense, un volume bilingue in italiano e francese che raccoglieva testi dei maggiori storici ferraresi (Laderchi, Francesco Canonici, Pompeo Litta e altri) dedicati ai monumenti, ai poeti e ai duchi di Casa d’Este, illustrato da litografie dei Fratelli Doyen di Torino tratte da disegni di Adeodato Malatesta, Giuseppe Coen, Francesco Migliari e altri artisti ferraresi. L’opera è uno degli esempi più significativi del revival estense che caratterizzò la cultura e l’arte ferrarese durante l’epoca risorgimentale. Altre opere degne di nota dell’editore israelita sono: il Saggio di una bibliografia storica ferrarese compilato dal direttore della Biblioteca Ariostea Giuseppe Antonelli, anch’esso stampato a Bologna da Sassi nel 1851; lo studio sulla Pittura ferrarese di Laderchi del 1856 e diversi testi universitari come i volumi di Luigi Borsari sul contratto di enfiteusi, i corsi di medicina di Luigi Bosi e la traduzione italiana (1849) del Corso di economia politica di Pellegrino Rossi, docente alla Sorbona e ministro dell’Interno nel governo “liberale” voluto da Pio IX nel 1848.
Libraio-editore fu anche Michelangelo Maccanti, proprietario di un “gabinetto di lettura”, che pubblicò alcuni volumi fra il 1847 e il 1855; col nome della Libreria Buffa uscì nel 1857 il Vocabolario domestico ferrarese-italiano di Carlo Azzi e poco altro nel 1872-75; unico libro edito dal noto emporio Pistelli Bartolucci, già allora posto al piano terra del Teatro Comunale, fu invece una Guida di Ferrara di G. Pazi (1875). In epoca preunitaria fu inoltre attiva la Tipografia alla Pace, sotto il cui nome, tratto dall’omonima piazza (oggi corso Martiri della Libertà) dove avevano i loro torchi e banchi di vendita molti stampatori, operarono diversi gestori: dai fratelli Negri (1837-46) agli eredi Rinaldi (1847-49, 1856-59), ad Angelina Trombetta (1850-53).
Dopo l’Unità mise in moto le macchine la tipografia dell’Eridano, cui si deve la stampa del giornale omonimo (1861-64) e di altri quotidiani come «Il Corriere Ferrarese» (1864-65) e «La Provincia di Ferrara» (1903-22). L’Eridano fu inoltre editore dell’importante «Bollettino del manicomio provinciale di Ferrara» (1874-1901) e di diversi studi di psichiatria. Molto intensa fu anche l’attività della tipografia Sociale, che fra il 1872 e il 1913 fu il maggiore editore in città dopo Taddei e Bresciani e pubblicò diversi testi universitari, il Vocabolario ferrarese-italiano di Luigi Ferri (1889), gli Annali ferraresi (1830-1880) di Mariano Roveri (1891-92) e altri studi di storia locale. Più limitata l’attività della tipo-litografia Sabbadini, che fra il 1865 e il 1878 stampò alcuni periodici («La Sentinella del Po», 1865-66; «Il Savonarola», 1868) e vari opuscoli.
Come nel resto d’Italia, anche a Ferrara la produzione libraria aumentò progressivamente dopo il 1880 parallelamente all’estendersi del numero dei lettori. L’introduzione dell’obbligo scolastico elementare con la legge Coppino del 1877 fu all’origine di un considerevole aumento della produzione di sussidiari, manuali scolastici e libri per ragazzi, che da allora diventò uno dei settori portanti dell’editoria.
Per far fronte all’aumentata domanda, cominciarono la loro attività molte nuove tipografie: basti qui ricordare l’Economica (1884-93), che stampava in particolare opere di soggetto religioso (ma anche il giornale anarchico «Il Proletario», 1892); gli Operai Compositori (1888-96); la tipografia del Patronato o di Giuseppe Barbieri (1891-1902), che dal 1895 impresse il settimanale clericale «La Domenica dell’Operaio»; la Bertoni (1897-1904), di Giovanni che fondò e diresse il quotidiano «Il Mattino» (1897-99); la Commerciale (1899-1905); lo Stabilimento tipografico Ferrarese (1906-16); la Ferrariola (1909-18). L’impresa destinata a maggior fortuna fu la Premiata tipografia sociale di Giovanni Zuffi, che cominciò l’attività nel 1897 e stampò, fra l’altro, gli «Atti e Memorie» della Deputazione di storia patria fino al 1931.
Anche in provincia furono attive tipografie che stampavano libri. A Cento Lanzoni e Soffritti (c. 1844-1880) pubblicarono studi di storia locale, fra cui il Sunto storico della città di Cento di Gaetano Atti (1853) e i Cenni biografici degli illustri centesi di Antonio Orsini (1880); a Comacchio Sansoni (1854, 1864-1888), Fantini (1901-09) e Carli (1911-13) pubblicarono soprattutto scritti d’occasione, statuti di associazioni, contratti legali e studi relativi alle opere di bonifica e alla pesca. Argenta dispose della tipografia di Demetrio Bandi (1868-72), cultore di storia locale che fu editore di se stesso, e della Tipografia Argentana della Società Operaia (1881-1913 e oltre), che pubblicò alcuni testi letterari (Metastasio, Lettere a Maddalena Varano, 1885; Vincenzo Monti, Lettera a G.B. Costabili, 1885), ma soprattutto atti del Comune e testi di interesse locale. A Copparo stamparono volumi occasionalmente Caretti (1885-86), Bompani di Berra (1891) e Mura (1894-1909) che pubblicò il periodico socialista «Il Pantalone» e «Il Giornale di Copparo».
Tornando a Ferrara a fine secolo, la casa Taddei, dopo essere stata diretta nel 1893-96 da Giuseppe Montanari (in seguito editore in proprio a Faenza), fu acquistata nel 1897 da Antonio Soati, già ottimo amministratore della concorrente ditta Bresciani. Soati pubblicò nel 1907 Gli aborti di Corrado Govoni e nel 1911 la seconda edizione delle Poesie elettriche dello stesso dando inizio al processo di trasformazione della vecchia stamperia artigiana in una piccola e raffinata casa editrice letteraria, sul modello delle fiorentine come la Vallardi. Tale processo si compirà dopo il 1912, quando l’azienda, divenuta proprietà di Alberto e Giulio Neppi, avrebbe assunto il nome di STET (Società Tipografica Editoriale Taddei). Sotto la direzione di Alberto Neppi la casa editrice sviluppò ulteriormente il settore educativo e scolastico e accentuò la sua vocazione letteraria pubblicando, fra il 1915 e il 1920 scritti di Filippo ed Ernesta Tibertelli de Pisis, Giuseppe Ravegnani, Antonio Beltramelli, Diego Valeri, Franco Ciarlantini. La STET, che dal 1917 al 1924 pubblicò un catalogo delle proprie edizioni ordinato in collane, fu la prima vera casa editrice ferrarese. Da un punto di vista commerciale l’operazione fu però un fallimento: nel 1920 i Neppi vendettero la libreria e nel 1924 la casa editrice cessò definitivamente l’attività per venire infine rilevata dalla Nuova Italia di Firenze.
MT 2013
(Marcello Toffanello)
Bibliografia
Fondo bibliografico, catalogo I: editoria ferrarese dal 1796 al 1914, «Quaderni del Centro Etnografico Ferrarese», 16, Comune di Ferrara, 1979; Taddei una casa editrice ferrarese 1840-1924, [Comune di Ferrara, 1980]; Catalogo dei libri italiani pubblicati nell’Ottocento (CLIO), 19 voll., Milano, Bibliografica, 1991, ad voces; Editori italiani dell’Ottocento: repertorio, a cura di Ada Gigli Marchetto et al., 2 voll., Milano, Angeli, 2004, ad voces; Elena Marescotti, voce Taddei Domenico, in TESEO. Tipografi e editori scolastico-educativi dell’Ottocento, diretto da Giorgio Chiosso, Milano, Bibliografica, 2004, pp. 581-582.
Lo scarso rilievo delle facoltà umanistiche e l'assenza di un’accademia fece sì che chi avesse voluto esercitare in modo professionale la critica letteraria o artistica a Ferrara nell’Ottocento avrebbe dovuto necessariamente allontanarsi dalla città. Si verificò dunque una situazione analoga a quella riguardante l’attività letteraria, caratterizzata dalla presenza in città di dilettanti di diverso valore e dall’estendersi oltre le mura di una trama di relazioni fra intellettuali ferraresi espatriati.
Il secolo era cominciato nel migliore dei modi, essendo nato a Ferrara uno dei maggiori storici dell’arte della sua epoca: il conte Leopoldo Cicognara (1767-1834). Dopo aver tenuto importanti cariche politiche in epoca napoleonica, nel 1808 rassegnò le dimissioni da consigliere di Stato del Regno d’Italia per trasferirsi a Venezia e dedicarsi completamente allo studio e al nuovo incarico di presidente dell’Accademia marciana. In tale ruolo Cicognara, da seguace dell’Illuminismo, fu un convinto assertore della funzione civile dell’educazione artistica e dell’arte stessa e si oppose all’opera di normalizzazione perseguita dal governo asburgico durante la Restaurazione. Primo frutto dei suoi studi teorici fu il trattato Del bello (Firenze-Pisa 1808), nel quale, combinando suggestioni sensiste con l’estetica di Kant e gli scritti storici di Mengs, elaborò una teoria del bello ideale aderente a quella di Winckelmann ed esemplificata sulle opere del fraterno amico Canova. Con la Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al XIX secolo (Venezia 1813-1818; 2.a ed.: Prato 1823), condotta sotto la supervisione di Pietro Giordani e concepita come completamento dei volumi di Winckelmann sull’arte greco-romana e di Seroux d’Agincourt sui monumenti medievali, Cicognara diede il primo esempio di storia dell’arte italiana intesa non più, vasarianamente, come biografia d’artista ma come storia dello stile in relazione alle vicende politiche della nazione. Notevole nell’opera è anche la precoce comprensione dell’arte romanica e l’apprezzamento degli scultori del Tre e del Quattrocento, che fanno di Cicognara un protagonista della riscoperta dei primitivi. Grande fu l’influenza nella città natale del pensiero e delle opere di Cicognara, fra le quali vanno ricordate almeno Le Fabbriche più cospicue di Venezia…, Venezia 1815-20; il Catalogo ragionato de’ libri d’arte e di antichità, Pisa 1821; la Biografia di Antonio Canova, Venezia 1823. Accogliendo all’Accademia di Venezia e indirizzando alla scuola romana di Canova i più promettenti pittori e scultori ferraresi e mantenendo una supervisione sulle maggiori imprese artistiche, Cicognara orientò la politica culturale cittadina agli ideali e alle forme del neoclassicismo (vedi Architettura e scultura, Pittura). Terminata l’epopea napoleonica, l’attività veneziana di Cicognara ispirò l’opera di salvaguardia del patrimonio artistico municipale resasi necessaria in seguito alle soppressioni degli istituti religiosi.
Anche in epoca di Restaurazione Ferrara ebbe con Camillo Laderchi (1800-1867) una figura di levatura non provinciale, capace di mantenere contatti con il movimento romantico italiano ed europeo. Nato a Bologna da una famiglia di aristocratici giacobini romagnoli, Laderchi giunse a Ferrara in catene per essere rinchiuso assieme al padre nella fortezza pontificia in quanto affiliato alla carboneria e alla massoneria e implicato nei moti del 1820. Graziato, intraprese una fortunata carriera di avvocato e docente universitario di diritto spostandosi su posizioni neoguelfe e moderate. Fu amico personale di Manzoni e corrispondente di alcune delle maggiori figure del cattolicesimo liberale, fra le quali Rosmini e Montalembert. Membro della locale Commissione di belle arti e della Deputazione di storia patria, pubblicò diversi studi storici e giuridici e curò un’edizione annotata delle Memorie per servire alla storia di Ferrara di Antonio Frizzi (Ferrara 1847-50). Con la Descrizione della quadreria Costabili (Ferrara 1838-41) si dimostrò buon conoscitore d’arte e partecipò alla riscoperta della scuola quattrocentesca ferrarese (Sopra i dipinti del palazzo di Schifanoia in Ferrara, Bologna 1840), della quale esaltò le radici cristiane nel saggio critico La pittura ferrarese: memorie (Ferrara 1857) scritto sotto l’influenza delle teorie misticheggianti di Alexis-François Rio. Il medesimo afflato religioso portò Laderchi a prediligere, fra gli artisti a lui contemporanei, i puristi e i nazareni tedeschi (Sulla vita e sulle opere di Federico Overbeck, Roma 1848). In campo letterario, notevoli furono i suoi scritti su Manzoni: la disquisizione storico-giuridica Sulla Colonna infame, Gubbio 1843; la traduzione annotata della biografia dello scrittore pubblicata da Sainte-Beuve, Ferrara 1846; il breve trattato Sulle dottrine di Alessandro Manzoni intorno al romanzo storico, Ferrara 1853, con cui Laderchi difese lo storicismo romantico e le teorie letterarie dell’autore dei Promessi sposi. Portando Manzoni come modello del poeta patriota religiosamente ispirato (va in tal senso ricordato un appassionato commento alle odi civili del poeta milanese, pubblicato sulla «Gazzetta Ferrarese» nel cruciale 1848) Laderchi fu in campo letterario il più eminente esponente cittadino della scuola di pensiero cattolica liberale, contrapposta – secondo la distinzione operata da De Sanctis – a quella democratica, che faceva invece riferimento al classicismo di Foscolo nell’interpretazione datane da Mazzini.
Questa tensione civile nel dibattito letterario venne meno dopo l’Unità d’Italia, quando la critica tese a ridursi a esercizio di retorica patriottica. Ma nel moltiplicarsi di occasioni celebrative, neppure le manifestazioni per i centenari della nascita di Ariosto nel 1875 e della morte di Tasso nel 1895 riuscirono a varcare i ristretti confini della provincia per assurgere a una dimensione nazionale. In una città che, a quanto pare, leggeva poco e in cui librerie e biblioteche erano deserte, la società letteraria frequentava soprattutto i teatri. Nel primo ventennio dopo l’unificazione furono soprattutto le cronache teatrali a vivacizzare le pagine culturali dei giornali cittadini e ad ampliarne gli angusti orizzonti culturali nell’ultimo quarto di secolo. Ne sono esempio le recensioni inviate da Milano da due critici ferraresi lì trasferiti: Alessandro Fiaschi (1858-1917) e Luigi Primo Levi (1853-1917). Il primo – che fu anche critico letterario per giornali fiorentini e milanesi, drammaturgo e saggista – possedeva una conoscenza non superficiale del teatro e della letteratura francese, parteggiò per i veristi nella polemica che li vedeva contrapposti agli idealisti e mostrò un vivo interesse per tutti i generi teatrali: dall’opera lirica al vaudeville, dal dramma storico al melodramma e alla commedia leggera.
Levi, che si firmava con lo pseudonimo di “L’Italico”, fu figura di rilievo nazionale: frequentò giovane l’ambiente della scapigliatura milanese ed esordì con un saggio “bibliografico-sociale” su Carlo Dossi (Milano 1873); nel 1878 diresse il giornale milanese «La Riforma», per poi collaborare in qualità di critico letterario e d’arte a riviste come «La Nuova Antologia» e «La Rivista d’Italia» e all’autorevole quotidiano romano «La Tribuna». Fu vicino al simbolismo idealizzante di Previati e Pellizza da Volpedo, pubblicò una fondamentale monografia su Domenico Morelli (Roma-Torino 1906) e diversi altri saggi di critica letteraria, artistica e musicale (L’arte a Torino, Roma 1880-81; Un secolo d’arte italiana, Roma 1897; Paesaggi e figure musicali, Milano 1913).
In dialogo a distanza con L’Italico fu Ottorino Novi (1858-1936), tipica figura di intellettuale di provincia che, pur continuando a risiedere nella cittadina natia, si tiene al corrente di quanto avviene nei maggiori centri culturali e, corrispondendo con importanti testate nazionali così come con la stampa locale, svolge una funzione di aggiornamento culturale. Autore di romanzi accolti favorevolmente dalla critica cittadina, collaboratore della raffinata rivista romana «Critica bizantina» (1881-86), poi di periodici di larga diffusione come il mensile del «Corriere della Sera» «La Lettura», Novi pubblicò un ambizioso opuscolo su Il simbolismo nell’arte (La Spezia 1900) e auspicò la rinascita in Italia di un’arte di popolo, sinceramente democratica, di cui individuava i prodromi nella pittura di Giovanni Segantini e del concittadino Giuseppe Mentessi, capaci di operare una sintesi fra gli estremi del realismo brutale e del simbolismo astratto.
Uscì spesso dal suo dorato esilio fiorentino per mantenere contatti con la città natale anche Domenico Tumiati (1874-1943). Formatosi sulle teorie di Ruskin e Morris e influenzato dall’idealismo di Angelo Conti, Tumiati fu sodale di Segantini, Previati e Pellizza da Volpedo. Come collaboratore di «Emporium» e del «Marzocco» e corrispondente occasionale da Parigi del «Resto del Carlino» recensì le Biennali veneziane e altre esposizioni d’ arte contemporanea. Contrario al contenutismo della scuola “mistica” di Rio, enunciò i principi della sua “critica d’arte pura” nel saggio su Frate Angelico (Firenze 1897): «Risalire all’Idea formale per la scala delle linee e dei toni, ecco il metodo che deve scoprire l’intima sostanza e la radice etnica onde sorse».
Nel medesimo alveo dell’idealismo antipositivista di fine secolo si svolse l’attività critica del bondenese Ezio Flori (1877-1953), che si dichiarava seguace dello hegeliano Angelo Camillo De Meis. Insegnante di lettere all’Istituto Cattaneo di Milano, Flori scrisse diversi saggi su Foscolo e Dante e collaborò con numerose riviste letterarie nazionali (Saggi di critica estetica, Milano 1900; Cronache letterarie (1900-1907), Milano 1907; Note di varia letteratura, Milano 1909).
Nel primo Novecento l’ambiente culturale cittadino, dominato da figure istituzionali come il carducciano Giuseppe Agnelli e il deputato Pietro Niccolini, fu vivacizzato dagli interventi, spesso polemici, di Ferruccio Luppis (1880-1959), multiforme figura di esteta – critico, pittore, fotografo, autore di prose d’arte – fondamentalmente ancorato al simbolismo e al decadentismo di fine secolo, e di Nino Barbantini (1884-1952), il quale, dopo aver compiuto studi giuridici, nel 1907 si trasferì a Venezia per dirigere la Fondazione Bevilaqua La Masa. Nella galleria di Ca’ Pesaro Barbantini inaugurò una decennale attività espositiva d’avanguardia, che rifiutando il gusto dominante alle Biennali e, all’opposto, sostenendo il Futurismo, le arti industriali e giovani artisti quali Gino Rossi, Arturo Martini e Felice Casorati, non ebbe paralleli nell’ambito delle istituzioni pubbliche italiane dell’epoca.
MT, 2011
Bibliografia
Gian Domenico Romanelli, voce Cicognara, Leopoldo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 25, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, pp. 419-28; Corrado Govoni e l’ambiente letterario ferrarese del primo Novecento, Atti del convegno promosso dall’Accademia delle Scienze di Ferrara, 18 settembre 1984 [s.d., s.l.]; Amerigo Baruffaldi, Neoguelfismo ferrarese: istanze cattolico-liberali nella vita e nell’opera di Camillo Laderchi (1800-1867), «Ferrara. Voci di una città», 7, 1997, pp. 77-79; Oscar Ghesini, La Gazzetta ferrarese: percorsi critico-letterari (1848-1899), Ferrara, Liberty house, 1999; Walter Moretti, “Compagnoni, Monti, Leopardi e Manzoni”, in Da Dante a Bassani: studi sulla tradizione letteraria ferrarese e altro, Firenze, Le lettere, 2002, pp. 101-153.
In seguito alle soppressioni degli istituti religiosi seguite alla Campagna d’Italia anche a Ferrara centinaia di opere provenienti da chiese e conventi cominciarono a nutrire il mercato dell’arte. La vendita dei beni della Chiesa, mentre favorì l’ascesa economica delle maggiori famiglie borghesi e la loro trasformazione in nuova aristocrazia terriera, mise a loro disposizione un grande patrimonio artistico, il possesso del quale avrebbe sancito il nuovo status sociale raggiunto. Così, nel passaggio fra Sette e Ottocento nuove collezioni si affiancarono e spesso sostituirono le raccolte della nobiltà in decadenza (Bentivoglio, Canonici, Fiaschi, Riminaldi, Sacrati, Saraceni, Varano, Villa) e dei cultori di storia patria (Rizzoni, Pagliarini, Leccioli, Cittadella). Nelle nuove raccolte è sempre maggiore la presenza di dipinti del Tre e Quattrocento, indice dell’affermarsi di quel “gusto dei primitivi” che si diffuse in Italia nella prima metà dell’Ottocento, grazie anche alla loro nuova disponibilità sul mercato.
Figura preminente del collezionismo postrivoluzionario a Ferrara fu Giambattista Costabili Containi (1756-1841), con Antonio Massari il maggior rappresentante della nuova borghesia imprenditoriale. Membro del Direttorio della repubblica Cisalpina nel 1797, creato conte dell’Impero da Napoleone nel 1809 e marchese da papa Gregorio XVI nel 1836, Costabili acquistò nel 1828 l’antica dimora aristocratica dei Bevilacqua in via Voltapaletto. Lì trasferì la collezione ereditata dallo zio Francesco Containi (1717-78), accresciuta acquistando opere da oltre sessanta quadrerie cittadine e da numerose altre forestiere, secondo una strategia che doveva portarlo a possedere opere di tutti i maestri della scuola ferrarese, dal mitico Gelasio della Masnada a Giuseppe Antonio Ghedini. Il progetto all’origine della collezione (624 dipinti dei quali 385 di scuola ferrarese) fu esplicitato nei quattro volumi del catalogo redatti da Camillo Laderchi, locale sostenitore di un purismo ispirato all’ingenua religiosità dei “primitivi”. Ancor prima, fu probabilmente Leopoldo Cicognara a indurre Costabili all’acquisto di dipinti del Trecento e del primo Rinascimento, fra cui opere di Cristoforo da Bologna, Bono da Ferrara, Cossa, Maineri, de’ Roberti, Mazzolino e Garofalo.
Caratteri simili ebbe la collezione costituita da Giovanni Barbi (1778-1859), possidente di Finale Emilia trasferitosi a Ferrara nel 1800 come procuratore del marchese Costabili. Formata raccogliendo la seconda scelta della galleria di quest’ultimo, ma anche pale da conventi soppressi e opere acquistate autonomamente sul mercato antiquario, attorno al 1850 la Barbi Cinti contava 585 dipinti, prevalentemente di scuola locale, per lo più di scarsa qualità, ma anche diverse preziose tavole quattrocentesche, come i due Santi Giovanni Battista e Pietro, pannelli laterali del polittico Griffoni di Francesco del Cossa, finiti con scandalo alla Pinacoteca di Brera a Milano nel 1893 in seguito alla liquidazione della collezione da parte degli eredi.
La stessa sorte toccò alla collezione Costabili successivamente alla morte di Giambattista nel 1841: dopo aver inutilmente cercato di vendere l’intera raccolta al Municipio, gli eredi furono costretti da necessità economiche ad alienare a una a una le opere esposte nel palazzo avito. Dell’intera collezione così dispersa fino all’asta liquidatoria tenutasi a Milano nel 1885, solo 14 dipinti entrarono nella Pinacoteca di palazzo dei Diamanti e pochissimi in altre raccolte private cittadine. Il mancato acquisto da parte del Municipio nel 1856-57 della quadreria Costabili e della biblioteca ricca di quasi 10.000 volumi fu la prima spia della impossibilità/incapacità dei magistrati cittadini, ma anche dei collezionisti privati, di impedire la dispersione del patrimonio artistico ferrarese. Ben altra iniziativa e possibilità di spesa avevano i trustees della National Gallery di Londra, sir Charles Locke Eastlake e sir Austen Henry Layard, accorti collezionisti orientatisi per tempo al mercato dei primitivi italiani e fiamminghi, sotto la guida dei migliori conoscitori europei, come il bavarese Otto Mündler e il lombardo Domenico Morelli, ai quali le collezioni private ferraresi erano ben note. Fu così che fra il 1858 e il 1866 una trentina di opere scelte, fra le quali capolavori di Pisanello, Tura, Cossa, de’ Roberti, Maineri e Dosso, passò dalla collezione Costabili a quelle di Eastlake e Layard e di qui al museo di Trafalgar Square, che ancor oggi possiede la maggior raccolta di dipinti ferraresi di primo Rinascimento.
Eastlake aveva acquistato il suo primo dipinto ferrarese a Brescia attorno al 1855: la pala centrale del polittico Roverella di Cosmè Tura, già nella raccolta costituita in città dal medico-chirurgo Niccolò Zaffarini fra Sette e Ottocento. L’anta destra del polittico era invece passata nel 1836 dalla collezione di Giovan Battista Nagliati (1761-1831), commerciante di Pontelagoscuro, alla Galleria Colonna di Roma. Alla sua morte nel 1831 Nagliati possedeva una dozzina di dipinti del Quattrocento, sui quali il Comune tentò assai timidamente di esercitare il diritto di prelazione.
L’estremo rappresentante del collezionismo aristocratico in città fu Massimiliano Strozzi (1797-1859), appartenente al ramo mantovano della famiglia fiorentina, il quale ereditò nel 1801 dalla zia Eleonora, vedova dell’ultimo Sacrati, le sostanze e il palazzo in piazza San Domenico. Qui Massimiliano creò una galleria Americana e una Egizia con i reperti archeologici, etnografici e naturalistici raccolti durante i viaggi compiuti fra il 1825 e il 1846, per poi incrementare la quadreria barocca dei Sacrati acquistando nel 1850 l’intera collezione personale dell’antiquario Ubaldo Sgherbi (1788-1872). Lo Strozzi arrivò così a possedere oltre 400 dipinti, cui si aggiungevano una notevole raccolta di maioliche, mobili e oggetti d’antiquariato, a formare un insieme eterogeneo in cui il gusto dell’accumulo prezioso si imponeva su qualsiasi criterio di ordinamento. Scopo dichiarato era quello di “formare in Casa una Galleria quale fosse visitata anche da forestieri” e assicurare così una continuità alla secolare tradizione collezionistica dei Sacrati. Invece, attorno al 1880 l’omonimo nipote ed erede Massimiliano si trasferì a Firenze e cominciò la dispersione della raccolta. Dal 1992 una sessantina di dipinti della collezione Sacrati Strozzi – fra i quali due Muse dello studiolo di Leonello d’Este a Belfiore e una Santa Cecilia dello Scarsellino già appartenente a Giulio Sacrati nel 1694 – sono stati acquistati dallo Stato e dalla Fondazione Cassa di Risparmio e depositati presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara.
Carattere decisamente borghese ebbe invece la collezione di Antonio Santini (1824-1898). Abile imprenditore, Santini fu consigliere comunale dal 1859 al 1895, nonché assessore ‘ai lavori pubblici’ e presidente di numerosi enti pubblici assistenziali. Dopo aver rilevato nel 1851 da Francesco Massari il palazzo oggi Sinz in via degli Armari, creò dal nulla la sua collezione acquistando opere da altre raccolte cittadine (Barbi Cinti, Saracco Riminaldi, Avventi, Mazza, Gnoli, Roverella), non senza approfittare anche delle vendite di beni religiosi seguite alle leggi soppressive del 1866-67. Nel 1875 riuscì ad aggiudicarsi uno dei capolavori della collezione Costabili: il Sant’Antonio di Tura ora a Modena. Nell’ultimo decennio del secolo la quadreria Santini era la maggiore della città, segnalata sulle guide e visitata dagli intenditori italiani e stranieri soprattutto per le opere di Quattro e Cinquecento in essa contenute.
Mentre le raccolte d’arte delle famiglie notabili ferraresi di epoca risorgimentale (Antonelli, Leati, Mayr, Scutellari, Testa) languivano assottigliandosi lentamente, due nuove collezioni si formarono dalla liquidazione della Barbi Cinti. La prima fu creata attorno al 1890 da Giuseppe Cavalieri (1834-1918), illustre rappresentante della borghesia imprenditoriale ebraica, che sommò i 60 dipinti già Barbi a quelli in precedenza acquistati dall’antica quadreria dei Varano. Non si trattava di pezzi particolarmente scelti: Cavalieri fu piuttosto un grande bibliofilo e collezionista di manoscritti e codici miniati, oltre che di monete, medaglie, reperti archeologici e dipinti moderni. Finché, nel 1914, vendette improvvisamente all’asta a Milano i 1.443 pezzi della sua collezione e si trasferì a Bologna. Più selezionata e incentrata sulle tavolette dei primitivi fu la scelta operata da Enea Vendeghini, pittore dilettante e amico di Giovanni Boldini, assieme al quale studiò all’Accademia di Firenze nel 1862-65. Alla morte nel 1900 lasciò nel suo palazzo di corso Giovecca 180 dipinti antichi e moderni, fra cui 4 opere giovanili di Boldini in seguito donate al museo del pittore, e 64 capilettera miniati del Tre-Quattrocento. Nel 1972 i trentacinque migliori dipinti della collezione Vendeghini furono donati dal suo discendente Mario Baldi alla Pinacoteca Nazionale, dove sono tuttora esposti.
Un interessante caso di collezionismo originato da sincera passione per l’arte fu quello della raccolta Saroli-Lombardi. Le diede inizio Giuseppe Saroli (1779-1873), pittore di origine ticinese giunto a Ferrara attorno al 1811: assieme a opere di autori contemporanei e dipinti del Cinque e Seicento, essa già comprendeva tavole e frammenti di affreschi dei secoli precedenti. Dopo la morte di Saroli la collezione passò al genero Riccardo Lombardi (1831-1898), anch’egli pittore e antiquario, che la accrebbe fino a farle superare i 250 pezzi e volle ristrutturare la sua abitazione in corso Ercole I d’Este, nei pressi della Certosa, per allestirvi al meglio la quadreria, le cui opere erano intanto studiate da Adolfo Venturi e Gustave Gruyer.
Nel frattempo, ai primi del Novecento, era avvenuto il definitivo naufragio delle maggiori quadrerie ferraresi: nel 1904 l’antica collezione dei Canonici Mattei, dopo una mancata donazione al Comune, fu venduta all’antiquario fiorentino Luigi Grassi; nello stesso anno Enrico Santini cedette la raccolta del padre al mercante romano Filippo Tavazzi; inutili furono i tentativi di Adolfo Venturi di far comprare le opere migliori dal Comune o dallo Stato, che intervenne tardivamente nel 1905 riacquistando ad alto prezzo cinque dipinti, fra i quali il Sant’Antonio di Tura e la Crocifissione dell’Ortolano ora a Brera, per poi distribuirli fra le Pinacoteche Nazionali di Bologna, Modena e Milano.
L’estremo tentativo di “impedire la dispersione di non poche opere d’arte che credo meritevoli siano conservate in Ferrara” si deve al duca Galeazzo Massari Zavaglia (1841-1902), il quale attorno al 1900 acquistò 160 dipinti dagli eredi Lombardi. La nuova galleria, aperta al pubblico nel 1902 nelle sfarzose sale di palazzo Massari già Bevilacqua in corso Porta Mare, oggi sede del Museo Boldini, fu accresciuta dal figlio di Galeazzo, Francesco (1878-1932), nell’intento di offrire un panorama completo dell’antica scuola pittorica ferrarese dalle origini ai moderni. Si trattò dell’ultimo grande progetto collezionistico in città, di cui rimane testimonianza nei cataloghi sistematici redatti da Augusto Droghetti (1901), Nino Barbantini (1910) e Giuseppe Bortignoni (1917). Purtroppo neppure esso andò a buon fine e, dei 312 dipinti antichi lasciati da Francesco Massari alle sue due eredi, solo una settantina è oggi accessibile al pubblico nelle collezioni della Cassa di Risparmio presso la pinacoteca di palazzo dei Diamanti.
MT, 2011
Bibliografia
La leggenda del collezionismo. Le quadrerie storiche ferraresi, a cura di Grazia Agostini, Jadranka Bentini, Andrea Emiliani, catalogo della mostra (Ferrara, Pinacoteca Nazionale, 1996) Bologna, Nuova Alfa, 1996; Inventari d’arte. Documenti su dieci quadrerie ferraresi del XIX secolo, a cura di Grazia Agostini e Lucio Scardino, Ferrara, Liberty house, 1997; Emanuele Mattaliano, La collezione Costabili, a cura di Grazia Agostini, Venezia, Marsilio, 1998; Lucio Scardino, La collezione d'arte di Antonio Santini (Ferrara 1824-1898), Ferrara, Liberty house, 2004; Giuliana Marcolini, La collezione Sacrati Strozzi. I dipinti restituiti a Ferrara, Milano, Motta, 2005.
In architettura il Settecento si chiude a Ferrara con il completamento del Teatro Comunale da parte di Antonio Foschini e del romano Cosimo Morelli: inaugurato dal governo “francese” nel 1797, si tratta in realtà dell’ultima importante commissione pubblica di epoca pontificia, seguita da nessun’altra nel corso del nuovo secolo. Diversamente da quanto avviene ad esempio nelle vicine città della Romagna, a Ferrara neppure nel campo dell’edilizia privata il parziale avvicendamento al potere fra l’antica aristocrazia terriera e la nuova borghesia imprenditoriale – con il conseguente passaggio di mano di beni fondiari e immobili – si traduce in un significativo rinnovamento del volto architettonico della città. Edifici neoclassici sorgono a Ferrara solo negli anni della Restaurazione, quando gli uomini nuovi di epoca napoleonica consolidano il loro potere. Palazzo Casazza (arch. Gaetano Armanini, 1815-20) e palazzo Gulinelli di via XX Settembre (arch. Luigi Federzoni, c. 1840) stabiliscono la sobria tipologia residenziale del nuovo patriziato, dalla quale si distanzia la grandiosità “imperiale” di palazzo Camerini (ing. Giovanni Tosi, c. 1830-35), significativamente ornato da un frontone scolpito dal trevigiano Marco Casagrande raffigurante La Fortuna che propizia l’Idraulica e realizza l’Abbondanza, a ricordare la recente origine delle sostanze del proprietario (tutti e tre gli edifici conservano notevoli dipinti murali all’interno; vedi Pittura).
La pagina più interessante dell’architettura ferrarese dell’Ottocento riguarda tuttavia il restauro delle maggiori chiese cittadine e dei monumenti del centro storico, spesso condotto secondo i principi del rifacimento in stile tipici dell’epoca. Fra il 1829 e il 1845 il “cantiere della piazza”, diretto dall’ingegnere comunale Giovanni Tosi, ha per esito il consolidamento del protiro della Cattedrale, la ricostruzione in stile neogotico della facciata del palazzo della Ragione, il parziale rifacimento della loggia dei Merciai addossata al fianco meridionale del Duomo e il nuovo prospetto classicista della loggia di San Crispino. Il programma di restauri, che doveva comprendere anche il completamento in stile della Cattedrale, anticipa sorprendentemente di qualche anno la diffusione in Italia del Gothic Revival ed è accompagnato da un’accesa polemica.
Fra i partecipanti al dibattito si distingue per consapevolezza teorica e conoscenze storiche il marchese Ferdinando Canonici, uomo politico, docente di architettura a Firenze e membro onorario di diverse altre accademie italiane. Si deve a Canonici il maggior cantiere della Ferrara ottocentesca: l’ampliamento e la trasformazione dell’antica Certosa in complesso cimiteriale, in osservanza – ma anche in parziale deroga – al noto decreto vicereale del 3 giugno 1811 che stabiliva che i campi mortuari dovessero sorgere al di fuori delle mura cittadine. Il progetto del marchese architetto, sottoposto all’approvazione di Leopoldo Cicognara e dell’Accademia di Venezia, è improntato su rigorosi criteri di simmetria e unità di stile: dopo aver demolito il poco che restava del cenobio quattrocentesco, Canonici fa della chiesa cinquecentesca l’asse di un organismo formato da quattro chiostri ottenuti replicando l’antico claustro originale e anteponendovi due ampi portici curvilinei. Architettura ed elementi decorativi si ispirano al linguaggio rinascimentale diffuso in pianura Padana, il “lombardesco”. I lavori, cominciati nel 1819, termineranno solo nel secondo dopoguerra, sostanzialmente rispettando il disegno originale.
Nella progettazione del ricco apparato ornamentale dei nuovi chiostri, Canonici è assistito dal veneziano Giovanni Pividor, docente di Ornato e Architettura civile presso l’ateneo cittadino, cui si deve la riscoperta moderna dei fregi rinascimentali in terracotta, da lui utilizzati in altre sue opere (chiesa di Sant’Antonio Abate, 1867). Il secolare cantiere della Certosa offre occasioni di lavoro ai molti scultori attivi a Ferrara, fra i quali vanno ricordati Camillo Torreggiani, Gaetano Davia e Ambrogio Zuffi. In quanto luogo deputato alla memoria dei cittadini illustri, cui viene conferita una nuova dignità laica, il camposanto è concepito come area monumentale e come tale compare fin da subito nelle guide per i forestieri. A garantire il decoro e l’omogeneità stilistica delle singole sepolture, di cui si fanno garanti le autorità cittadine e la Commissione municipale d’ornato, è l’indiscussa adesione alla cultura neoclassica e purista. Tale corrente figurativa è infatti rappresentata in Certosa sia dalla presenza dei grandi maestri in persona – da Antonio Canova (Busto di Leopoldo Cicognara, 1819-22, terminato da Rinaldo Rinaldi) a Lorenzo Bartolini (Tomba di Pietro Recchi, poi di Francesco Mayr, 1837) e Pietro Tenerani (Monumento Costabili, 1841-57) – che da quella, assai consistente, dei loro allievi: Giacomo De Maria, Cincinnato Baruzzi, Adamo Tadolini, Bartolomeo Ferrari, Alessandro D’Este, Pasquale Romanelli, Francesco Fabi Altini e altri. A quella stessa cultura attingono i due maggiori scultori ferraresi, entrambi residenti a Roma: Giuseppe Ferrari, collaboratore di Tenerani, autore di una dozzina di monumenti funebri e delle statue dei grandi ferraresi nella Cella degli uomini illustri (1838-57), e Angelo Conti, che fu invece allievo di Thorvaldsen (Cenotafio del Garofalo, 1838). Grazie a queste presenze, il cimitero della Certosa si qualifica fin dall’origine come una sorta di museo a cielo aperto della scultura contemporanea, tanto che ancora nel suo volume sulla Certosa del 1914, Giuseppe Reggiani si sente di affermare che «Ferrara, da due secoli, quasi, staccata dal movimento artistico italiano, nell’Ottocento vi si ricongiunge col nome e con l’opera di molti dei migliori artefici».
In epoca postunitaria però all’ormai stanco linguaggio di matrice classicista e neoquattrocentesca si sostituisce un naturalismo fin troppo analitico che ha il suo apice nella Tomba di Francesco Massari Zavaglia, terminata nel 1880 dal piemontese Giulio Monteverde, acclamato autore di mausolei per i cimiteri monumentali di tutta Italia. Il maggiore rappresentante locale del “realismo borghese” di età umbertina è Luigi Legnani, la cui propensione a un minuzioso descrittivismo spesso contrasta con la tensione all’idealizzazione imposta dal tema funebre; fra i suoi risultati migliori in Certosa si possono ricordare le tombe Avogli Trotti e Frabetti (oggi Sturla Avogadri, 1893). Analogamente a quanto avviene in pittura dopo l’Unità, lo scadimento generale della qualità artistica è dovuto allo spezzarsi – complice la crisi delle accademie – di quella rete di relazioni partecipi con altri centri culturali e all’affievolirsi dell’orgoglioso senso di identità culturale municipale che era stato proprio degli anni della Restaurazione e del Risorgimento. Le ambizioni della committenza si fanno più modeste: ci si rivolge sempre meno ai grandi maestri per affidarsi piuttosto ai locali laboratori specializzati o a marmisti toscani e romani che replicano meccanicamente i modelli celebri di Staglieno e del Verano. Soprattutto ai primi del Novecento risulta evidente l’appiattirsi della produzione artistica su stilemi liberty declinati in accezione provinciale, spesso ricalcati senza originalità sulle opere di Leonardo Bistolfi.
Significative, soprattutto per il loro significato politico, sono le vicende della scultura monumentale nella “città dei vivi”. Nel 1833 veniva collocata sulla colonna al centro della Piazza Nuova la statua di Ludovico Ariosto, opera di Francesco Vidoni su disegno del pittore Francesco Saraceni (in parte rielaborata da Zuffi nel 1881); si concludevano così, con la consacrazione al genio poetico cittadino, le vicissitudini del monumento concepito per onorare il duca Ercole I, ma che finì per reggere le effigi di papa Alessandro VII (1675), della Libertà (Luigi Turchi, 1796) e di Napoleone (Giacomo De Maria, 1809). Un evidente significato anticlericale assume nel 1875 l’erezione, a fianco del Municipio e di fronte al palazzo Arcivescovile, del monumento a Savonarola scolpito dal centese Stefano Galletti, autore della statua del Guercino (1862) nella città natale e di diverse apprezzate opere pubbliche a Roma (Monumento a Cavour, 1895). Meno felici sono i casi dei memoriali dedicati ai padri della patria: il monumento a Vittorio Emanuele realizzato da Giulio Monteverde nel 1889 per il sagrato della Cattedrale fu motivo di polemiche per il suo costo eccessivo, non fu mai amato dai ferraresi e giace oggi smembrato al Museo del Risorgimento; ancor più controversa è stata la vicenda del monumento a Garibaldi in viale Cavour, voluto nel 1890 da un comitato di reduci, dapprima affidato al romano Ettore Ferrari (garibaldino e massone, autore di ben 17 monumenti al generale), poi messo a concorso senza esito, infine assegnato direttamente al presidente della giuria, il cesenate Tullo Golfarelli (autore anche del bel busto di Carducci nella Biblioteca Ariostea, 1906-07) e inaugurato il 20 settembre 1907 fra contestazioni politiche e accuse di clientelismo e plagio.
Tornando all’architettura, sembra perdurare anche dopo l’Unità la congiuntura negativa: sono pochi gli edifici che meritino di essere segnalati, riconducibili ai due estremi dell’esuberante eclettismo di palazzo Gulinelli sull’attuale corso Ercole I d’Este (Giovanni Biondini, c. 1862-81; notevoli anche gli interni), che nell’apparato ornamentale prosegue la tradizione ferrarese della decorazione in cotto di gusto neorinascimentale inaugurata da Pividor, e, all’opposto, dell’aplomb “ministeriale” del nuovo palazzo della Cassa di Risparmio (1907-10), progettato dall’ingegner Luigi Barbantini e ultimato dal romano Gaetano Koch, autore anche della sede centrale della Banca d’Italia. Di fatto è l’attività degli ingegneri comunali – fra i quali si distingue il vercellese Giacomo Duprà – a segnare il volto della città moderna, occupandosi essi non solo della realizzazione delle infrastrutture viarie e degli impianti industriali, ma anche degli edifici di pubblica utilità – bagni pubblici, acquedotto, mercato coperto, macello, scuole, teatri, case popolari – ormai realizzati adottando tipologie prestabilite su scala nazionale.
È grazie all’opera dell’ingegner Ciro Contini che il livello qualitativo dell’architettura ferrarese torna alto: soprattutto nelle ville Art Nouveau costruite su viale Cavour – divenuto asse privilegiato di accesso alla città dopo la costruzione della stazione ferroviaria (1859) e l’interramento del canale Panfilio (1880) – Contini si dimostra progettista aggiornato sul modernismo europeo (villa Melchiori, 1904; villa Amalia, 1905; palazzina Finotti, 1908). Fiduciario ed esponente lui stesso della colta borghesia ebraica cittadina, a Contini si deve anche il primo piano regolatore urbanistico (1913, ma attuato oltre vent’anni dopo), comprendente la sistemazione del nuovo rione Giardino nell’area già occupata dalla demolita fortezza pontificia.
Negli stessi anni il liberty cittadino produce anche in scultura un esito degno di nota: proprio nel fatale 1914 viene eretto nel sagrato antistante la Certosa il monumento funebre al giovane aviatore Roberto Fabbri, opera del migliore interprete locale dell’Art Decò, Giovanni Pietro Ferrari, in cui il consueto bistolfismo sembra cedere il passo a una più salda concezione della forma, ispirata a modelli rinascimentali, in sintonia con il maggiore – e non più provinciale – scultore ferrarese del Novecento, Arrigo Minerbi.
MT, 2011
Bibliografia
Ranieri Varese, La scultura funeraria: dal neoclassicismo al naturalismo, in La Certosa di Ferrara, a cura di Roberto Roda e Renato Sitti, «Quaderni del centro etnografico ferrarese», [Padova], 1985, pp. 51-72; Ferrara Disegnata. Riflessioni per una mostra, a cura di Marica Peron e Giacomo Savioli, Ferrara, Artstudio C, 1986; Lucio Scardino, Ciro Contini ingegnere e urbanista, Ferrara, Liberty house, 1987; Lucio Scardino, Antonio P. Torresi, Post-mortem: disegni, decorazioni e sculture per la Certosa ottocentesca di Ferrara, Ferrara, Liberty house, 1996; Lucio Scardino, Neo-estense in scultura, Ferrara, Liberty house, 2006.