Lo studio dell’infanzia ferrarese nel corso dell’Ottocento implica un confronto continuo e approfondito con gli aspetti demografici, economici e sociali che hanno caratterizzato la storia dei differenti contesti familiari presenti nella popolazione locale.
Nel territorio agricolo della provincia, dove coesistevano strutture domestiche e parentali diverse a seconda dei rapporti di produzione e delle modalità di insediamento, i bambini dei boari vivevano prevalentemente in ambiti domestici complessi, dalle dimensioni più estese rispetto alle famiglie dei mezzadri. Le condizioni di vita di coloro che nascevano in tali realtà erano piuttosto disagiate; i figli del popolo delle campagne vivevano secondo modelli tradizionali impostati su rapporti gerarchici e, già all’età di quattro o cinque anni, erano occupati in diverse attività di lavoro nei campi. Frequenti, poi, i problemi legati alla sottoalimentazione e alla presenza di malattie endemiche che conducevano a un’elevata mortalità.
In un ambiente familiare dominato dalla figura paterna, si delineava un rapporto autoritario che legava il bambino al mondo degli adulti, nel quadro di un’infanzia spesso vissuta a vagabondare per strada, dove sempre più concreto si faceva un destino di accattonaggio per rimediare allo stato di indigenza. Non rari erano, poi, i casi di sfruttamento, violenza (nelle contingenze più estreme, l’infanticidio era praticato come mezzo di controllo demografico) e abbandono temporaneo o definitivo. In un contesto economico imperniato sulle attività agricole, la vita infantile era ancorata a modelli preindustriali tipici delle società tradizionali e a una cultura arcaica; i dati registrati dalle inchieste agrarie degli anni Ottanta confermano la permanenza molto diffusa del lavoro infantile nei campi, dove i bambini erano impiegati nella raccolta delle erbe, nel trasporto dei concimi e dei legnami e nella custodia del bestiame. La fatica, la malnutrizione, l’autoritarismo familiare e la progressiva “adultizzazione”, rendevano assai breve e difficile l’infanzia, in parte riscattata da momenti ludici e di partecipazione alla vita della collettività dei piccoli centri del contado.
La dimensione comunitaria venne, in realtà, sempre meno, specialmente di fronte alla crescita della società borghese e delle nuove strutture economiche e di classe che si affermarono a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, con il decollo industriale che coinvolse l’Italia centro-settentrionale e che si sviluppò, seppur tardivamente e con fatica, anche nel Ferrarese. Le condizioni di vita dei bambini-adolescenti, prevalentemente maschi, delle famiglie del proletariato industriale erano inscritte in un sistema coercitivo ancora più severo, soprattutto in seguito al disfacimento del regime produttivo artigianale a vantaggio dell’affermazione dell’industria manifatturiera. La disciplina di fabbrica, in maniera più sistematica rispetto a quanto poteva avvenire nella bottega, presupponeva orari di lavoro massacranti per i giovani lavoratori coinvolti, al pari dei loro padri, nei mutamenti introdotti dalla meccanizzazione della produzione agricola e dal potenziamento delle attività manifatturiere in direzione sempre più industriale. Si trattava di un’infanzia vissuta in condizioni di marginalità rispetto alla famiglia e alla società, sulla quale venivano applicati interventi correzionali contro eventuali pericolose devianze e internamenti da parte delle classi dominanti, che si adoperavano per “formare” sudditi laboriosi e produttivi mediante una severa disciplina.
Le condizioni di miseria di questi giovanissimi operai iniziarono ad alleviarsi agli inizi del XX secolo, sull’onda della nuova sensibilità delle classi dirigenti nei confronti della questione sociale, per la quale si battevano intellettuali e rappresentanti del partito socialista; solamente con il dinamismo economico e sociale inaugurato dall’età giolittiana si instaurò una fase di alleggerimento delle condizioni di vita dell’infanzia delle classi popolari, testimoniato da una diminuzione del tasso di mortalità infantile, dall’incremento della scolarizzazione e dalla legislazione per la tutela dei bambini dallo sfruttamento lavorativo.
Differenti erano gli anni dell’infanzia vissuti dai figli delle classi borghesi che conducevano un’esistenza estremamente privatizzata all’interno della famiglia, della quale assimilavano regole e valori attraverso una sistematica organizzazione di controlli e gratificazioni. Questi bambini vivevano in condizioni di subalternità rispetto a genitori, precettori e maestri, dai quali erano costantemente seguiti e sorvegliati, entro un rigido apparato istituzionale che si esplicava nella famiglia e nella scuola, dove essi crescevano in un ambiente protettivo e amorevole, ma al tempo stesso imperniato su una rigida sorveglianza morale perché potessero conformarsi a una perbenista ideologia di obbedienza e rispetto.
L’infanzia borghese se, da un lato, non condivideva le critiche condizioni esistenziali dei figli delle classi popolari, dall’altro era anche piuttosto estranea al sistema caritatevole-assistenziale su cui si delineava invece, spesso, il destino di bambini e bambine di bassa estrazione sociale. Già sotto la dominazione francese, e ancor più in epoca pontificia, infatti, le classi dirigenti laiche ed ecclesiastiche si adoperavano per attivare in città un notevole numero di orfanotrofi, conservatori, istituti per gli esposti, case per fanciulle “pericolanti” (a rischio di perdere l’illibatezza) o “pericolate”, per accogliere bambini e adolescenti in difficoltà e salvare le anime pure di orfani e zitelle dai rischi di accattonaggio, delinquenza e vagabondaggio. I luoghi nei quali venivano accolti non erano esclusivamente istituti di ricovero, ma col tempo si delineavano nella potenziale valenza educativa e sociale che trovò, soprattutto negli asili, la più evidente forma di manifestazione. L’opera di benefica assistenza dalla quale erano coinvolti si esplicava, per i maschi, negli orfanotrofi, dove, attraverso una prolungata e severa disciplina, venivano formati per diventare una risorsa per i bisogni produttivi delle attività dell’economia ferrarese, rifornendo, come garzoni a buon mercato, le botteghe artigiane cittadine. Diversi i motivi per i quali i bambini maschi venivano ricoverati: dalla morte dei genitori all’arresto per accattonaggio, dalla nascita illegittima alla decisione parentale di affidamento all’istituto; qualunque fosse la ragione, la permanenza era comunque limitata nel tempo e mai oltrepassava la maggiore età, mentre il lavoro rappresentava, al contempo, il mezzo pedagogico e il fine di questa reclusione. Diversamente, le bambine erano più a lungo trattenute nei conservatori, dove dovevano innanzitutto formarsi per diventare, una volta cresciute, mogli e madri operose e virtuose.
Nell’ambito delle iniziative assistenziali rivolte all’infanzia ferrarese, un evento fondamentale fu l’istituzione degli asili che nacquero in città alla metà degli anni Quaranta come frutto dell’iniziativa caritatevole privata. Questa, in un’ottica non completamente scevra da contaminazioni imprenditoriali di profitto, nonché da un manifesto paternalismo che riguardava molte opere di beneficenza dell’epoca, si poneva come obiettivo l’intervento assistenziale dei bambini più poveri per attuare un’importante esperienza educativa. Due esponenti della borghesia ferrarese, il dottor Grillenzoni e l’avvocato Petrucci, furono i promotori del primo asilo cittadino che sorse, dopo diverse difficoltà di reperimento dei locali e contrasti politici con le autorità pontificie, nel 1847 presso il convento di Santa Maria in Vado. L’impegno didattico per coloro che dovevano diventare “buoni cittadini e buoni cristiani”, aveva come obiettivo, insieme all’insegnamento religioso, un’educazione morale basata sull’operosità, la sottomissione, la compassione e il rispetto delle leggi contro il pericolo di ogni sommovimento sociale.
Nelle campagne del Basso Ferrarese, dove la popolazione visse a lungo in condizioni di indigenza e in un dilagante analfabetismo, la nascita degli asili avvenne in ritardo, principalmente nei primi anni del XX secolo. In una terra largamente coperta dalle valli, alle prese con un sostentamento legato alle attività di caccia e pesca, i genitori non reputavano l’istruzione un elemento necessario alla crescita personale e sociale dei figli, per i quali era ritenuto sufficiente il contatto con l’ambiente naturale e con gli altri coetanei membri di una famiglia patriarcale che li avviava precocemente al lavoro. Solamente con l’avvento della grande opera di bonificazione della fine dell’Ottocento si registrò un timido avvio della diffusione di scuole infantili, legato alle modifiche del tessuto sociale e alle nuove esigenze produttive.
All’alba del nuovo secolo, l’istruzione fu il terreno di uno scontro politico sempre più acceso, all’interno di un ampio progetto di costruzione di una rinnovata società proprio dell’esordiente partito socialista; il sapere, a partire dall’età infantile, divenne lo strumento per la formazione di una coscienza di classe sempre più necessaria per l’emancipazione delle masse popolari dallo stato di inferiorità in cui si trovavano.
RF, 2012
Bibliografia
Storia della famiglia italiana 1750-1950, a cura di Marzio Barbagli e David I. Kertzer, Bologna, il Mulino, 1982; La famiglia italiana dall’Ottocento ad oggi, a cura di Piero Melograni, Roma-Bari, Laterza, 1988; Franco Cambi, Simonetta Ulivieri, Storia dell’infanzia nell’Italia liberale, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1988; Andrea Pizzitola, Infanzia e povertà. Custodia, educazione e lavoro nella Ferrara preunitaria, Firenze, Manzuoli 1989; Infanzia in Padania: condizioni educative e scuola nell'area padana tra ’800 e ’900, a cura di Giovanni Genovesi, Ferrara, Corbo, 1993.