La nascita della Scuola di Ornato, nel 1820, fu intesa come un momento istituzionale sulla strada della formazione dello stile e della maturazione di competenze locali (vedi: Pittura; Architettura e scultura). Il progetto prevedeva la “costruzione” di un gruppo di persone, non necessariamente “artisti”, in grado di intervenire nella città conservando e mantenendo il suo decoro. Docente e animatore ne fu Giuseppe Saroli (1779-1873), il pittore che scoprì gli affreschi quattrocenteschi di Schifanoia (vedi Musei) dandone notizia nel 1821 negli Atti, pubblicazione che per il triennio 1820-22 divulgò le attività e la vita della Scuola, che aveva sede presso il Civico Ateneo. L’intento era stato, fin dagli inizi, quello di creare una scuola di arti e mestieri, ricollegandosi alla tradizione estense dell’artigianato e dell’arredo urbano. Ma, come scrive Ranieri Varese, la Scuola «ripiegò su se stessa» nel momento in cui cadde l’idea “artigiana” per formare, con maggior ambizione, “professori” e “artisti”. Il culmine della crisi si ebbe alla fine degli anni Sessanta, quando Girolamo Scutellari, deputato della Commissione Municipale di Belle Arti, denunciava, insieme alla modesta istruzione di chi insegnava, un generale stato di degrado. Nel 1870 fu pubblicato il Nuovo Regolamento per le scuole di Belle Arti, che definiva i campi delle attività e i corsi, mantenuti dal Comune: Ornato-elementi di Architettura e Prospettiva; Figura “dai primi elementi sino alla statuaria compresavi”; Nudo e Anatomia, “Pittura ad olio compresavi la Composizione”; Scultura “figurativa ed ornamentale, tanto in plastica quanto in marmo”. Il Consiglio comunale cambiò totalmente l’ordinamento delle Scuole nel 1881, sottolineandone di fatto l’esaurimento del ruolo strettamente legato all’arte e aprendole ai segnali provenienti dal mondo del lavoro e dai cambiamenti sociali, verso le arti applicate, l’artigianato e l’industria. La “Scuola di disegno per artisti e artefici” prenderà poi il nome di “Scuola di disegno Dosso Dossi”.
Nella serie di cambiamenti e di passaggi, qui appena accennati, si inserisce l’istituzione, nel 1868, della “Società Promotrice di Belle Arti Benvenuto Tisi”, sulla scia del forte interessamento verso le arti figurative riscontrato nella seconda metà dell’Ottocento. Alla Società aderirono anche architetti e scultori come Giovanni Pividor, Ambrogio Zuffi, Angelo Conti, Camillo Torreggiani, mentre tra i pittori che si distinsero si devono ricordare Gaetano Previati – sempre presente nelle esposizioni della “Benvenuto Tisi” –, Giuseppe Mentessi, il ritrattista Angelo Longanesi, il paesaggista Augusto Droghetti, Giuseppe Mazzolani, Federico Bernagozzi.
Il 17 marzo 1884 segna un momento importante per la cultura ferrarese: la costituzione della Deputazione di storia patria, dietro l’impulso del sindaco di Ferrara Anton Francesco Trotti – primo presidente – che garantì alla neonata associazione una sede e adeguati mezzi finanziari per iniziare l’attività. Il sodalizio nasceva con le funzioni delle società storiche fondate negli ultimi decenni del’Ottocento negli ex Stati italiani preunitari con lo scopo di contribuire allo studio della storia della città e del suo territorio, come chiaramente espresso nelle finalità dell’istituzione ferrarese: “La Deputazione si occupa di tutto ciò che spetta alla storia di Ferrara, dalla sua origine ai tempi nostri, indagando dovunque le memorie del passato, illustrando monumenti, traendo dagli archivi, sì pubblici che privati, quella ricchezza di patrie notizie politiche, civili, militari, religiose, letterarie, artistiche, archeologiche e biografiche che vi giace tuttavia negletta. Prende anche a materia delle sue ricerche le memorie della altre provincie italiane, laddove abbiano relazione con la storia di Ferrara. Si occupa della pubblicazione dei codici diplomatici degli statuti, delle cronache della città e suoi territori odierni e di quelli sui quali in passato signoreggiò, e di tutti gli altri documenti inediti che comunque interessano Ferrara nonché di bibliografie riferentisi a studi storici ferraresi, e si può pure occupare di studi folcloristici e del dialetto, e della letteratura dialettale dell’intera provincia”. Quando il primo presidente morì, la Deputazione contava già tredici pubblicazioni. Dal 1886 pubblica la serie “Atti e Memorie”.
Da una costola della Deputazione di storia patria nacque la “Ferrariæ Decus” per iniziativa di Giuseppe Agnelli (1856-1940), vice di Anton Francesco Trotti, alla cui morte subentrò come presidente. Il principale impegno statutario era (ed è ancora) la tutela del patrimonio artistico, da perseguire accanto e in parallelo alla ricerca e allo studio della storia. Il 7 febbraio 1906 nella Sala dei Matrimoni (ora Sala degli Arazzi) della residenza Municipale, si radunarono sessanta cittadini che fondarono la società per la conservazione dei monumenti ferraresi in risposta alla situazione di degrado e di incuria della città, che lo storico dell’arte e senatore Corrado Ricci aveva definito «la più spogliata d’Italia». Riuniti in assemblea il successivo 15 marzo, i fautori del nuovo sodalizio decisero la denominazione di “Ferrariæ Decus”, il decoro di Ferrara. Il primo presidente fu lo stesso Agnelli – direttore della biblioteca Ariostea, allievo prediletto di Giosuè Carducci e presidente della Deputazione di storia patria – che guidò l’associazione fino alla morte. Non è possibile elencare la capillare attività della Ferrariæ Decus nei 34 anni della presidenza Agnelli, un impegno faticoso ma affrontato per diletto, con un interesse “pionieristico” e diffuso per il patrimonio culturale, perché “anche le più tenui testimonianze sono parole del passato”, come diceva lo stesso presidente nella sua relazione generale del 1909.
Per l’impegno di un gruppo di intellettuali guidati da Giosuè Carducci, nel 1889 nasceva la “Società Dante Alighieri”, avente come fine principale la tutela e la diffusione della lingua e della cultura italiana nel mondo, “ravvivando i legami spirituali dei connazionali all’estero con la madre patria e alimentando tra gli stranieri l’amore e il culto per la civiltà italiana” (art. 1 dello Statuto sociale). L’attività si indirizzava sia all’interno dei confini nazionali, sia all’estero e non solo in Europa (per esempio organizzando corsi di lingua italiana per gli emigrati). Il sodalizio fu intitolato dai fondatori a Dante Alighieri per confermare come in quel nome si fosse compiuta l’unità linguistica nazionale, riconosciuta politicamente sei secoli dopo. Le attività di formazione culturale della “Dante” ebbero una forma meglio strutturata dai primi decenni del Novecento, quando furono costituiti corsi per la preparazione degli insegnanti di italiano dell’estero. Subito dopo la prima guerra mondiale vennero istituite anche le “Borse Premio” della Società per le terre irredente.
Il Comitato di Ferrara già nei primi anni del Novecento acquistava una certa notorietà grazie al fondatore Pietro Niccolini (1866-1939) e al suo impegno politico-culturale (sindaco, parlamentare, senatore, presidente della Cassa di Risparmio, direttore del Museo di Schifanoia, presidente di numerose associazioni culturali e sociali). Niccolini resse il sodalizio fino al 1932, anno delle sue dimissioni irrevocabili dopo l’allontanamento dalla vita politica anche per gravi motivi di salute. Presto nacquero sottocomitati nei Comuni provinciali, sottocomitati giovanili e uno di “signore e signorine”. Il Comune e la Provincia si associarono in perpetuo al sodalizio, insieme a diversi Enti e scuole, mentre i consiglieri partecipavano a congressi internazionali ricevendo attestati di riconoscimento per l’importante lavoro svolto a Ferrara.
La redazione, 2013
Bibliografia
Ranieri Varese, Le istituzioni e l’immaginario ufficiale nel XIX secolo, in Storia illustrata di Ferrara, a cura di Francesca Bocchi, Milano, Nuova Editoriale AIEP, 1989, vol. IV, pp. 817-832; Luciano Chiappini, Introduzione a Ferrara nell’Ottocento, Roma, Editalia, 1994, p. 44; Cento anni di tutela del patrimonio storico e artistico, «Bollettino della “Ferrariæ Decus» (Studi Ricerche Cronaca di un centenario), 23, 2006, pp. 240-255; Luisa Carrà Borgatti, Il centenario di Pietro Niccolini, «Ferrara. Voci di una città», 26, 2007; Carla di Francesco, La Ferrariæ Decus ha cento anni, ivi.
Era il 7 gennaio 1839 quando il deputato francese François-Jean Arago esponeva sommariamente all’Accademia delle Scienze francese l’invenzione di Louis-Jacques Mandé Daguerre, presentata poi ufficialmente il 19 agosto dello stesso anno all’Accademia delle Scienze e delle Belle Arti di Parigi. Lo stesso Arago aveva proposto un contributo economico per la dagherrotipia, la creazione del pittore e scenografo Louis-Jacques-Mandé Daguerre che, unendo le proprie esperienze a quelle del ricercatore Nicéphore Niépce, aveva realizzato immagini dagherrotipe, riproduzioni meccaniche che aprirono la strada alla vera e propria fotografia. Non senza questioni su diritti di paternità, tra la Francia e l’Inghilterra – dove già nei primi anni dell’Ottocento il ceramista Thomas Wedgwood aveva portato avanti importanti ricerche – l’invenzione, in continuo e rapido miglioramento, si dilatò in tutta l’Europa e nelle Americhe. In Italia il fenomeno trovò un riscontro notevole specialmente nelle regioni del centro-nord, nonostante lo stato sociale e politico degli anni 1840-60.
Se Bologna fu la prima città italiana a pubblicare la traduzione dal francese del manuale di Daguerre (Historique et description des procédés du daguerréotype et du diorama, Paris, Alphonse Giroux et Cie, 1839), a Ferrara – ancora in bilico tra Stato pontificio e Austria – il primo articolo riguardante l’invenzione comparso su un giornale data al 23 gennaio 1851, più di vent’anni dopo l’annuncio di Parigi. Dalle pagine de «L’incoraggiamento», il segretario dell’Istituto Conferenza Agraria, Massimiliano Martinelli, titolava: “Istruzione popolare: il daguerrotipo”, mentre in città si diffondeva il fenomeno dei “fotografi viaggiatori”, ricordati da annunci pubblicitari degli anni tra il 1850 e il 1861. Se ne leggono numerosi sulla «Gazzetta di Ferrara», come l’arrivo da Ginevra di Enrico Béguin, che assicurava in pochi secondi ritratti coloriti di gruppi e fanciulli dalla somiglianza perfettissima grazie al nuovo metodo di Parigi, al costo di uno scudo e oltre (18 ottobre 1850). Béguin riceveva in piazza Municipale, tutti i giorni, qualunque sia il tempo, nella casa del sarto Barritoni o Berettoni, dove ebbe il suo studio provvisorio anche un tale Lewis che offriva la scelta tra un ritratto a dagherrotipo o un più economico ritratto su lamina e carta eseguito entro la stanza e senza il sole in 8-10 secondi (17 luglio 1851). Tra i fotografi itineranti era anche il ferrarese Tancredi Ragazzi, di passaggio proveniente da Roma, che lavorava al dagherrotipo con esattezza, precisione e inappuntabile somiglianza ricevendo nella trattoria di Geminiano Paltrinieri da Santa Margherita strada Volta Paletto n. 1820, proponendo, oltre ai ritratti, vedute e gruppi in miniatura (3 maggio 1853). L’apprezzato artista tedesco Ferdinando Brosy nel 1856 aveva lo studio al terzo piano dell’albergo “Stella d’Oro” in piazza della Pace (ora corso Martiri della Libertà angolo via Cairoli): assicurava ritratti che sorpassano in somiglianza, precisione e finezza tutti quei metodi che sono finora conosciuti (24 febbraio 1856).
La prima uscita ufficiale della fotografia ferrarese fu in occasione della “Terza festa agraria provinciale d’incoraggiamento con esposizione agricolo-industriale e del bestiame” tenuta a Ferrara dal 13 al 20 luglio 1857 e inaugurata da papa Pio IX Mastai Ferretti. Nel catalogo della rassegna stampato a Ferrara da Taddei, tra gli espositori compare una non meglio identificata Pierina Cappellati (non si sa se fotografa o proprietaria delle immagini) con Saggi di fotografia, nella categoria “Prodotti industriali - oggetti e lavori distinti d’arte e industria manifatturiera qualunque”.
Il bolognese pittore e scultore Raffaello Ferretti aprì per primo, nel 1863, uno studio fotografico a Ferrara, seguito di lì a poco tempo da Giovanni Gattei, ottico che nel 1861 offriva al colto pubblico ferrarese ... un grande assortimento d’oggetti d’ottica, tra cui objettivi per fotografia («L’Eridano», 30 agosto 1861) e che aprì il suo primo studio in società con Paladini in via della Rotta (ora via Garibaldi) in faccia alle Tre Corone.
Recuperando il ritardo accumulato nella propria crescita grazie al miglioramento della rete ferroviaria e alla caduta delle barriere doganali, in età postunitaria Ferrara vide lo sviluppo di varie attività economiche e commerciali: dal 1863 operarono in città, con ottimi risultati, diversi stabilimenti fotografici, perlopiù inquadrati come aziende artigianali a conduzione famigliare. Prevalentemente impegnati nell’esecuzione di ritratti, si ricordano, oltre al già citato Raffaello Ferretti che poi si trasferì a Roma e a Napoli, l’artigiano Ettore Codognato che esercitò dalla fine dell’Ottocento occupandosi anche dell’applicazione della fotografia alle arti grafiche (corso Giovecca 64, all’insegna “La Glisentiana”); il veronese Pietro Codognato che, essendo pittore, eseguì ritratti fotografici molto vivaci tra il 1870 e il 1887 negli studi di via Madama e del palazzo Crispi di via Borgo dei Leoni, dove subentrò al celebre Francesco De Rubeis, attivo dal 1865, trasferito in via Madama 31, poi in piazza Sacrati dal 1880 e infine in via Garibaldi 34 dal 1903, con un successo che ha resistito per mezzo secolo. Dagli inizi del Novecento aveva lo studio in via XX Settembre Gualtiero Fabbri, mentre intorno al 1914 il valente dilettante Sarro Ferraguti aprì l’attività insieme ad Alberto Giulianelli in via Borgo dei Leoni 42, collaborazione che terminò quando Giulianelli, qualche anno più tardi, si mise in proprio. Nella geografia degli studi professionali ferraresi rientrano quello dei fratelli Roveri, fin dagli anni Sessanta in via della Picca (ora via Ercole de’ Roberti); di Luigi Vancini, dal 1866 in via del Turco 16; lo studio “Fotografia Ariostea” (via Ripagrande 21) di Alfonso Galassi nel 1874 e due anni dopo condotto da Vincenzo Passari che, visto il sensibile aumento di commissioni da quando egli era subentrato nella gestione, invitava tutti coloro che bramino dedicarsi all’arte fotografica e che abbiano qualche cognizione di disegno, a presentarsi per occupare due posti di ritoccatori per le prove positive e negative («Il Popolo», 26 marzo 1876). Ancora lavoravano con successo gli studi di Romualdo Gervasutti, dalla fine degli anni Ottanta successore di Pietro Codognato in via Borgo dei Leoni 28, dedicandosi anche alle vedute esterne e a lavori specializzati; di Guido Mignani, con sede dal 1884 nel palazzo Schifanoia; di Alessio Roppa, operante alla fine dell’Ottocento in via Saraceno 45; di Adrasto Rossi dagli inizi del Novecento in via Vittoria 66. Specializzato in istantanee per bambini era lo studio “Fotografia Artistica” di Settimio Buzzoni, situato in piazza delle Erbe (ora Trento e Trieste) di fronte al Campanile del Duomo («Indicatore generale di Ferrara», 1914). Ultimo, ma soltanto per cronologia, è da ricordare lo stabilimento fotografico “Vecchi e Graziani”, che iniziò l’attività nel secondo decennio del Novecento in via Camposabbionario 11 per poi trasferirsi in via XX Settembre 131: negli anni Venti e Trenta fu uno dei migliori studi della città.
Tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento la passione per la nuova tecnica artistica coinvolse professionisti, imprenditori, personalità di rilievo della borghesia ferrarese che si cimentarono come “dilettanti” riprendendo particolarmente Ferrara e i suoi monumenti. Tra questi, l’ing. Giulio Gatti Casazza (direttore del Teatro Comunale di Ferrara, della Scala di Milano e del Metropolitan di New York) privilegiava i paesaggi; Alberto Zaina collaborò agli inizi con il citato Sarro Ferraguti, lasciando poi documentazione dei suoi viaggi in Italia e all’estero in numerosi negativi stereografici (lastre in vetro); il dottor Ottorino Leoni partecipò ad esposizioni presso il palazzo dei Diamanti (1900) e nella ex chiesa di San Lorenzo (1903); il pellicciaio Tito Obici si dedicò ai monumenti ferraresi producendo immagini utilizzate, tra le altre, da Giuseppe Agnelli per il suo Ferrara e Pomposa (Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1902); l’ing. Carlo Turchi, contitolare del saponificio di Pontelagoscuro e consigliere della Cassa di Risparmio, dedito a vedute ferraresi e a dettagli architettonici. Altri dilettanti di ottime capacità furono l’avv. Umberto Avogadri, sindaco di Vigarano Mainarda (1901) e scrittore; il letterato, pittore e critico d’arte Ferruccio Luppis; il farmacista del borgo di San Giorgio Giuseppe Bonatti, il marchese Alfonso Costabili, il conte Antonio Scroffa e molti altri. Il più attivo tra gli amatori fu il medico Nando Bennati, che collaborò con i principali editori ferraresi (Fontana, Pistelli e Bartolucci, Noglage, ecc.) fornendo le immagini per cartoline illustrate tra la fine dell’Ottocento e il 1905.
Parallelamente alla passione per la fotografia, si sviluppava il magazzino dei negozi specializzati: l’ottico Dalan era tra i più forniti di Ferrara; l’ottico Alberto Buffa (portico del Teatro) pubblicizzava il grande assortimento delle vere macchine fotografiche inglesi ad obbiettivo acromatico; la cartoleria Ruiba (piazza Commercio, ora parte di corso Martiri della Libertà) promuoveva le proprie macchine fotografiche d’ogni genere, istantanee e per posa, e relativi accessori a prezzi di fabbrica («Gazzetta Ferrarese», 1889-90). L’ottico Maruzzi si rivolgeva ai potenziali dilettanti informandoli che con sole lire 18 ogniuno può essere fotografo, invitandoli nel suo negozio sotto il portico dei Camerini, oggi piazza Savonarola («Chichèt da Frara», 24 novembre 1889).
Verso la fine dell’Ottocento si diffondeva il ritratto di gruppo, e nel primo decennio del Novecento prendevano piede i “ritratti emozionali” e i “ritratti multipli” dell’eclettico Federico Camuri – fotografo, pittore, restauratore e “cinematografista” – che nel suo studio di via Centoversuri prima e di via Porta San Pietro poi, eseguiva insiemi di immagini ricavate con il procedimento delle doppie esposizioni.
La smania per la fotografia che aveva investito anche le scuole era disapprovata da «La Rivista» (21 aprile 1893) a causa della richiesta alle famiglie di concorrere volontariamente con un contributo in denaro: Non basta la spesa continua per nuovi libri, quaderni, penne, ecc. ... molti insegnanti fanno eseguire in gruppo la fotografia della propria scolaresca, tassando ogni singolo allievo di cent. 10 e di cent. 60 se ne prendono una copia .... I fotografi ambulanti erano bollati come una delle piaghe del genere umano, antesignani dei “paparazzi” che appena hanno addocchiato la loro vittima, la seguono con perversa attrazione e non l’abbandonano fino a che non si è presentato il momento opportuno ... la negativa si prende quando il soggetto si aggiusta la cravatta, si soffia il naso, tira su la calza.... Il fotografo dilettante è traditore per sua natura, colpisce spesso alle spalle e arriva a mascherare la macchinetta diabolica tra le pieghe di un fazzoletto o di un giornale... («Gazzetta Ferrarese», 23 settembre 1898). Il dibattito sulla nuova invenzione e sui nuovi artisti si inseriva in quello più ampio del confronto/scontro tra pittura e fotografia, che ha visto di fronte pareri discordi: chi sosteneva che la fotografia avesse ucciso la pittura, chi, al contrario considerava la fotografia una sorta di continuazione della pittura con altri, più moderni strumenti. I ritratti pittorici, in particolare, erano prerogativa della nobiltà e davano lavoro agli artisti del pennello, messi in crisi dalla forte domanda di ritratti fotografici e dalla nascita di una nuova professione, che permetteva anche alla fantesca di farsi ritrarre con pochi soldi ... Viva il progresso che anche per mezzo della fotografia fa scomparire i privilegi («La Sentinella del Po», 22 novembre 1865).
AG, 2012
Bibliografia
Alberto Cavallaroni, Ferrara nelle cartoline illustrate (1895-1945), Ferrara, Banca di Credito Agrario, 1979; Dino Tebaldi, I pionieri della fotografia nella Ferrara crepuscolare, «La Pianura», 2, 1979; Roberto Roda, Renato Sitti, Carla Ticchioni, Fotografia ferrarese (1850-1920), Portomaggiore (Ferrara), Arstudio C, 1984 (testi di Michele Perfetti, Renato Sitti, Dino Tebaldi, Giovanni Guerzoni, Roberto Roda, Lucio Scardino, Carla Ticchioni, Eros Menegatti); Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza combattimento”, Milano, Bruno Mondadori, 2000.
Il “turismo”, nel senso moderno del termine – che in Italia non risale oltre la metà del XIX secolo – ha origine nei tempi seguiti alle guerre napoleoniche, quando il viaggiare cessava di essere un privilegio di ricchi o avventurosi per diffondersi tra un numero sempre maggiore di persone e arrivare progressivamente al turismo di massa. Il fenomeno del “turismo”, in un’accezione, però, che ancora non corrisponde al significato attuale, è stato reso possibile dalla rivoluzione dei mezzi di trasporto creati nel XIX secolo e perfezionati nel XX, dalla ferrovia alla navigazione a vapore, dalla bicicletta all’automobile, all’aereo, così come dallo sviluppo delle vie di comunicazione.
Se l’abitudine di viaggiare era caratteristica del periodo tra la fine del XVII e il XVIII secolo, si trovano esempi di organizzazioni rudimentali, esempi di “prototurismo” che favorivano l’affluenza dei viaggiatori anche in età più remote: si pensi ai viaggi poco sicuri intrapresi da viandanti e pellegrini, o agli spostamenti in età medievale e rinascimentale, dettati da motivi di studio o di lavoro, verso le università europee, verso le corti signorili, le fiere e i mercati. L’Italia era la tappa-culmine del viaggio di istruzione, quel Grand Tour che durava anche 3-4 anni, intrapreso dai giovani delle famiglie aristocratiche a completamento della loro educazione. Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo il Grand Tour si diffondeva tra la borghesia agiata, tra artisti e letterati, poi, in pieno Ottocento, si allargava alla nuova classe sociale della media borghesia. Nobili, intellettuali, antiquari, artisti, filosofi, politici e semplici viaggiatori riempivano i loro taccuini con le più disparate considerazioni, emotivamente coinvolti dalle “meraviglie” osservate con occhio critico.
Sulla strada tra Venezia e Roma, una tappa quasi inevitabile era Ferrara, città che colpiva i viaggiatori per il suo presentarsi grande, solenne ma solitaria, attorniata dalla campagna piatta, vicina a un fiume affascinante ma terribile: la silenziosa e deserta bellezza tramandata dai versi di D’Annunzio e condivisa da tanti visitatori che ne hanno lasciato testimonianza nei loro diari di viaggio.
Nel 1861 il re Vittorio Emanuele II inaugurava la ferrovia Bologna-Ancona: il collegamento di Rimini alle regioni settentrionali fece ben sperare imprenditori e politici locali in una stagione di forte sviluppo economico, dopo che il primo “Stabilimento di bagni marittimi” riminese, aperto già vent’anni prima, aveva rischiato più volte il fallimento per la mancanza di adeguate strutture di accoglienza. E fu effettivamente un successo, poiché dai primi del Novecento, aumentata la ricettività con la costruzione di residenze formate da appartamenti da affittare, crescevano attorno a Rimini e a Riccione le “città-giardino” che richiamavano la media borghesia per un turismo a prezzi modesti, mentre verso la fine dell’Ottocento le ville della zona venivano trasformate nelle prime pensioni. Nel 1908, a Rimini, si apriva il Grand Hotel.
Il mare della riviera più a nord pareva tagliato fuori dal circuito turistico, ma il riferimento consegnato alla storia dal medico bolognese Giovan Francesco Bonaveri – autore del testo Della Città di Comacchio, delle sue lagune e pesche..., pubblicato a Cesena da Gregorio Biasini nel 1761 – testimonia di un “casino” predisposto alla metà del XVIII secolo a Magnavacca dalla famiglia Tomasi di Comacchio, adatto all’accoglienza di chi si volesse «colà portare a ricrearsi».
Luigi Malagodi nella sua Guida ai bagni di mare del 1856 scriveva che da quel primo «magnifico Stabilimento» di Rimini presero le mosse gli impianti costruiti sulla costa adriatica, citando, tra i numerosi altri, quelli della «spiaggia dello Stato romano, dalla parte dell’Adriatico»: tra le località ricordava Magnavacca, l’attuale Porto Garibaldi – nome assunto 1919 per ricordare lo sbarco dell’eroe dei Due Mondi su questa spiaggia il 3 agosto del 1849 –. Scriveva che le «acque di gradevole temperatura, non che il clima caldo dell’Italia valsero sempre ad eccitare gli abitatori delle sue estese spiagge a gittarsi nell’onde nella estiva stagione, e a dimorarvi a lungo, o per semplice solazzo, o per riacquistare la sanità perduta; ed oltre il grand’uso che se ne fa a piena spiaggia, senza difesa veruna, esistono moltissimi bagni e fissi, e galleggianti, e capannotti portabili, in ogni città e paese marittimo, i quali offrono quanto può essere sufficiente di comodo, di proprietà, e anche di eleganza, da invitare a profittarne quelli, che da terraferma si portano a cercar salute nelle acque del Mediterraneo e dell’Adriatico».
A Magnavacca, nel primo decennio del 1900, vennero costruiti completamente in legno gli stabilimenti balneari “Apollo”, “Esperia” e “Italia”, che divennero punto di riferimento del turismo locale del tempo. Furono abbattuti da una violenta mareggiata nel 1927 e in seguito rifatti, mentre la vecchia ferrovia che da Ostellato faceva capolinea lungo il porto-canale di Magnavacca passando per Comacchio, fu distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Un cenno merita il raduno ciclistico organizzato a Ferrara nel 1902 dal Touring Club Italiano, nato a Milano nel 1894 come “Touring Club Ciclistico Italiano” con l’intento di diffondere la bicicletta, simbolo di modernità e mezzo di locomozione alla portata di tutti. Il raduno Touristico fu accompagnato da una sfilata di donne in bicicletta: un’immagine di libertà e di emancipazione conquistata a fatica, dal momento che la bicicletta era vista come «uno strumento del demonio, se inforcata da gambe femminili».
La redazione, 2013
Bibliografia
Luigi Malagodi, Guida ai bagni di mare, Fano, Lana, 1856; Mario Bertarelli, voce Turismo in Enciclopedia italiana Treccani (1937); Mariangela Dallaglio, La riviera romagnola: un caso di sviluppo economico tra modelli elitari e turismo di massa, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Emilia-Romagna, a cura di Roberto Finzi, Torino, Einaudi, 1997, pp. 463-469; Antonella Cagnolati, Donne e bicicletta, Roma, Aracne, 2011.
Per avvicinarsi alla realtà ferrarese del teatro di prosa durante il secolo XIX, si potrebbe cominciare con un paradosso, peraltro ben noto agli storici dello spettacolo, sul teatro italiano dell’Ottocento: non esiste teatro di prosa, ma, quasi esclusivamente, il teatro in musica. Orbene questa asserzione, come ogni verità divenuta col tempo un luogo comune, dice e tace allo stesso tempo di una complessa geografia del teatro ottocentesco: il fiorire meraviglioso dell’opera ingombra quasi del tutto lo sguardo storico, al punto da nascondere una realtà spettacolare diffusa e brulicante, che arriva ad emergere solo nelle sue occorrenze più prestigiose ed incisive, quale fu ad esempio il sistema grand’attoriale. Bisogna pur riconoscere che la spina dorsale su cui si regge una cultura teatrale non sta nelle sue eccezioni, bensì nella norma che quelle eccezioni permette. E la norma del teatro ottocentesco è fatta di una diffusa teatralità e di un fabbisogno di spettacolo cui in gran parte dà risposta il teatro. Ciò mette in evidenza un secondo dato centrale dell’Ottocento teatrale: la grande fioritura dell’edilizia teatrale, che risponde allo sviluppo del melodramma solo in parte e non in correlazione di causa ed effetto ma più come conseguenza di progetti e velleità politiche e sociali, oltreché ad istanze di ordine economico.
Ferrara non fa eccezione rispetto al contesto, anzi il suo essere marginale in confronto alle grandi capitali teatrali (Milano e Venezia tra tutte) mostra in maniera esemplificativa le dinamiche proprie del secolo: primato del teatro musicale, sviluppo dell’edilizia teatrale, provincialismo del teatro parlato, spettacolarità diffusa e d’intrattenimento in diretta concorrenza con il teatro di prosa. Sarebbe errato tuttavia vedere in questa situazione un quadro negativo e stagnante dell’arte drammatica, rappresentando questa una situazione di equilibrio, che permette una certa vitalità della vita spettacolare e fa del teatro uno dei campi di incontro-scontro delle forze sociali. Da queste quattro pre-condizioni, bisognerà partire per ogni discorso sul teatro ottocentesco a Ferrara.
La città inaugura il suo Ottocento teatrale con il nuovo teatro Comunale. Questo viene richiesto in pieno XVIII secolo dalle principali famiglie nobili di Ferrara, supportate in ciò dal potere legatizio, ma viene inaugurato alle soglie del nuovo secolo in una temperie sociale e politica profondamente mutata, animata da ardori democratici, in piena Repubblica Cisalpina – per quanto la base sociale preminente degli spettatori rimanga significativamente la stessa. L’impronta repubblicana delle prime stagioni del Comunale è espressione comunque delle élite aristocratiche e borghesi di stampo moderato su cui di fatto si appoggiarono le autorità francesi nelle “repubbliche sorelle”.
L’esigenza di un nuovo teatro con una sala più ampia solo parzialmente si presta quale idoneo contenitore delle istanze democratiche e rivoluzionarie, rispondendo di fatto alle rinnovate esigenze del pubblico e degli organici delle orchestre teatrali, a problematiche di capacità e di sonorità, di decoro e di gusto. Ciò non implica che il teatro non si accordi al clima politico: esso si rivela essere uno spazio plurimo e malleabile, che viene di volta in volta riempito di valori nuovi, uno spazio teatrale che assecondando lo spirito del tempo diventa spazio di celebrazione politica.
Lungo tutto il secolo XIX il teatro Comunale diviene lo spazio della festa pubblica: dal periodo giacobino e napoleonico, alla restaurazione del potere pontificio, alle celebrazioni post-unitarie, fino alla fine del secolo, esso accoglie e dà eco ai festeggiamenti. Ma si badi bene, non è quello dell’Ottocento un teatro comunitario: non dal teatro si afferma l’identità cittadina. Lo schema infatti è sempre lo stesso: la festa comincia altrove, fuori dal teatro, nello spazio pubblico della città, la piazza o il castello, e solo successivamente vi approda come momento di celebrazione conclusiva, il più delle volte sancita dalla musica.
Questa dimensione di divertimento è forse la cifra più propria del teatro ottocentesco, a Ferrara come altrove. Si è parlato di uso “digestivo” del teatro e di “condominio delle grandi famiglie”. Ed il teatro si rivela essere metaforicamente – ma anche concretamente e di conseguenza organizzativamente – una estensione della vita e della proprietà privata dei cittadini più facoltosi. Si tratta di un sistema teatrale il cui centro consiste appunto nello svago, nella “serata” più che nello spettacolo. In un certo senso si ottimizza il divertimento radunandolo in un unico luogo. Rivelatore è a questo proposito il fatto che alcuni impresari chiederanno come conditio sine qua non per l’appalto delle stagioni al Comunale la possibilità di gestire il gioco d’azzardo, e che proprio quelle stagioni in cui ciò accadrà, saranno quelle economicamente più solide in cui ci si potrà anche permettere di commissionare un’opera nuova come, ad esempio, il Ciro in Babilonia di Rossini, su libretto del ferrarese Francesco Avventi.
Il conte Avventi è anche autore di un’opera fondamentale sull’organizzazione teatrale del XIX secolo, il Mentore teatrale. Repertorio di leggi, massime, norme e discipline (Ferrara, Negri alla Pace, 1845), col quale cerca di sopperire a un vero e proprio vuoto legislativo rifacendosi al Regolamento sui teatri di Francia del 1815. È forse proprio sotto l’aspetto organizzativo ed economico che Ferrara dà il suo maggiore contributo alla cultura teatrale ottocentesca: per il suo stesso essere provincia, ai margini delle vicende artisticamente rilevanti, la città sviluppa infatti una sapienza organizzativa delle imprese teatrali, con figure di assoluto rilievo e in alcuni casi di respiro internazionale. È questo il caso di Giulio Gatti-Casazza, che, succeduto al padre Stefano nella gestione del Comunale, è chiamato a Milano a dirigere la Scala nel 1898, per approdare infine dopo un decennio al Metropolitan di New York.
In un contesto di estrema mercificazione, in cui il solo codice che regola il teatro italiano è quello commerciale, il codice dei contratti e degli scambi, con una preponderanza artistica ed economica dell’opera in musica, gli artisti di prosa si ritrovano ad operare in una situazione di radicale marginalità, in balia di impresari e mediatori vari. Il mercato è in cerca di novità, sorpresa, meraviglia, che risolvono però le dinamiche produttive non verso un rinnovamento artistico quanto in un’offerta variegata di attrazioni, una sorta di esibizionismo pre-artistico, che ripropone vecchi moduli. È una spettacolarità diffusa fatta di rappresentazioni teatrali ma anche di esibizioni funamboliche, corse di cavalli, mostre artistiche e/o pseudo-scientifiche, curiosità più o meno esotiche, animali e freak, danze, giochi e fuochi, spettacoli ottici e tanto altro. Uno scorsa della serie Teatri e spettacoli dell’Archivio storico comunale di Ferrara ci può dare un’idea di questa varietà. In città nel corso del secolo si possono ammirare spettacoli e teatri meccanici, giganti e giovani barbute, donne con due o addirittura tre teste, uccelli, scimmie, cani ammaestrati ed anguille elettriche, diorami e panorami con vedute fantastiche o ricostruzioni veritiere di luoghi eminenti, circhi equestri, ginnastici e mimici, spettacoli di burattini e marionette. Nel 1906 arriverà in tournée e si esibirà in piazza d’armi anche il celebre circo di William Frederick Cody, meglio noto come Buffalo Bill.
Questo eccesso di offerta costringe gli attori ad un maggiore nomadismo, per cercare di sorprendere e attirare un pubblico anche nella scarsità dei mezzi. Una miseria teatrale che non incombe solo sull’ultimo dei saltimbanchi ma che insidia e preoccupa anche artisti affermati, per quanto questa mercificazione pur comportando da un lato una banalizzazione del fatto teatrale, permetta di fatto un decentramento artistico che consente anche a città medio-piccole come Ferrara di divenire centri di produzione teatrale. Il ruolo degli agenti impegnati in un mercato senza troppi vincoli, alla ricerca di ogni possibile profitto, diviene il meccanismo attraverso cui questo provincialismo attoriale si risolve in una sorta di internazionalismo, con grandi tournée all’estero. Si pensi per esempio alle tournée francesi o addirittura americane della Ristori, figlia dell’attrice ferrarese Maria Maddalena Pomatelli.
A questo variegato mercato dell’intrattenimento fa da contenitore la vita festiva della città che concorre anch’essa a formare le molteplici culture della rappresentazione dell’Ottocento ferrarese. Vita festiva che sparge di spettacolarità, come abbiamo accennato, le occasioni cerimoniali e celebrative cittadine. Le condizioni politiche determinano in questo calendario festivo l’invenzione e/o la rapida scomparsa di feste e rituali. Si va dalle celebrazioni repubblicane e rivoluzionarie come l’innalzamento dell’albero della libertà in piazzetta dei Camerini (attuale piazza Savonarola), o l’innalzamento della statua a Napoleone nel 1810 o ancora le feste ariostesche del 1801, con la traslazione della tomba dell’Ariosto dalla chiesa di San Benedetto alla Biblioteca pubblica (oggi Ariostea) alle feste per la restaurazione e la vittoria sul «demone rivoluzionario» con l’ingresso solenne di Pio VII in città e le successive e ricorrenti feste per le nuove elezioni papali, alle feste per l’annessione al regno sabaudo e le celebrazioni per la proclamazione del regno d’Italia. Insomma una geografia festiva articolata che si innesta sulle vicende politiche, economiche, sociali della città e da queste trae linfa, delineando nella festa una immagine totalizzante della comunità, che però si rivela, ad uno sguardo storico, inquieta, vitale, vivace, lontana da quel ritratto indolente e neghittoso della città che aveva fatto M.me de Staël nel suo Corinne ou l’Italie: «Ferrare, l’une des villes d’Italie les plus tristes, car elle est à la fois vaste et déserte; le peu d’habitants qu’on y trouve, de loin en loin dans les rues, marchent lentement comme s’ils étaient assurés d’avoir du temps pour tout».
DGL, 2012
(Domenico Giuseppe Lipani)
Bibliografia
Francesco Avventi, Mentore teatrale. Repertorio di leggi, massime, norme e discipline per gli artisti melo-drammatici e per chiunque abbia ingerenza o interesse in affari teatrali, Ferrara, Negri alla pace, 1845; I teatri di Ferrara. Il Comunale, a cura di Paolo Fabbri, Maria Chiara Bertieri, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2004; Luana Oliva, Feste pubbliche e divertimenti nella Ferrara del XIX sec., tesi di laurea in Storia del Teatro e dello Spettacolo, Università degli studi di Ferrara, Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore prof. Daniele Seragnoli, a.a. 2006/2007.
L’Ottocento è il secolo della storiografia. Attraverso una rifondazione empirica, con un riferimento costitutivo ai documenti del passato, ma anche grazie alla nascita della “Storia” come singolare collettivo, somma della pluralità di storie, nel corso del secolo lo studio della storia diventa un campo della produzione culturale autonomo dalle generalità filosofiche, giuridiche e teologiche e dal ruolo subordinato di deposito di esempi per questi saperi. Nuove fonti e nuovi metodi trovano un coronamento con la professionalizzazione del mestiere di storico, legato all’avvento dello Stato nazionale e alla crescita delle università: nasce una nuova comunità scientifica, con norme e riti specifici, codificati da associazioni e riviste. A fine secolo, tuttavia, si produce una rottura nel campo storiografico, destinata a riprodursi costantemente, fra la tradizione politico-istituzionale e le innovazioni dettate dal dialogo con le scienze sociali e dalle pressioni dei movimenti sociali e della società di massa.
La storiografia italiana disegna un percorso specifico, meno avanzato delle esperienze tedesche o francesi, ma segnato dagli stessi processi: anche la resistenza di forme erudite ed eclettiche di sapere non è il portato dell’“arretratezza” ma un fenomeno europeo. Le grandi trasformazioni del secolo giungono invece a Ferrara alquanto attutite. Anche per l’assenza di cattedre universitarie non si producono scuole o singoli studiosi di vaglia, nemmeno, come accade in altri campi culturali per migrazione verso poli nazionali o europei. La storiografia resta un’attività coltivata nel tempo libero da bibliotecari e archivisti, da insegnanti e funzionari, da ecclesiastici, professionisti e possidenti, borghesi o nobili. Si concentra su temi locali e contribuisce alla costruzione di una memoria che si nutre della celebrazione delle passate glorie e dei grandi uomini della città e del suo territorio. Contribuiscono a questa costruzione anche le storiografie culturali-settoriali (come arti figurative e letteratura), la cui trattazione esula da questa voce. La storiografia ferrarese è un caso minore, ma questo non significa che non si registrino mutamenti e che non vi siano testimonianze delle innovazioni europee e nazionali: l’attenzione al documento permette la transizione, o meglio la commistione, fra tradizione erudita e nuovo culto “positivo” delle fonti e dei fatti; la nuova cornice nazionale risignifica la storia municipale preunitaria e affida una missione civile alla storiografia; la lotta politica lascia il segno, non più sotto forma di censura e di ossequio ai regnanti di turno, ma come promozione e uso degli studi storici al fine della produzione del consenso, ed è evidente soprattutto nelle generazioni di storici-patrioti, liberali e poi risorgimentali, ma si segnala anche nelle aperture al “sociale” degli studiosi democratici.
Il XIX secolo si era aperto con la scomparsa di Antonio Frizzi (1736-1800), uno dei più importanti intellettuali ferraresi del Settecento. Fino alla morte aveva vergato le note del suo Diario, edito solo nel 1857, per «tenere registro» delle «tante e sì grandi cose» accadute a Ferrara a partire dalla «strepitosa invasion Francese», alla quale non aveva certo guardato con favore. Quegli appunti rappresentavano la continuazione delle ponderose Memorie per la storia di Ferrara, edite in quattro tomi a fine secolo (1791-1796 - il quinto volume uscì postumo nel 1809) e concepite come raccolta di informazioni («fonte [...] ove attingere l’erudite cognizioni delle patrie antichità»), un semplice “ripiego” in attesa di una «storia completa, critica, e fedele». Tuttavia le Memorie, ispirate all’esempio di Muratori, spingevano materia, documentazione ed esposizione ben oltre la tradizione locale e la cronachistica del Diario ferrarese che lo stesso Frizzi aveva redatto fra 1775 e 1777. Si aprivano con una serie di considerazioni tematiche sulla natura del territorio e sulle origini dei suoi primi abitatori, proseguivano con la nascita della città fino alle soglie della signoria, si occupavano quindi largamente del periodo estense e si chiudevano con un volume dedicato al periodo pontificio. Laureato in legge e appassionato verseggiatore (autore anche di un poemetto in onore della salama da sugo, La salameide, 1772), Frizzi era stato per tutta la vita pubblico funzionario, soprattutto segretario del municipio e addetto all’archivio comunale, ma aveva riordinato anche le carte di importanti famiglie ferraresi e pubblicato nel 1787 una guida della città.
Le Memorie e il Diario di Frizzi continuavano una tradizione che non si interruppe nel XIX secolo: senza contare i manoscritti, basti menzionare che Roveri e Fiorentini compilarono degli Annali ferraresi fra 1830 e 1880 (1881), Fabiani diede alle stampe delle Memorie per il periodo 1815-1895 (1896), ma disponiamo anche di Memorie per Argenta (Bertoldi, 1800 e Bandi, 1868), Pontelagoscuro (anonime, 1801 e Bedani, 1898), Portomaggiore (De Stefani, 1863 e Mezzogori, 1864), Cento (Orsini-Vicini, 1904) e Massafiscaglia (Grassi, 1909). Anche la comunità ebraica ebbe le proprie Memorie (Pesaro, 1878-1880). L’opera di Frizzi rappresentò un modello, o comunque un riferimento e un deposito di notizie per buona parte del secolo. Criticamente vi si riferisce il Compendio di Manini Ferranti (1808), vi attingono le compilazioni Bertoldi (Dei diversi dominj a’ quali è stata soggetta Ferrara, 1817 e Vescovi ed arcivescovi di Ferrara, 1818 – ma all’autore si devono anche utili Memorie per la storia del Reno, 1807), mentre le riprende e sintetizza Conti (La fiera Ferrara, 1845-1850 – autore anche di una Illustrazione delle più importanti famiglie ferraresi, 1852), tanto da spingere ad una riedizione dell’opera di Frizzi (1847-1848). Ancora nel 1864, Luigi Napoleone Cittadella (1806-1877), un altro impiegato municipale che dal 1862 era stato nominato bibliotecario e archivista comunale, raccolse una serie di Notizie, «miscuglio di cose patrie» raccolte per temi e restituite in ordine alfabetico, da “Amministrazione” a “Zecca”. Erano il risultato delle scorrerie archivistiche dello studioso locale più in vista, cooptato nel 1860 nella Deputazione di storia patria per le province di Romagna e membro di molte società storiche, non solo nazionali.
Dopo l’Unità l’apertura dell’accesso agli archivi, di contro alla guardinga segretezza preunitaria, stimolò ricerche e pubblicazioni. Il culto del documento produsse nel 1891 l’importante regesto del maestro argentano Patrizio Antolini sui Manoscritti ferraresi, che andava a integrare il Saggio bibliografico del canonico Giuseppe Antonelli (1851). Una svolta nel mondo degli studi storici si segnala negli ultimi decenni del secolo, parallelamente alla nascita della Deputazione ferrarese di storia patria. Nel 1884 la città estense fu una delle ultime fra le vecchie capitali a dotarsi di questa istituzione , ma senza un programma di ricerca o un indirizzo coerente. L’iniziativa si dovette allo stimolo esterno della mostra risorgimentale all’esposizione di Torino e all’iniziativa del sindaco Trotti. La Deputazione fu luogo di raccolta degli studi individuali, dei quali spesso promosse la pubblicazione nei suoi «Atti e memorie» (d’ora in avanti: AM). La rivista esordì con la pubblicazione di una fonte (il “plebiscito” trecentesco a Clemente V) e diede ampio spazio ai documenti. Attraverso lo specchio della Deputazione, la storiografia locale appare tutta concentrata sulla dimensione cittadina, trascurando non solo il periodo antico e l’alto medioevo, ma e persino l’età comunale: fra le eccezioni, gli studi di Antonio Bottoni (1838-1898), medico e poi archivista comunale, su Pomposa (1883) e sugli «antichi abitatori» del Basso Po (1896), dell’ingegner Filippo Borgatti sulle campagne in età romana (1906; ma anche AM, 1907) e sull’origine di Ferrara (AM, 1912), di Antolini sugli Statuti di Massafiscaglia (AM, 1893 e 1895). L’attenzione principale fu rivolta soprattutto ai secoli estensi, che coincidevano con Umanesimo e Rinascimento, ma paradossalmente non si concretizzò in opere durevoli, concentrandosi per lo più su aspetti marginali, confermando così il severo giudizio di Adriano Prosperi sull’«aura di divagazione marginale» o di «erudizione affastellata e refrattaria al problema storico», «quasi svago provinciale di signori della capitale». La deprecata devoluzione del 1598 segna uno spartiacque storiografico e buona parte dell’età pontificia, interpretata univocamente in termini di decadenza, non sollecitò studi, così come non si registrano interessi per la storia religiosa ed ecclesiastica.
Gli studi riemergono con l’età del Risorgimento, soprattutto grazie all’operosità di Patrizio Antolini, che fra numerosi studi, licenziò con Giuseppe Ferraro alcuni Appunti sulla Restaurazione (1885), mentre Ferruccio Quintavalle, professore al liceo cittadino, dedicò un volume alla rivoluzione del 1831 a Ferrara (1900) e Pietro Niccolini ai bersaglieri del Po (1908). Queste pagine di storia “contemporanea” sono oggi importanti perché condotte anche su fonti distrutte dai bombardamenti bellici . Nonostante la maggiore apertura del Proemio di Trotti (AM, 1889), che pure storico non era, lo sviluppo degli studi si concentrò, seguendo lo Statuto originario della Deputazione (AM, 1886) su aspetti della storia politica cittadina. Se gli storici locali diedero qualche buona prova nella storia culturale, occupandosi in particolare della storia dell’università (Bottoni, 1892; Secco Suardo, AM, 1894; Pardi, AM, 1903), non si dedicarono affatto alle vicende della società e del territorio, con importanti eccezioni: Bottoni dedicò alcuni Appunti sulle rotte del Po (1872); il futuro direttore consortile Luigi Fano nel 1903 pubblicò brevi Cenni storici sulla bonifica ferrarese; ancora più tardi (AM, 1911) la storia demografica trovò un compendio ad opera di Giuseppe Pardi, altro professore di liceo. A studi più robusti attese solo il giovane Pietro Sitta (1866-1847), che prima di assumere la cattedra di economia politica nel locale Ateneo, dedicò due lavori alle istituzioni economiche del Ducato e delle corporazioni (AM, 1891 e 1896).
MN, 2013
Bibliografia
Enzo Bottasso, Cittadella, Luigi Napoleone, in Dizionario biografico degli italiani, v. 26, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1982; Il contributo della Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria al volto e alla storia di Ferrara in cento anni, «Atti e memorie» della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, s. IV, v. IV, 1986; Bruno Di Porto, Bottoni, Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, v. 13, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1971; Emanuele Morselli, Pietro Sitta e le sue opere economiche, Ferrara, SAIG, 1948; Carlo Zaghi, Commemorazione di Patrizio Antolini, «Atti e memorie» della Deputazione ferrarese di storia patria, 1929.
La “riscoperta dei primitivi”, ovvero il nuovo interesse di intenditori e collezionisti per le opere d’arte del medioevo e la pittura fra Cimabue e Raffaello, è certo il maggiore portato della storia dell’arte tra Sette e Ottocento. Fra i testi più significativi dell’emergere del nuovo gusto, soprattutto per la rivalutazione delle “arti minori” e dei maestri del Trecento, fu la Storia della scultura in Italia (1813-18) concepita dal ferrarese Leopoldo Cocognara, direttore dell’Accademia di Venezia, come continuazione della storia della scultura antica di Winckelmann e di quella dei monumenti medievali di Seroux d’Agincourt.
Se già Giuseppe Lanzi aveva contribuito a far uscire da un oblio durato tre secoli l’antica scuola ferrarese assegnandole un ruolo di rilievo nella sua Storia pittorica della Italia (Bassano 1795-96), la fortuna critica del Quattrocento cittadino cominciò davvero solo con il “provvidenziale” ritrovamento degli affreschi del salone dei Mesi a Schifanoia fra il 1821 e il 1840. Alla notizia del rinvenimento dei dipinti sotto lo strato d’intonaco che li occultava da circa un secolo seguì la pubblicazione di una serie di libelli polemici sulla loro attribuzione e sul loro restauro. Nel render noti gli affreschi il conte Camillo Laderchi contestò l’attribuzione dell’intero ciclo a Cosmè Tura, sostenuta dalla letteratura artistica settecentesca, segnalando le differenza di stile fra le due pareti riscoperte e attribuendo quella orientale a Lorenzo Costa, all’epoca ancora confuso con Francesco del Cossa. In risposta a Laderchi, Giuseppe Saroli e Francesco Avventi tornarono a sostenere la tradizionale attribuzione a Tura e la corretta datazione del ciclo agli ultimi anni del marchesato di Borso d’Este (1469-70). Fra il 1840 e il 1842 la notizia della scoperta si diffuse sui periodici culturali di altre città italiane, con interventi degli stessi Laderchi e Avventi, di Luciano Scarabelli, Giuseppe Petrucci e Giuseppe Maria Bozoli, fino a giungere alla colonia dei pensionanti stranieri a Roma attraverso le colonne del giornale “Il Tiberino”. La lusinghiera menzione degli affreschi come “il più importante monumento storico-culturale di quell’età” nella prima edizione del Cicerone di Jacob Burckhardt (Basilea 1855) consacrò la fama del ciclo di Schifanoia presso il pubblico internazionale. Ancor prima, la pubblicazione da parte di Laderchi del catalogo della maggiore collezione cittadina (Descrizione della quadreria Costabili, Ferrara 1838-41), ricca di tavole dei primitivi, aveva attratto in città i primi grandi conoscitori europei (fra essi Otto Mündler, Henry Layard, Charles Eastlake, Giovanni Morelli, Alexander Barker), solleticati dalla possibilità di approfittare del disgregamento delle quadrerie storiche ferraresi per acquistare dipinti per le loro collezioni e per le gallerie nazionali estere. Il riconoscimento internazionale degli antichi maestri della scuola ferrarese coincise in tal modo con la dispersione delle loro opere.
In ambito cittadino Laderchi, simpatizzante della critica d’inclinazione mistica di Alexis François Rio e di Charles de Montalambert – dei quali era corrispondente – procedette a una rivalutazione in termini fortemente ideologici della pittura devota del secondo Quattrocento e di Garofalo, apprezzata per la sua ispirazione sinceramente cristiana e contrapposta al “lurido paganesimo” imposto dai letterati di corte agli artisti attivi a Schifanoia. Le sue relazioni internazionali, una buona conoscenza delle fonti storiche – seppure attraverso i regesti degli eruditi settecenteschi – e una discreta capacità di discernimento critico fanno di Laderchi la massima autorità cittadina in campo artistico (La pittura ferrarese, Ferrara 1848 e 1857).
Nel clima culturale del Risorgimento e nell’ambito delle élite colte di orientamento liberale la testimonianza dello splendore dell’epoca estense che emergeva così vividamente dai muri di Schifanoia era tuttavia implicitamente posta a confronto con la decadenza della città durante i due secoli di dominio pontificio. I dipinti di Schifanoia, assieme alle pale d’altare del Garofalo, che dal 1836 lasciano le chiese cittadine per entrare nella Pinacoteca Municipale appena costituita, vengono riprodotti e commentati in iniziative editoriali che tuttavia non giungono a compimento, forse a causa dell’assenza in città di un pubblico abbastanza colto da intendere il significato culturale e politico dell’operazione e abbastanza vasto da sostenerla. Tali condizioni sembrerebbero invece darsi una decina d’anni più tardi, ormai alle soglie dell’Unità, con la pubblicazione, fra il 1850 e il 1860, dell’Album Estense per i tipi dell’editore Abram Servadio. Orientato fin dal titolo esclusivamente sul passato ducale, il volume opera una selezione dei monumenti e della storia artistica cittadina che sarebbe rimasta costitutiva dell’identità culturale ferrarese all’interno del nuovo Stato. L’opera è tuttavia priva di un reale impianto storico e si risolve in una serie di medaglioni scritti da illustri dilettanti, mentre la presenza di un testo francese a fianco di quello italiano dimostra la volontà di rivolgersi al pubblico internazionale del Grand Tour, di cui nel frattempo la città era divenuta meta.
Il nuovo interesse per la pittura antica rinfocola anche quello nei confronti della locale letteratura artistica settecentesca, che era – e in buona parte rimarrà ancora a lungo – inedita. Nel 1836 Giuseppe Petrucci pubblicò la Vita di Cosmè Tura, cui fece seguire le biografie di altri artisti del Cinque e Seicento tratte dal manoscritto delle Vite de’ pittori e scultori ferraresi di Girolamo Baruffaldi, che fu pubblicato integralmente nel 1844-46 a cura di Giuseppe Boschini. A Laderchi si deve invece la seconda edizione delle Memorie per la storia di Ferrara di Antonio Frizzi (Ferrara 1848). Nella seconda metà del secolo lo scavo operato negli archivi cittadini da Luigi Napoleone Cittadella (Notizie storiche relative a Ferrara, Ferrara 1864 e 1868) e le indagini del modenese Giuseppe Campori nell’Archivio Estense fornirono una più solida base documentaria agli studi storico-artistici.
Fu però solo con l’affermarsi anche in Italia della critica filologica di matrice anglosassone che la storia dell’arte ferrarese uscì dai limiti angusti dell’erudizione municipale e si compì un reale progresso nella conoscenza delle origini della scuola, liberando il campo dai miti privi di fondamento consolidatisi nella letteratura da Vasari a Baruffaldi e giungendo, attraverso la pratica dell’attribuzione, a una più attendibile definizione della fisionomia stilistica dei suoi protagonisti: Cosmè Tura, Francesco del Cossa e, in parte, Ercole de’ Roberti. Fondamentali in tal senso furono gli studi sistematici di Giovan Battista Cavalcaselle e Joeph Archer Crowe (A History of Painting in North Italy, Londra 1871) e i cataloghi ragionati delle maggiori pinacoteche europee redatti da conoscitori come Giovanni Morelli e Gustavo Frizzoni. Nel 1884 uscì sullo “Jahrbuch” dei musei prussiani lo studio di Fritz von Harck sugli affreschi di Schifanoia che, individuando nel ciclo la presenza di almeno tre diversi maestri e riconoscendo nella parete Est la mano del Cossa, costituì una solida base per le successive indagini filologiche, a cominciare da quelle di Adolfo Venturi. Alla storia dell’arte come storia della civiltà, sull’esempio di Burckhardt e Eugene Müntz, si ispirava invece l’ampia e accurata sintesi di Gustave Gruyer (L’art ferrarais à l’époque des princes d'Este, Parigi 1897), cui seguì quella più agile e sapientemente divulgativa di Edmund Gardner (The Painters of the School of Ferrara, Londra 1911).
E’ difficile sopravvalutare l’importanza degli scritti dedicati all’arte ferrarese dal modenese Adolfo Venturi nell’arco di tutta la vita: i seminali studi sui primordi del Rinascimento, sull’epoca di Borso e di Ercole I d’Este pubblicati fra il 1884 e il 1890 sull’“Archivio Storico Italiano” e sugli “Atti e Memorie” della Deputazione romagnola; gli approfondimenti monografici sui maggiori artisti apparsi negli stessi anni sulle più importanti riviste d’arte tedesche e francesi; la supervisione alla mostra sulla scuola di Ferrara e Bologna dal 1440 al 1540 al Burlington Fine Arts Club di Londra nel 1894; i ritrovamenti documentari, le opere d’arte inedite o nuovamente attribuite, le recensioni di libri e mostre pubblicati sulle pagine dell’“Archivio Storico dell’Arte” e de “L’Arte”. Questi studi – grazie ai quali la disciplina storico-artistica raggiunse anche in Italia uno statuto autonomo, fondato sul confronto fra fonti documentarie e analisi stilistica delle opere – si riversarono, con il loro ricco corredo fotografico, nei tomi della Storia dell’arte italiana dedicati alla pittura del Quattro e del Cinquecento (Milano 1914, 1928 e 1929). I volumi di Venturi, assieme agli scritti di Bernard Berenson, costituiranno i testi di riferimento per l’Esposizione della pittura ferrarese del Rinascimento tenutasi a Palazzo dei Diamanti nel 1933, a cura di Nino Barbantini, da cui si può dire prenda avvio la vicenda novecentesca della storia dell’arte ferrarese.
MT 2013
(Marcello Toffanello)
Bibliografia:
Corrado Padovani, La critica d’arte e la pittura ferrarese, STER, Rovigo, 1954; Ranieri Varese, Atlante e atlanti, in Atlante di Schifanoia, a cura di Ranieri Varese, Panini, Modena, 1989, pp. 9-20; Jaynie Anderson, The rediscovery of Ferrarese Renaissance painting in the Risorgimento, “The Burlington Magazine”, 135, 1993, pp. 539-549; Luisa Ciammitti, “Un non so che di particolare e di nuovo”. Cenni sulla storiografia della scuola ferrarese, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’epoca di Borso d’Este, a cura di Mauro Natale, Ferrara Arte, Ferrara, 2007, pp. 91-109; Marcello Toffanello, Vicende critiche e attribuzione degli affreschi, in Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, a cura di Salvatore Settis e Walter Cupperi, Franco Cosimo Panini, Modena, 2007, vol. Testi, pp. 234-37.
Il mondo della scuola e dell’istruzione non rimase estraneo ai cambiamenti sociali portati dall’invasione napoleonica. Per creare “nuovi” cittadini si doveva innanzitutto “istruire” il popolo – non solo adulto – rendendolo partecipe dei benefici della democrazia e combattendo l’analfabetismo.
Nel Piano generale di pubblica istruzione della Repubblica Cisalpina (1797) venivano evidenziati, al proposito, alcuni princìpi-base: l’istruzione pubblica e universale aveva come unico referente lo Stato, che doveva fornirla direttamente o comunque indirizzarla e vigilarla; la scuola primaria doveva essere gratuita e di orientamento aconfessionale. Sia l’istruzione primaria – affidata ai Fratelli delle scuole cristiane –, sia quella secondaria – assegnata ai Somaschi o ad altri Ordini presenti sul territorio che già si erano occupati dell’educazione dei giovani – erano controllate da funzionari statali pagati dal governo della Repubblica ed eletti dalle Municipalità.
La scuola primaria prevedeva l’insegnamento della lettura, della scrittura e del calcolo (leggere, scrivere e far di conto); una volta la settimana si impartivano lezioni sulla Costituzione, sulla morale e sulla religione. La dovevano frequentare tutti i bambini senza distinzione di censo; terminato questo primo ciclo, gli allievi seguivano strade diverse secondo il loro stato sociale: per chi era destinato ai lavori manuali era sufficiente l’istruzione data dalla scuola primaria, mentre chi proveniva da classi benestanti, in previsione di ruoli importanti da occupare nella società, accedeva alle scuole secondarie per completare la formazione. Il curriculum della scuola secondaria contemplava l’insegnamento della lingua italiana e del latino (questa materia, però, “d’una maniera da non perdervi tanto tempo”), della storia sacra e profana, della storia patria, dell’eloquenza e della poesia, della Costituzione. Accanto alle materie tradizionali assumevano nuova importanza gli esercizi ginnici, che tonificando le forze fondevano il “vigor fisico e morale” indispensabili in “una Repubblica di uomini liberi e soldati”.
Terminate le scuole pubbliche, i giovani benestanti potevano intraprendere un corso di studi universitario o la carriera ecclesiastica frequentando il Seminario, anche questo controllato rigorosamente da funzionari statali.
Nel 1811 presero avvio le “scuole normali” per Ferrara e per i suoi borghi, con un proprio calendario, propri obiettivi e programmi di istruzione primaria. Il primo Regolamento porta la data del 1825: indicava norme per i maestri (titolari dell’apposita patente), sulla consistenza delle classi – o meglio pluriclassi, come scrive Savioli, poiché arrivavano anche a 112 allievi – sulla disciplina (inflessibile e non immune da pesanti punizioni), sui locali, tutto sotto il diretto controllo ecclesiastico. In seguito la normativa venne rifinita da un editto del cardinale Ignazio Cadolini (1843) e ancora modificata dall’arcivescovo Luigi Vannicelli Casoni (1852).
Nel 1861 a Ferrara gli analfabeti erano il 78%.
La prima legge che tentò di combattere l’analfabetismo fu il regio decreto legislativo n. 3725 del 13 novembre 1859 emanato da Vittorio Emanuele II re di Sardegna, in vigore nel 1860 e, in seguito all’unificazione, esteso a tutta l’Italia. La legge – che prendeva il nome dal ministro della Pubblica Istruzione Gabrio Casati e considerata da Inzerillo l’atto ufficiale di nascita della scuola italiana – terminò il suo processo di estensione a tutto il Regno nel 1862, riformando completamente l’ordinamento scolastico e mettendo in luce la volontà dello Stato di farsi carico dell’istruzione a fianco e in sostituzione della Chiesa che da secoli ne era l’unica depositaria. La legge disponeva l’istruzione elementare divisa in due anni di “inferiore” (gratuita) e due di “superiore”. Comuni e frazioni con almeno 50 bambini avviavano una scuola sostenuta economicamente dai Comuni stessi, che per la maggior parte non riuscivano a sostenerne il carico, lasciando di fatto la normativa in parte inapplicata e riaprendo la strada al conflitto tra lo Stato e la Chiesa, dal momento che le scuole private confessionali non potevano competere con la scuola pubblica gratuita. Non era previsto l’obbligo di frequenza, che arrivò solo nel 1877 con la legge n. 3961 presentata dal ministro Michele Coppino.
Nel frattempo il Consiglio superiore di Pubblica Istruzione aveva chiuso nel 1864 l’Istituto scolastico di Pieve di Cento retto dagli Scolopi (per fatti “di natura corrotta e corruttrice” imputati a due chierici) e nel 1865 il Seminario vescovile di Comacchio (perché, tra altro, il rettore aveva rifiutato la visita all’istituto del provveditore agli studi, non riconoscendo “altra autorità che l’ecclesiastica”).
Nella già citata legge Coppino del 15 luglio 1877, la durata della scuola elementare veniva portata a 5 anni, con l’obbligo di frequenza per il primo triennio; altre novità della legge si riferivano alle penalità stabilite per gli inadempienti (genitori e studenti) e alle materie di studio. I programmi del 1860, infatti, oltre alla lingua italiana e all’aritmetica, fissavano per le classi II, III e IV, elementi dei diritti e dei doveri dell’uomo, di storia, geografia, scienze e religione che, con la legge Coppino, venne sostituita da nozioni di diritti e doveri dell’uomo e del cittadino, dando adito ad una lunga discussione tra le amministrazioni e la Santa Sede sulla scia della questione della laicità dello Stato. In proposito, il Regolamento generale dell’istruzione elementare (1908) mise un po’ di ordine nella normativa, stabilendo che se l’insegnamento religioso non fosse attivato dai Comuni venisse impartito dietro richiesta dei padri di famiglia. L’ispirazione laica dei nuovi programmi legati alla normativa Coppino e dovuti al pedagogista Aristide Gabelli – emanati con R.D. 25 settembre 1888 – tesi a contrastare l’“imparare a memoria” in favore dell’osservazione diretta, dell’esperienza, della capacità di “fare”, furono ridimensionati dai programmi Baccelli (1894), che, con un passo indietro, privilegiavano una scuola che guardava “più al passato che al futuro”, nella convinzione che “le trasformazioni industriali” potessero “mettere in crisi valori, idee, costumi e tradizioni”. Accanto alla lingua italiana e alla storia compariva l’insegnamento, per le fanciulle, di “lavori donneschi”. Ancora nei primi anni del Novecento i dibattiti intorno al tema dell’istruzione dei giovani portarono a diversi progetti di legge, discussi e approvati ma spesso non realizzati. La materia rappresentava uno dei nodi legislativi da sciogliere: dalla nomina e dal licenziamento dei maestri all’equiparazione degli stipendi e alla nascita di direzioni didattiche nel Comuni con popolazione non inferiore ai 10.000 abitanti (legge Nasi, 19 febbraio 1903); dall’obbligo scolastico fino ai 12 anni, con l’aggiunta della VI classe che, insieme alla V già esistente andava a formare il cosiddetto “corso popolare” per la preparazione al lavoro, ai corsi serali e festivi per gli analfabeti (legge Orlando, 8 luglio 1904).
Prima della costruzione degli edifici scolastici, che segnarono i profili urbani generalmente a partire dagli anni Dieci del Novecento, le scuole primarie erano di norma ospitate in abitazioni private in condizioni spesso difficili. Valga per tutte una descrizione riportata dal perito Pietro Colla che il 13 marzo 1862 visitava le “scuole” di Formignana per un sopralluogo di stima. L’“aula” si trovava nella casa di Giuseppe Poli: una camera a piano terra, depressa ed umida, con sollajo basso con due piccole finestre e senza camino; c’erano, di cattivo stato, due banche con sedile, quattro banche semplici e palancate lunghe. Il successivo 4 settembre la scuola fu trasferita presso la casa di tale Sabi, dotata di nuove banche n. 4, armadio, cartelloni, crocefisso, ritratto, calamaj Maestro, calamaj di piombo n. 12, ma mancante ancora di segiola, tavola, palotoliere e lavagna.
Le scuole serali per adulti, poi, rappresentarono un passo importante nella battaglia contro l’analfabetismo nella provincia ferrarese. Se quelle maschili erano già operative nel territorio grazie allo stimolo della Società Operaia di Mutuo Soccorso, nel 1870 aprirono in città le scuole serali per le donne adulte, ancora emarginate dal processo di alfabetizzazione iniziato con l’unità nazionale. L’iniziativa fu molto seguita, tanto che anno dopo anno i corsi continuarono ad essere attivati con un numero sempre crescente di frequentanti.
Le scuole secondarie potevano essere di indirizzo “classico” – cinque anni di ginnasio e tre di liceo, basato su una cultura letteraria e filosofica – e “moderno” – scuole tecniche di durata triennale dopo le elementari e istituti tecnici quadriennali –. A Ferrara erano attivi il Regio Liceo, le Scuole Tecniche “Teodoro Bonati” e l’Istituto Tecnico “Vincenzo Monti” (con sede nell’edificio dell’attuale Tribunale); in provincia la Scuola Tecnica Comunale di Bondeno fu aperta nel 1913, mentre a Cento operava un ginnasio semi-privato.
Il Regio Liceo Statale – in via Borgo dei Leoni, edificio oggi sede del Tribunale – aprì i battenti a Ferrara il 3 dicembre 1860 per 7 professori e 35 studenti, per arrivare, ai primi anni del Novecento, a tre classi e circa 70 studenti. Fu intitolato a Ludovico Ariosto nel 1865 e vi venne aggregato nel 1909 il ginnasio, prima gestito dai Gesuiti sotto il controllo pontificio, poi Ginnasio Comunale pareggiato “Torquato Tasso”.
Importante fu il ruolo giocato dalla Camera di Commercio che, secondo la legge, poteva erogare fondi per l’istruzione, oltre all’assegnazione di borse di studio: il 20 dicembre 1905 nasceva la scuola serale pratica di commercio “Cesare Pirani” (presidente della Camera di Commercio autore della proposta) con lo scopo di formare chi voleva avviarsi al commercio o alle professioni collegate. Per l’ammissione i requisiti erano: aver compiuto i 14 anni, sottoporsi a un esame scritto e orale di italiano e matematica; versare una tassa annua di 5 lire. Le lezioni ebbero inizio il 12 febbraio 1906 in un’aula presso la scuola elementare “Umberto I” messa a disposizione dal Comune, con un programma che prevedeva l’insegnamento di italiano, francese, istituzioni di commercio, geografia commerciale, computisteria, calligrafia. Nello stesso 1906 la Camera promosse un corso gratuito di tedesco e finanziò due borse di studio.
Bibliografia
Anna Quarzi, Alcuni appunti sui progetti e sui contenuti nella scuola ferrarese nel periodo napoleonico, in Ferrara. Riflessi di una rivoluzione, a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Corbo, 1989, pp. 168-175; Giorgio Mantovani, Leopoldo Santini, La Camera di Commercio e l’istruzione professionale, «La Pianura», 1, 2007, pp. 63-69; Angela Ghinato, Il paesaggio, le emergenze, i borghi, la gente: percorsi sul territorio storico, in Gente di terra e di acque. Il Comune di Formignana nel Centenario della fondazione 1909-2009, a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Nuove Carte, 2009, pp. 14-15; Giuseppe Inzerillo, Storia della politica scolastica in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1974; Percorsi di alfabetizzazione tra il Polesine e Ferrara dall’’800 a oggi, mostra documentaria e ciclo di conferenze (Archivio storico comunale di Ferrara, ottobre-novembre 2011).
Il secolo XIX non si apriva, per le sorti delle scienze a Ferrara, nel modo più incoraggiante. Con l’avvento di Napoleone, l’Università ferrarese veniva infatti soppressa (nel 1804) e al suo posto veniva istituito un Liceo, declassando la città nel rango che occupava al tempo dello Stato pontificio nel campo dell’istruzione e formazione del più alto livello. È vero che, caduto Napoleone, l’Università fu subito ricostituita, tanto da aprire i nuovi corsi già il 1° febbraio 1816; ma va considerato che in pieno clima di restaurazione il nuovo governo pontificio non era certamente motivato da intenti favorevoli nei confronti delle scienze sperimentali, e non deve pertanto meravigliare il fatto che lo Studio ferrarese dovette attendere tempi migliori per veder “germogliare”, se non proprio fiorire, una qualche attitudine per le scienze naturali.
Ma quanto realmente si fosse perso con il nuovo secolo rispetto alle tradizioni scientifiche del vecchio regime, cioè relativamente poco, può forse in parte spiegare il declassamento napoleonico. Se si prescinde dalla scienza medica e dall’ingegneria idraulica – che non riguardano l’argomento di questo contributo – Ferrara non era lontanamente paragonabile, nella temperie culturale del tardo ’700, a città sedi di ateneo come Pavia, Padova o Bologna. Prima dell’adozione delle Costituzioni del 1777 l’insegnamento universitario era improntato da un conservatorismo chiuso a tutto ciò che era “scienza sperimentale” e oltretutto soggetto agli interessi potremmo dire “di casta” delle magistrature locali. Era nullo qualsiasi scambio con le comunità scientifiche più vivaci del paese, e i pochi insegnamenti di scienze empiriche erano di carattere applicativo e tenuti da ecclesiastici. È solo con le nuove Costituzioni volute nel 1771 dal cardinale Riminaldi che l’Università si apre ad una concezione più consona alla scienza moderna: e significative sono, in questo senso, l’istituzione della “Camera di cose naturali” (cioè di un primo nucleo di quello che diventerà il Museo di Storia Naturale) e la trasformazione della Cattedra e dell’Orto dei Semplici rispettivamente in Cattedra di Botanica e in Orto Botanico (fatto non meramente nominale, ma significativo come mutamento di approccio alla materia). Ma è certamente ancora poco per parlare di un panorama vivace delle scienze naturali a Ferrara in quel periodo.
In secondo luogo bisogna considerare che il declassamento avvenuto in epoca napoleonica non significò, come si può immaginare, una disattenzione o tanto meno un’avversione nei confronti della scienza sperimentale. Al contrario, almeno per l’Orto Botanico quello napoleonico fu un periodo molto proficuo, che coincise con la nomina a prefetto dell’Orto di Antonio Campana (Ferrara, 1751-1832), avvenuta nel 1803. La sua Farmacopea ferrarese del 1809, ancorché redatta con l’approccio tradizionale di manuale d’uso per medici e farmacisti, è di fatto il primo contributo degno di nota nel campo delle scienze naturali che abbia visto la luce a Ferrara nell’Ottocento. Ma più significativi ancora sono le cure che Campana dedicò all’Orto, di cui è testimone il Catalogo da lui redatto nel 1824, che elenca ben 5.500 specie, e l’attività di erborizzazione che svolse soprattutto sul territorio, di cui resta tuttora, presso l’Orto Botanico, un voluminoso erbario di exsiccata, importante base di conoscenze della flora locale.
Ma fu solo all’indomani dell’Unità che si verificarono i presupposti per cui le scienze naturali poterono avere, anche a Ferrara, qualche reale prospettiva di sviluppo. Un momento fondamentale fu rappresentato, nel 1862, dalla decisione delle autorità di istituire un corso universitario di Storia Naturale, con la relativa cattedra, che fu affidata a Galdino Gardini (Bologna, 1822 - Ferrara, 1907), cioè a colui che era già, a quel tempo, professore di Storia Naturale presso il Regio Liceo ferrarese. Il dare – molto tardivamente, peraltro – dignità autonoma anche in ambito universitario ad un insieme di discipline che in precedenza erano viste solo come funzionali ad altri saperi e sempre in chiave applicativa, era già un cambio di mentalità importante, di portata anche maggiore di quello con cui novant’anni prima si era voluto trasformare la scienza applicativa dei semplici in scienza botanica. Si era deciso, inoltre, che la nuova cattedra istituita a Ferrara dovesse avvalersi di un Gabinetto di Storia Naturale, e che pertanto era necessario scorporare le poche collezioni mineralogiche e zoologiche da quelle, in prevalenza archeologiche e numismatiche, del Museo Civico, in cui erano confluite con la vecchia “Camera di cose naturali” voluta dal Riminaldi.
Un vero Museo di Storia Naturale, in realtà, era ancora tutto da realizzare. E fu in quest’opera di grande impegno e fatica che ebbero modo di rivelarsi le capacità di Galdino Gardini. Nel corso della sua carriera scientifica Gardini pubblicò una trentina di lavori su argomenti disparati, dimostrandosi interessato alle scienze in generale e alla loro divulgazione, pur rivelando al tempo stesso di non essere versato per l’indagine metodica, sorretta da strenua applicazione, dello specialista. Il suo campo di elezione erano comunque le scienze geologiche e mineralogiche, sulle quali presentò una comunicazione al X Congresso degli Scienziati Italiani tenutosi a Siena nel 1862. Furono, tali congressi, una importante e precoce attestazione di vitalità del pensiero positivista in Italia, ed è significativo che Gardini vi partecipasse attivamente. Ancora in età matura, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico 1887-1888 dell’Ateneo ferrarese, egli tenne una conferenza su I nostri progenitori con la quale sottolineò la sua adesione alla teoria darwiniana e la sua fiducia nel ruolo della scienza come fattore del progresso umano.
Gardini non aveva in realtà la tempra del ricercatore quanto quella di imprenditore, seppure in un ambito culturale e scientifico. Fu grazie a quelle doti “manageriali” e di iniziativa, come abbiamo detto, che nel giro di soli dieci anni Ferrara poté inaugurare, il 26 maggio del 1872, nella sede dell’ex convento delle Martiri di via Roversella, il proprio Museo di Storia Naturale. Di quegli anni abbiamo testimonianza di intensi contatti tra Ferrara, nella persona del Gardini, e i maggiori studiosi – perlomeno italiani – nelle varie discipline delle scienze naturali: come Luigi Bombicci, per la mineralogia, e Luigi Pigorini per la preistoria. La vera originalità dell’operato del Gardini, quella sua “managerialità” ante litteram con cui diede un formidabile impulso alla curiosità per le scienze naturali nei cittadini, fu però «l’impegno sostenuto nell’organizzare e dirigere il collezionismo privato secondo precisi criteri scientifici. Si passò, cioè, da una fase in cui le raccolte si formavano sulla base degli interessi e delle competenze dei singoli, ad un collezionismo mediato dalle esigenze e dai criteri del Museo» (Filippini, Masini). Con raro intuito organizzativo, Gardini pensò soprattutto ai ferraresi residenti in altri continenti, o che per ragioni di lavoro (o di personali disponibilità) avevano modo di viaggiare in terre anche molto lontane. Per questi potenziali donatori d’eccezione Gardini preparò anzi una lettera circolare in cui invitava il destinatario a voler «mettere a disposizione del Museo […] qualcheduno di quegli oggetti minerali, vegetali, animali, fossili, etnografici ecc. che per avventura […] Le venisse fatto d’ora in poi di raccogliere», e la corredò pure di specifiche Istruzioni generali per le raccolte di storia naturale (1868), che sono oggi un documento di grande interesse documentario.
È il caso di notare che fu in virtù di quelle doti e di quell’impegno che il Museo di Storia Naturale della nostra città conserva tuttora un ricco patrimonio di materiali zoologici, mineralogici e paleontologici provenienti da tutti i continenti, ciò che è relativamente normale per musei di grandi città ma piuttosto eccezionale per quelli di ambito più locale. Ma chi ne furono i principali donatori? Se nel caso, per esempio, dei musei di Genova o di Milano i nomi dei principali donatori corrispondono spesso ad importanti personalità del mondo scientifico e della ricerca (che allora si faceva molto sul campo e in terre lontane), non si può dire altrettanto per quelli del Museo di Ferrara. Ma seppur di più modesta e locale levatura, quei nomi “chiedono” per così dire di essere riscoperti: furono loro, in definitiva, le figure di maggiore spicco nel panorama oggettivamente piuttosto depresso delle scienze naturali ferraresi di quel periodo.
Angelo Conti (Ferrara, 1812-1876) fu il solo, tra quei donatori, a non aver mai lasciato il suolo italiano, e nonostante si sia distinto soprattutto in campo artistico come scultore (fu allievo di Thorvaldsen a Roma) fu anche l’unico, per la verità, ad essere in possesso di specifiche competenze in campo naturalistico. Durante la sua lunga permanenza a Roma, Conti si dedicò con applicazione e competenza allo studio dei fossili pleistocenici di Monte Mario; su di essi pubblicò nel 1864 la memoria Il Monte Mario ed i suoi fossili subappenninici, in cui descrisse diverse specie nuove per la scienza. Un nome di rilievo, seppure in ambito medico e quindi solo marginalmente attinente l’argomento, fu quello di Elia Rossi (Ferrara, 1816 - Il Cairo, 1891). Di famiglia israelita, non appena laureatosi in Medicina si recò in Egitto per contribuire alla lotta contro un’epidemia di peste, nella quale acquisì grandi meriti fino a diventare il medico personale del pascià. Oltre a pubblicare una Storia della peste e le Note sul cholera morbus, ci interessa per essere stato l’autore del volume La Nubia e il Sudan (1858), nel quale si propose di illustrare «la geografia, geologia, idrografia, atmosferologia e morfologia» di quei paesi. Cugino di Elia Rossi, Angelo Castelbolognesi (Ferrara, 1836 - Il Cairo, 1874) non ebbe una formazione scientifica e fu infatti agente di commercio, ma va ricordato in quanto unico vero esploratore tra i donatori del Museo e per l’interesse che nutrì per la storia naturale e le popolazioni dell’Alto Nilo, di cui è un vivido resoconto il suo Viaggio al Fiume delle Gazzelle, pubblicato originariamente in francese nel 1862. Ben più noto di Castelbolognesi è però un altro esploratore ferrarese – che non fu tra i donatori del nostro Museo – e cioè Gustavo Bianchi (Ferrara, 1845 - Dancalia, 1884). Le sue esplorazioni nel Corno d’Africa si intrecciano drammaticamente con quelle di altri esploratori italiani ed ebbero un tragico epilogo nell’ottobre 1884 in Dancalia, dove fu trucidato insieme al centese Gherardo Monari e al piemontese Cesare Diana. Nello stesso anno della sua morte fu pubblicato il suo volume Alla terra dei Galla, sul viaggio da lui compiuto nel biennio 1879-80. Postumo, nel 1887, uscì il suo volume di memorie Esplorazioni in Africa.
Anche Bianchi, peraltro, non fu propriamente un naturalista né uno scienziato, come è un fatto che, al pari di molti nomi già ricordati, fu ferrarese solo di nascita. A maggior ragione è doveroso ricordare allora un altro ferrarese che si distinse lavorando sempre lontano dalla città natale, il quale invece fu un importante naturalista – seppure ingegnere come formazione –, e cioè il botanico Giovanni Briosi (Ferrara, 1846 - Pavia, 1919). Già distintosi in campo agronomico e affermatosi come direttore di diverse Stazioni di Chimica Agraria (Palermo, Roma), la sua più importante attività scientifica in campo botanico si svolse a cavallo dei due secoli a Pavia, dove fu dal 1883 fino alla morte e dove diede vita alla gloriosa “scuola botanica” di quella città.
FP, 2011
Bibliografia
Roberta Filippini, Gloria Masini, Origini e storia ottocentesca del Museo di Storia Naturale di Ferrara, «Pubblicazioni del Civico Museo di Storia Naturale di Ferrara», 9, 1991, pp. 1-57; Fabrizio Negrini, Renato Gerdol, Orto Botanico, in Verso un museo delle scienze, a cura di Carmela Loriga, Ferrara, «Annali dell’Università di Ferrara», volume speciale, 2001, pp. 9-14; Luigi Pepe, Storia dell’Università di Ferrara, ivi, pp. 1-8.
Durante il XIX secolo anche a Ferrara, come in qualsiasi altra città italiana, buona parte della vita culturale e mondana ruotava attorno al teatro, soprattutto durante la stagione d’opera, lo spettacolo più complesso e rappresentativo. In città vi erano almeno quattro teatri in grado di allestire melodrammi (ma ne funzionarono al massimo tre contemporaneamente): il Bonacossi, inaugurato nel lontano 1662; il Comunale, che aveva aperto i battenti in epoca rivoluzionaria, nel 1798; lo Scroffa, ormai in declino (la sala venne smantellata nel 1810); il Tosi-Borghi, aperto nel 1857 e attivo fino al 1912, anno in cui cambierà nome e aspetto. Dediti a varie forme di spettacolo, tutti però trovavano nell’opera in musica il loro culmine: con il melodramma infatti si apriva ufficialmente la principale stagione teatrale (quella del Carnevale che iniziava il 26 dicembre), e sempre melodrammi si rappresentavano durante la stagione di Primavera che a Ferrara coincideva con
I cartelloni (soprattutto al Comunale) prevedevano mediamente tre opere per ogni stagione, per un numero complessivo di una trentina di repliche: in pratica il teatro apriva quattro o cinque volte ogni settimana, per un pubblico che era in gran parte costante (soprattutto nei palchi, occupati dai rispettivi proprietari). Ogni opera veniva rappresentata per almeno una decina di volte consecutive (ma il numero variava in proporzione al successo ottenuto): verso la fine della stagione invece i titoli si alternavano sempre più frequentemente fino a culminare nelle “beneficiate”, serate speciali il cui introito veniva in parte offerto ad un interprete (di solito un cantante): in quei casi era prassi diffusa mettere in scena anche brani o addirittura atti di opere diverse – un fenomeno questo che al Tosi-Borghi raggiunse casi talmente eccessivi da venire biasimato dai cronisti locali. Le opere presentate erano solitamente di repertorio, e gli autori quelli di maggior successo a livello nazionale: Rossini nei primi decenni, Bellini e Donizetti nella fase centrale, Verdi e poi Puccini nella seconda metà del secolo. Ad essi però vanno aggiunti quei compositori, oggi poco eseguiti, ma allora noti a chiunque: Mayr, Mercadante, Paer, Ricci, i Fioravanti, Meyerbeer, solo per citarne alcuni. Come in qualsiasi altro teatro di provincia, molto rari furono invece i casi di “prime” assolute: nel 1812 l’allora ancora poco conosciuto Gioachino Rossini scrisse per Ferrara Ciro in Babilonia, un “dramma con cori” su testo del conte ferrarese Francesco Aventi, amico del compositore. Durante la stagione successiva – quaresima 1813 – il palcoscenico del Comunale vide la messa in scena del Tancredi rossiniano con un finale diverso, trasformato da lieto in tragico, come esigeva la fonte letteraria di ispirazione. Un paio d’anni più tardi, la coppia Rossini-Aventi produsse una “prima” di minor impegno: la cantata con cori La gratitudine, composta per la cantante ferrarese Alessandra Balboni. Un ultimo caso si ebbe molti anni più tardi: nel 1892 Puccini mise in scena la nuova versione in tre atti di Edgar, con lo scopo di snellire la precedente, in quattro, composta nel 1889 per
Sul fronte della musica sacra, assai numerose erano le chiese in cui si poteva assistere a liturgie con accompagnamenti musicali, soprattutto durante il periodo in cui Ferrara si trovava ancora sotto il dominio dello Stato pontificio. Oltre all’attivissima Cattedrale, che aveva una propria cappella di musicisti e cantori e che era il fulcro creativo ed esecutivo, si faceva musica anche nelle principali chiese cittadine: San Domenico, San Benedetto, Santo Stefano, il Gesù, il Suffragio, le Stimmate, solo per citarne alcune. Ad esse vanno aggiunte le associazioni laiche con fini corporativi o caritatevoli (congregazioni, confraternite, unioni artigianali o commerciali) che sovvenzionavano la partecipazione di cantori o bandisti, soprattutto alle messe di suffragio. Gli esecutori erano di solito musicisti locali e gli stessi ecclesiastici che avevano anche il compito di educare le nuove generazioni. Le occasioni di festa erano varie: il santo patrono di ogni comunità, in primis, ma anche tutte le festività ufficiali del calendario liturgico, cui si aggiungevano le celebrazioni occasionali (funerali, ringraziamenti, visite pastorali, ecc.), ognuna con un diverso grado di solennità. Il repertorio era solitamente costituito da brani di musicisti di fama alternati a compositori noti quasi esclusivamente a livello locale. Tra questi ultimi spicca soprattutto la figura di Brizio Petrucci, fecondo autore di musica sacra – conservata perlopiù nell’Archivio Capitolare del Duomo di Ferrara di cui egli stesso fu maestro di cappella dal 1784 alla morte (1828) – tanto stimato in città da meritare il privilegio di comparire tra i ferraresi illustri nei ritratti marmorei del palazzo di San Crispino. Dopo il ridimensionamento delle chiese in seguito all’annessione del territorio ferrarese allo Stato italiano, si verificarono cambiamenti nel repertorio dovuti alla diffusione del movimento ceciliano che a Ferrara ebbe in don Ettore Ravegnani il suo maggior propulsore. Abbandonati gli stili pseudo-operistici, in chiesa tornarono a riecheggiare le melodie gregoriane e le costruzioni polifoniche di stampo cinquecentesco (ad esempio di Palestrina), accanto alle messe di nuova composizione (soprattutto quelle di Lorenzo Perosi): lo stesso Ravegnani, che fu maestro di cappella in Duomo e direttore della Schola cantorum del Seminario, fu attento promotore di eventi musicali, spesso impegnato anche sul fronte educativo e di ricerca.
Oltre che nei teatri e nelle chiese, la vita musicale cittadina si organizzò anche ‘dal basso’ in istituzioni specifiche nate proprio durante il XIX secolo. Nel 1818 fu fondata l’Accademia Filarmonica, inaugurata solennemente il 17 maggio con un concerto diretto da Rossini tenutosi nel palazzo oggi sede del Rettorato dell’Università. Promotore ne era stato tra gli altri il già citato conte Aventi; primo direttore fu Gaetano Zocca, che da pochissimo tempo ricopriva anche la carica di primo violino direttore del teatro Comunale (la terrà fino alla metà degli anni Trenta). L’Accademia non ebbe però vita facile: più volte soppressa, risorse sempre fino alla definitiva fusione nel 1866 con l’Accademia filodrammatica: la nuova Accademia filarmonico-drammatica si estinse poi nel 1882. Tra i vari obblighi, i soci dell’Accademia contribuivano alla formazione di un’orchestra (mista: dilettanti e professionisti) chiamata a svolgere trattenimenti annuali. Contestualmente il Comune lavorava alla costituzione di scuole di musica il cui primo scopo doveva essere quello di fornire personale al teatro Comunale e alla banda, nata sin dalla fine del ’700 come organo militare, e trasformata in istituzione civile nel 1849. Come racconta Carlo Righini, che in epoca fascista vi svolse il duplice ruolo di insegnante e di membro della sovrintendenza, la nascita di un vero Liceo musicale a Ferrara fu piuttosto lunga e travagliata: le prime richieste risalgono agli anni iniziali dell’Ottocento, ma fu nei decenni centrali che si fecero sostanziali passi in avanti. Istituita nel 1868 una commissione ad hoc per lo studio delle possibili modalità di apertura, nel gennaio del 1870 il Liceo musicale aprì ufficialmente i battenti, sotto la direzione di Timoteo Pasini (1828-1888) coadiuvato da nove insegnanti, tutti prime parti dell’orchestra e della banda cittadine. Gli insegnamenti svolti dovevano soddisfare le richieste di queste due istituzioni: archi, fiati, canto e teoria, solfeggio. Capace di accogliere un’ottantina di studenti, il Liceo ebbe inizialmente sede in via Savonarola; nel 1885 si spostò a palazzo Schifanoia per poi traslocare in via Roversella (dal 1893: l’odierno edificio del Conservatorio e l’annesso Auditorium furono costruiti solo in epoca fascista, mentre durante la guerra fu pareggiato ai “regi Conservatori” e divenne statale solo negli anni Settanta del Novecento).
Con l’apertura del Liceo musicale si incrementò l’offerta di concerti cameristici: all’inizio dell’estate, infatti, gli studenti davano un saggio dei loro progressi nello studio – o in teatro o in qualche altra sala cittadina – un momento molto seguito dalla cittadinanza. Questi eventi si andavano ad aggiungere ad altri simili, sempre a carattere occasionale: accademie e beneficiate organizzate per raccolte di fondi spesso in favore di comunità bisognose (alluvionati, terremotati) o di società di mutuo soccorso. Solo verso gli ultimi anni del secolo si cominciò ad organizzare concerti fini a se stessi (mai strutturati in stagioni, però) cui venivano invitati concertisti stranieri, ma anche locali, come
Legate al Liceo sono anche due delle figure più note del panorama musicale ferrarese tra fine e inizio di secolo: Vittore Veneziani e Gino Neri, oggi ancora molto conosciuti grazie anche alle istituzioni che ne portano il nome (rispettivamente l’Accademia corale “Vittore Veneziani” e l’Orchestra a plettro “Gino Neri”). Docente di canto corale il primo, semplice studente il secondo, furono successivamente entrambi direttori del Circolo mandolinistico “Regina Margherita” inaugurato nel 1898 (a testimonianza di quanto antico sia l’interesse dei ferraresi verso gli strumenti a plettro). Veneziani (1878-1958) fu prevalentemente direttore di coro e compositore: tutti e quattro i suoi melologhi furono eseguiti a Ferrara (rispettivamente
Nel terzo centenario della prima pubblicazione a stampa di Girolamo Frescobaldi (Anversa, 1608), Ferrara ospitò il congresso fondativo della Associazione dei Musicologi Italiani (31 maggio - 2 giugno 1908), su impulso di Guido Gasperini, che ne divenne anche il primo presidente. Grazie ad essa, prese il via un importante processo di catalogazione di tutti i beni musicali contenuti nelle biblioteche italiane.
MCB, 2012
(Maria Chiara Bertieri)
Bibliografia
Carlo Righini, Il liceo musicale “Gerolamo Frescobaldi” di Ferrara, Firenze, Le Monnier, 1941; Paolo Fabbri, Il conte Aventi, Rossini e Ferrara, «Bollettino del centro rossiniano di studi», XXXIV, 1994, pp. 91-157; I teatri di Ferrara. Il Comunale, a cura di Paolo Fabbri e Maria Chiara Bertieri, Lucca, LIM, 2004, (2 tomi); Paolo Fabbri, Maria Chiara Bertieri, Il salterio e la cetra, Reggio Emilia, Diabasis, 2004; Maria Chiara Bertieri, I teatri di Ferrara. Il Tosi-Borghi (1857-1912), Lucca, LIM, 2012.
Alla fine del Settecento le raccolte pubbliche d’antichità a Ferrara erano ospitate in palazzo Paradiso, storica sede dell’Università: il Lapidario nel cortile d’onore dal 1735, il Museo numismatico e archeologico in due stanze al piano nobile dal 1758. Qui avevano trovato posto anche l’Orto botanico (1729), il nuovo Teatro anatomico (1732), l’Accademia del disegno di figura e architettura (1736) e la Biblioteca (1746-59). Dal 1771 la stretta relazione fra attività didattica universitaria e musei era stata rafforzata dalla riforma promossa e guidata da Roma dal prelato ferrarese Giovan Maria Riminaldi, che, grazie a un’accorta strategia di acquisti e di donazioni aveva accresciuto in modo considerevole le raccolte del lapidario e del museo, rinnovandone la fisionomia, che si era in tal modo allontanata dal modello della raccolta antiquaria cara agli eruditi cittadini per aderire ai nuovi principi archeologici propugnati dal neoclassicismo romano. L’ambiente universitario ferrarese oppose tuttavia una sorda resistenza all’attività riformatrice di Riminaldi, tanto che dal 1789, anno della morte del cardinale, fino al 1811, il museo, lasciato privo di direzione e custodia, rimase quasi sempre chiuso al pubblico.
Paradossalmente, ad allentare il legame d’impronta illuminista fra attività didattica e museo furono le disposizioni del governo napoleonico riguardanti il declassamento dell’università ferrarese a liceo e l’accentramento dell’educazione artistica superiore nelle sole accademie di Milano e Bologna. Fu probabilmente per reagire a questa situazione che nel 1805 il direttore dello Studio ferrarese, il fisico Antonio Campana, appoggiò l’iniziativa del docente di pittura Giuseppe Santi di allestire una pubblica pinacoteca raccogliendo nell’aula di Sant’Agnese, ex oratorio universitario, una selezione di dipinti provenienti da istituti religiosi soppressi. L’esperimento, probabilmente parte di un più ampio progetto di musealizzazione del patrimonio pittorico delle chiese cittadine, dovette tuttavia essere interrotto per l’opposizione delle autorità centrali. La Civica Pinacoteca venne dunque istituita ufficialmente solo nel 1836, in tutt’altro clima culturale, quando ormai molte opere erano uscite dalle mura cittadine.
Sorta con lo scopo di presentare le opere degli antichi maestri “in miglior lume e alla portata di ogni studioso amatore o conoscitore, [così che] servir potessero ad un tempo e di esemplari per i più giovani, e di testimonianza del valore della nostra scuola, e di onore durevole alla città stessa” (F. Avventi, Il servitore di piazza, Ferrara 1838), la pinacoteca non ebbe dunque origine direttamente dalle soppressioni di età napoleonica, né in seguito le riuscì di acquisire le opere più significative delle collezioni private che da quegli eventi erano sorte e che andarono disperse senza rimedio nel corso del secolo. La quadreria civica si accrebbe invece prelevando i dipinti dagli altari delle chiese cittadine per sostituirli con copie, avvalendosi dei poteri conferiti alle Commissioni municipali di Belle Arti dalla recente legislazione pontificia in materia di tutela del patrimonio artistico. Azioni simili si protrassero per tutto il secolo e comportarono lo stacco di affreschi e la rimozione di intere serie di dipinti d’altare, come nei casi delle chiese di Santa Maria in Vado (fin dal 1834), Sant’Andrea (1847), San Francesco (1865) e San Paolo (1877).
Al momento della sua istituzione la Pinacoteca aveva sede in palazzo Municipale, dove erano stati raccolti una quarantina di dipinti, per la maggior parte provenienti da chiese cittadine, ma già nel 1842 essa venne trasferita nelle più capienti e salubri sale di palazzo dei Diamanti, appena acquistato dal Comune dalla famiglia Villa per farne la sede del nuovo Ateneo Civico. Qui la “Patria Pinacoteca” trovò posto accanto alla Scuola d’ornato, all’Accademia di scienze e lettere e a quella medica, alla Scuola della Società agraria con l’orto botanico, alla Scuola veterinaria con la clinica animale. L’impronta pragmatica conferita al nuovo complesso risulta evidente dalla presenza di diversi istituti tecnico-pratici e dalla sostituzione dell’accademia del nudo con una Scuola d’ornato orientata alla formazione di artigiani piuttosto che di artisti. Fu probabilmente questa impostazione la ragione di fondo delle crescenti difficoltà di gestione cui andò incontro la Pinacoteca, man mano che essa, nella seconda metà del secolo, perse l’originaria funzione educativa per rivolgersi al pubblico ‘colto’ degli intenditori e dei turisti, sostituendosi ai musei di palazzo Paradiso come meta privilegiata.
Le requisizioni napoleoniche del 1796 e del 1805 colpirono Cento ben più di Ferrara, per via del grande favore che le opere del Guercino avevano sempre goduto in Francia. I dipinti recuperati da Parigi nel 1815 furono dapprima esposti nell’oratorio del SS. Rosario, poi nel settecentesco palazzo del Monte di Pietà, adibito a Pinacoteca Civica dal 1839. Nei decenni successivi la quadreria centese incrementò le sue collezioni non solo a spese delle chiese cittadine ma anche grazie a donazioni e acquisti da collezioni private, che dimostrano come la Pinacoteca fosse presto riuscita a divenire il centro di riferimento per le manifestazioni d’orgoglio civico, che avevano nella figura del Guercino la loro bandiera. La prima guida del museo fu pubblicata nel 1861, un anno prima dell’inaugurazione in piazza del monumento al maestro centese scolpito dal concittadino Stefano Galletti; la seconda fu impressa nel 1891, in occasione del terzo centenario della nascita del Barbieri; entrambe documentano, assieme all’accrescersi delle collezioni, l’approfondirsi delle conoscenze sulla scuola pittorica locale.
Anche ad Argenta le soppressioni napoleoniche costarono alla città la perdita di gran parte degli arredi sacri, fra cui due notevoli pale d’altare del Garofalo. Per arginare il degrado del patrimonio artistico locale, reso più acuto dalle leggi soppressive del 1866, il sindaco Giuseppe Vandini promosse il restauro delle maggiori chiese cittadine e nel 1869 fece raccogliere in Municipio i migliori dipinti, costituendo così il primo nucleo della futura Pinacoteca Comunale.
Tornando a Ferrara, dal 1825 i musei di palazzo Paradiso furono risistemati e si arricchirono di nuove donazioni sotto la direzione del bibliotecario Giuseppe Antonelli. Dopo il 1850 giunsero al museo reperti etnografici e naturalistici raccolti in Egitto da viaggiatori ferraresi: il marchese Massimiliano Strozzi Sacrati, il medico Elia Rossi e l’agente commerciale Angelo Castelbolognesi. Analogamente a quanto avvenne agli altri musei di storia patria in Italia – si pensi al caso del Correr a Venezia – nella seconda metà del secolo, anche le raccolte ferraresi persero il loro carattere enciclopedico unitario per venire suddivise in nuclei disciplinari omogenei, ordinati secondo più razionali principi classificatori. Fin dal 1853 diverse opere del fondo Riminaldi (busti, bassorilievi, ritratti di uomini illustri) entrarono a far parte dell’arredo della Pinacoteca di palazzo dei Diamanti. Nel 1869 l’intera sezione naturalistica venne trasferita nell’ex convento delle Martiri a formare un museo autonomo, istituito in occasione della fondazione della Scuola di scienze naturali della Libera Università ferrarese (1862). Ne fu direttore Galdino Gardini, che nel trentennio successivo accrebbe e specializzò le collezioni museali favorendo le donazioni da parte di collezionisti privati. Giunsero così in museo la raccolta di fossili del bacino di Monte Mario a Roma donata dallo scultore Angelo Conti e i preziosi repertori di esemplari zoologici, geologici ed etnografici spediti dall’America del Sud dai concittadini Enea Cavalieri e Angelo Fiorini.
Infine, nel 1898 il gabinetto archeologico e quello numismatico furono trasferiti – non senza opposizioni – da palazzo Paradiso a palazzo Schifanoia, dove furono posti nella sala degli Stucchi e in quella delle Imprese, a fianco del salone d’onore ornato dagli affreschi quattrocenteschi riscoperti fra il 1820 e il 1840, a confronto coi quali si collocarono in apposite bacheche i più bei codici miniati della stessa epoca, tolti dalla biblioteca. Per volontà del sindaco Pietro Niccolini, del direttore della biblioteca Giuseppe Agnelli e del grande storico dell’arte Adolfo Venturi, la delizia di Schifanoia cominciava così a uscire dallo stato di decadenza in cui era caduta dopo la Devoluzione per divenire il museo del Rinascimento ferrarese. A palazzo Paradiso rimase il solo Lapidario, che aveva mantenuto la sua forma settecentesca e che nel Novecento sarebbe stato smembrato fra la sezione romana (oggi esposta nell’ex chiesa di Santa Liberata) e quella medievale (al Museo della Cattedrale e in Casa Romei).
Nel frattempo, fra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento, la Pinacoteca di palazzo dei Diamanti si era trovata al centro di continue polemiche riguardanti i suoi criteri di ordinamento e i restauri condotti sulle opere. Costruita attorno al vecchio mito purista e neoguelfo del Garofalo, “Raffaello ferrarese”, essa contava allora circa 180 dipinti, esposti in una decina di sale, senza alcun ordinamento cronologico o per scuola, con una netta prevalenza di pale d’altare del Cinque e del Seicento. A queste si aggiungevano due stanze dedicate agli artisti contemporanei, con l’intenzione di dimostrare la vitalità della scuola locale.
Nel 1903 fu aperto in palazzo dei Diamanti anche il Museo del Risorgimento, la cui raccolta di cimeli e documenti si era formata per iniziativa della Deputazione di storia patria in occasione dell’Esposizione nazionale di Torino del 1883 ed era in seguito stata donata dai proprietari al Municipio. Abbandonato ben presto a se stesso, il nuovo museo contribuì a trasmettere quell’impressione di eterogeneità delle raccolte, carenza di spazi e generale incuria denunciata dai visitatori di palazzo dei Diamanti. Tuttavia, il restauro dell’edificio e la riorganizzazione degli spazi museali ebbero luogo solamente nel 1933, in occasione della grande esposizione che rese celebre la scuola ferrarese del Rinascimento, dopo che nel 1912 il Comune aveva tentato invano la “regificazione” della Pinacoteca per liberarsi degli oneri di gestione (il passaggio allo Stato sarebbe infine avvenuto nel 1956).
Nello stesso 1898 in cui si diede avvio alla riqualificazione di palazzo Schifanoia, un altro significativo esempio di dimora gentilizia del Quattrocento, casa Romei, entrata a far parte del demanio statale nel 1866 come pertinenza del convento del Corpus Domini, fu consegnata all’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti (futura Soprintendenza), che ne cominciò il restauro mettendo fine a un periodo di degrado e usi impropri. Lo stesso avvenne nel 1906 per la palazzina tardorinascimentale di Marfisa d’Este, affidata dal Municipio alle cure della “Ferrariae Decus”, una società sorta con lo scopo di tutelare il patrimonio monumentale cittadino (vedi Istituzioni culturali). La palazzina sarebbe divenuta sede di un museo nel 1937, a conclusione del processo di radicale rinnovamento del sistema museale cittadino realizzato fra le due guerre, le cui premesse erano state poste nei decenni precedenti.
MT, 2011
Bibliografia
Il Museo Civico in Ferrara. Donazioni e restauri, catalogo della mostra (Ferrara, Chiesa di San Romano, aprile - luglio 1985), Firenze, Centro Di, 1985; La Pinacoteca Civica di Cento. Guida illustrata, a cura di Fausto Gozzi, Bologna, Nuova Alfa, 1987; Ranieri Varese, Un progetto “giacobino”: la Galleria dell’Accademia di Ferrara, in Ferrara. Riflessi di una rivoluzione, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo Paradiso, 11 novembre - 31 dicembre 1989), a cura di Delfina Tromboni, Ferrara, Corbo, 1989, pp. 148-67; Anna Maria Visser Travagli, Palazzo Schifanoia e palazzina Marfisa a Ferrara, Milano, Electa, 1991; Jadranka Bentini, La Pinacoteca Nazionale di Ferrara: origini, acquisizioni, restauri, in La Pinacoteca Nazionale di Ferrara. Catalogo generale, a cura di Jadranka Bentini, Bologna,Nuova Alfa, 1992, pp. XI-XXIV.