Alla fine del Settecento l’agronomo Domenico Vincenzo Chendi (1710-1795) – nato a Formignana, parroco di Tresigallo – descriveva il ciclo della trebbiatura, o meglio, della tipica tibbia ferrarese fatta sull’aia con le cavalle, rapportandolo al vitto degli addetti. Ai cavallari si offriva, la sera precedente, una buona cena e miglior vino, mentre la mattina prima di iniziare il lavoro e condurre le cavalle sulla paglia si dava loro dell’acquavite, quindi la colazione, così come ai tibbionci, che si sfamavano con una suppa ed un paneto ciascuno; infine, il pranzo: minestra, piattanza e due paneti, oltre a un paolo (10 bajocchi) a testa come pagamento e vino, adacquato bensì, ma schietto poi ai cavallari, a loro piacere – aborrendo essi l’acqua come malsana… Queste erano le spese degli uomini che lavoravano sopra l’aja; il pane non doveva mai mancare.
A vantaggio dell’economia e della povertà, che spesso non aveva che pane secco e polenta ammuffita, Chendi consigliava di far seccare al sole o nel forno e conservare in vasi non solo i frutti raccolti durante l’estate (mele, pesche, cotogne, pere…) e soprattutto quelli che cadevano tante volte dai fruttari, ma anche i pesci dolci catturati nei fossi e nei canali, luzzi e zangarini che, una volta salati, si potevano conservare a guisa di baccalà, benché non fossero sempre buoni per i delicati.
La povertà, il crescente impoverimento del regime alimentare popolare segna tutto l’Ottocento: patate e mais sfamavano i contadini; il frumento – per lo più convogliato nei mercati urbani – e la carne erano prodotti di lusso.
Il quadro generale dell’alimentazione popolare del XIX secolo si può leggere nei risultati dell’Inchiesta Jacini «sulle condizioni della classe agricola», che supportano l’analisi della materia partendo dal dato certo che lo stato dell’alimentazione è collegato direttamente all’ambiente sociale. Nell’introduzione alla pubblicazione dei risultati dell’inchiesta agraria (1881), l’ideatore del progetto – il conte lombardo Stefano Jacini (1826-1891), politico ed economista, poi senatore del Regno – sottolineava i punti fondamentali del rapporto tra ambiente sociale e alimentazione in questi termini: «Pessime abitazioni, vitto malsano, acqua potabile putrida, salari derisorii e per conseguenza pauperismo e malattie». Una situazione che necessitava di immediati interventi, tra cui un «codice sanitario che, coi criteri del medico associati a quelli dell’agronomo» includesse il tema dell’igiene e salubrità degli alloggi, delle acque e dei «commestibili posti in vendita», provvedimenti che, comunque, non sarebbero bastati a migliorare la situazione igienica delle «classi povere di campagna, ad eliminare la causa delle loro sofferenze più acute». Certo, il tipo di alimentazione cambiava a seconda dei luoghi e delle classi, «secondo la potenza produttiva locale», così nella «fertile» Ferrara, dominata dal «sistema della boaria pura», l’alimentazione si presentava «piuttosto infelice». Mezzadri, boari e affittuari erano occupati tutto l’anno, quindi la loro alimentazione, anche se non abbondante, era abbastanza variata: oltre a frumento, mais e vino, una volta alla settimana sulla loro tavola c’era la carne. Se la situazione del boaro era migliore di quella del mezzadro parziario e di molti proprietari «minimi», esisteva una differenza in peggio, definita da Jacini «mostruosa», rispetto all’alimentazione del «giornaliero» (il bracciante), che mangiava «malissimo», ma non tutto l’anno. Nel tempo dei lavori agricoli il suo vitto diventava «discreto o possibile», poiché era uso che il proprietario, oltre al salario, gli desse il «vinello che, per quanto infimo», sollevava più dell’acqua (malsana). Di contro, nei tempi di «ozio obbligato» il vitto del bracciante si riassumeva nella dura regola «polenta e acqua» e, a volte, legumi. Le diversità nell’alimentazione dei lavoratori dipendevano dal calendario agricolo ed erano proporzionali alle fatiche: i cibi più nutritivi andavano consumati quando il lavoro era più pesante: «il pane, la minestra, il vino e la carne (quando se ne mangi)» erano usati in estate – specialmente per la mietitura, la falciatura, la macerazione della canapa – mentre «la polenta, i legumi, il vinello» erano riservati alla stagione invernale.
Nel 1901 le spese quindicinali riferite agli alimenti per le famiglie dei giornalieri e per altre categorie dipendenti comprendevano: 25 kg di farina gialla, 2 kg di riso, 2,5 kg di fagioli, olio comune e lardo, sale, aceto e pepe. E, durante l’inverno, i più poveri si riversavano sulle rive del Po – la citazione è riferita a Berra – cercando una tuberosa «volgarmente chiamata maramagna» per potersi sfamare (dal periodico socialista «La Scintilla»).
Tale regime alimentare – la “gastronomia della miseria” – era alla base della diffusione delle malattie dette “popolari” per la pesante incidenza di massa: la malaria, la tubercolosi, il tifo, il colera e, soprattutto, la pellagra, dovuta all’alimentazione a base di mais. Tra le poche iniziative avviate per arginare la piaga sociale, rientra la creazione delle “locande sanitarie”, comparse a Ferrara solo nel 1900. Le locande, aperte qualche decina di giorni all’anno, provvedevano una dieta composta da 250 grammi di pane, 160 grammi di carne, 100 grammi di minestra, un decilitro di vino.
Il pane – eccellenza dell’alimentazione del Ferrarese, al primo posto nella dieta delle locande sanitarie e che ancora alla fine dell’Ottocento rappresentava più dell’80% dell’alimentazione degli italiani –, si preparava generalmente in casa, seguendo un rito antico fatto di gesti e ritmi ripetuti nei secoli. Se ancora alla fine dell’Ottocento il pane bianco di farina di grano era un lusso, ai primi del Novecento divenne più comune. Veniva impastato sulla spartura (parte della madia) e cotto di norma una volta al mese, poi, in tempi di condizioni economiche migliori, una volta alla settimana. Oltre alla classica “coppia” si preparavano pani rustici insaporiti con la cipolla o con ciccioli di maiale. Terminata la cottura del pane, a forno ancora caldo toccava ai prodotti “da mezzo calore”: cipolle, patate, zucche (i cui semi cosparsi di sale diventavano brustoline).
Con la carestia sempre in agguato, i governi che si susseguirono nel Ferrarese emanarono ordini ed editti anche a protezione del contrabbando dei grani. Verso la fine del delicato triennio rivoluzionario (1796-99), per esempio, in un momento in cui il gelo e la scarsità di acqua impedirono il funzionamento regolare dei mulini sul Po collocati tra Pontelagoscuro e Francolino, un ordine della Municipalità del 7 fiorile anno VII (25 aprile 1799) impose che i soli capifamiglia potessero acquistare il pane, presentandosi personalmente e dichiarando il numero di persone di cui si componeva il proprio nucleo famigliare. Nell’età della Restaurazione (quando il governo pontificio iniziò la vendita dei mulini galleggianti sul Po), è documentata la confezione del triste “pane di mistura” o “pane succedaneo”, preparato con farine di cereali minori – orzo, segala, frumentone – miste a patate lessate, o a farina di ghiande mescolata a quella di castagne. Nel 1863 fu aperto a Ferrara il primo “forno sociale” per favorire le classi meno agiate, iniziativa ostacolata sei anni più tardi dall’applicazione della “tassa affamatrice dei popoli”, che indusse i mugnai a boicottare le macine a causa della tassa sul macinato (Legge n. 4490, 7 luglio 1869), gradualmente abolita solo dal 1880. Verso la fine del XIX secolo le agitazioni sociali legate ai cambiamenti delle condizioni lavorative, alle bonifiche e alla prima industrializzazione, portarono a una serie di scioperi ai quali nel 1897-98 aderirono anche i fornai, presenti in città con 35 “forni” e dieci rivenditori (nel 1915 si registreranno 42 panifici e 19 rivenditori). Nei giorni della “rivolta del pane” il Comune mise in vendita il prodotto – diverse pezzature tra cui la classica “coppia” (ciupéta) – a propria cura nella chiesa nuova (Sala Estense) di piazza Municipale: tra i numerosi avvisi pubblici che comunicavano l’iniziativa, in quello del 21 maggio 1897 si evidenziava che in quella sede il Comune vendeva il pane a 40 centesimi il chilo, ma acquistava la stessa quantità dalla “Società Esercenti Fornai” per 48 centesimi.
La cultura alimentare del Ferrarese è anche legata alla forte presenza delle acque mediante i prodotti della pesca (dall’anguilla ai lucci, tinche, carpe, cavedani…) che, insieme alle rane catturate nei mesi estivi in zone paludose, arrivavano nei mercati locali a prezzi accessibili per finire sulle tavole dei meno abbienti.
In città i pubblici esercizi di venditori di commestibili tra il 1860 e il 1880 si concentravano per buona parte nella strada della Rotta o del Monte Vecchio (oggi via Garibaldi): beccai che offrivano bovini, gallinaccio, agnelli e castrato, smerciatori di pasta e farine, di pane, castagne, una frigitrice di pesce e fruttivendola… mentre tra le osterie e le bettole, nella stessa strada, Domenico Maestri esercitava un minuto smercio di vivande ad uso privato, avvertendo, con una nota nell’insegna, che qui si riceve ordinazioni per pranzi nelle case.
E coloro che “potevano”? Il manuale Cucina Pratica Ferrarese (Milano, Bietti, 1896) presenta ricette con trionfi di carne (stufato a rolò; pagnotelle ripiene di ragù di vitello e funghetti), fritti (fritto di stecchetti: quadretti di polenta ripieni di funghetti o trifola, prosciutto, formaggio da pasteggiare), dolci (cappelletti di marzapane). La carne è ancora in primo piano nelle due ricette conservate tra le lettere della nobile ferrarese Eleonora Saracco (?-1900): una con la complicata lavorazione della lingua salata, l’altra che illustra la carne cotta alla Svizzera. Il consumo di carne e di grassi era più alto in città, ma comunque prerogativa delle classi più abbienti.
Infine un passo indietro, ancora alla fine del Settecento, quando il già citato Chendi “codificava”, oltre i salami coll’aglio – tanto comodi per una famiglia in campagna –, i salami da sugo, altra eccellenza della cucina ferrarese, da confezionare in vesciche, gossi di pavone, stanteché riescono belli, tondi, e ben caldi, da portare in tavola insieme alla minestra e da tagliare subito per far uscire fuori il succo piccante che l’agronomo suggerisce di versare nella minestra per darle un salutifero condimento che satolla e rallegra, concludendo che tra li castighi di Dio … uno è la privazione di sì gustoso, e delicato saluberrimo cibo. La classica salamina è celebrata nel “poemetto giocoso” La Salameide (1772) dello storico ferrarese Antonio Frizzi (1736-1800).
AG, 2011
Bibliografia
Stefano Jacini, I risultati della inchiesta agraria, intr. di Giacomina Nenci, Torino, Einaudi, 1976; Carlo Lega, Civiltà contadina nell’alto ferrarese, Ferrara, Editrice Universitaria, 1983; Carla Ticchioni, L’alimentazione, in Storia Illustrata di Ferrara, a cura di Francesca Bocchi, Milano, Aiep, 1989, pp. 1057-1072; Angela Ghinato, Andrea Samaritani, Paolo Righi, Ferrara e il pane. Un viaggio lungo settecento anni, Monteveglio (Bologna), Atlante, 2007; Angela Ghinato, La piazza viva, «Bollettino della “Ferrariæ Decus”», 27, 2011, pp. 33-64.