Partecipanza agraria

Notificazione per l’iscrizione alla divisione dei capi del 1818 Notificazione per l’iscrizione alla divisione dei capi del 1818 tratto da: Dal Cinquecento al 2000: di padre in figlio attraverso le Divisioni della Partecipanza di Cento, mostra e catalogo a cura di Euride Fregni e Patrizia Busi, Cento, 1991

«Nelle province degli ex Stati pontifici e dell’Emilia, le università agrarie, comunanze, partecipanze e le associazioni istituite a profitto delle generalità degli abitanti di un comune, o di una frazione di un comune, o di una determinata classe di cittadini per la coltivazione o il godimento collettivo dei fondi, l’amministrazione sociale di mandrie di bestiame, sono considerate persone giuridiche.

Gli utenti ai quali sia stata o sarà assegnata la proprietà collettiva dei fondi ai termini degli art. 3 e p della legge 24 giugno 1888 n. 5489, sono, per virtù della presente legge costituiti in associazioni, considerate ugualmente persone giuridiche».

L’articolo 1 della Legge portante l’ordinamento dei domini collettivi nelle province dell’ex Stato pontificio del 4 agosto 1894, pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» del Regno il 5 settembre successivo, mentre stabiliva l’assetto dei dominî collettivi nelle province ex pontificie, riconosceva alle Partecipanze la piena personalità giuridica.

Le vicende dell’antichissimo istituto della locale Partecipanza Agraria si fondono in particolare con la storia di Cento, in terre rese produttive dal lavoro solidale degli uomini di un’intera collettività, uomini che “partecipano” a periodiche ripartizioni di lotti di terreno i quali, tutti insieme, formano un patrimonio comune. Il diritto alle distribuzioni proviene dalla discendenza dei destinatari da quelle famiglie che in origine formarono il primo gruppo di beneficiari, uso praticamente irrevocabile fino al possibile riscatto definitivo, un’affrancazione tramite il pagamento di una certa somma concordata.

La storia si snoda tra l’XI secolo – quando presero forma i primi insediamenti tra le paludi e le valli – e oggi, con la Partecipanza nata dalla ridistribuzione delle terre ai “capisti” decretata il 22 febbraio 1484 dal lodo del cardinale Giuliano della Rovere (poi papa Giulio II) dopo una momentanea sospensione. Secoli segnati prima dalla necessità di autonomia vivamente sentita da quella comunità, poi dal confronto con le acque, dall’esigenza di risanare il territorio con cui imparare a convivere. Oltre al Reno e al Panaro, numerosi corsi minori incrementavano le paludi in un paesaggio di canneti e boschi che ostacolavano la messa a coltura ma che offrivano risorse per il sostentamento degli abitanti (caccia, pesca, raccolta): terre produttive e ordine idrico del territorio sono i frutti della costante e faticosa bonifica. Non solo: gli obblighi e le responsabilità di cui erano investiti i gruppi coinvolti, ebbero in seguito un forte peso sull’evoluzione dei rapporti sociali e sulle vicende politiche.

Il ricordo di secoli di impegno nella gestione del territorio resta in alcuni toponimi come Dosso, Poggetto e Poggio (Renatico), mentre altri ricordano il corso impetuoso del Reno che scorreva a ovest di Cento: Renazzo, Corporeno, Reno Centese, via Reno Vecchio. Tra le opere di bonifica più impegnative, infatti, fu lo spostamento dell’alveo del Reno tra Cento e Pieve, terminato alla metà del XV secolo.

In questa ottica sono da leggere le vicende che hanno contraddistinto le terre del Centese, dall’accordo (1185) con il vescovo di Bologna e i centopievesi, che videro riconosciuta una loro rappresentanza comunale a condizione che il territorio fosse bonificato secondo un tracciato unitario e secondo le caratteristiche della zona. In una specie di “condominio territoriale”, da quel momento i canali si trasformarono in strade e gli insediamenti sui dossi emergenti si popolarono grazie alle enfiteusi (affitti) di terreni paludosi e boschivi concesse per lo più da enti ecclesiastici aventi la giurisdizione sull’area (vescovo di Bologna e abbazia di Nonantola) sia per renderli produttivi, sia perché era loro proibito vendere le proprietà. Le clausole peculiari dei contratti erano sempre le voci ad meliorandum – “migliorare” i terreni e metterli a frutto – e ad incolandum, cioè l’obbligo di residenza in loco. Dal momento in cui le terre davano i primi raccolti, un decimo di questi spettava al proprietario.

Se le attuali località di Corporeno e Buonacompra vedevano già completata l’opera di bonifica nel 1267, la zona detta “Malaffitto” presentava problemi maggiori a causa delle bizze del fiume Reno che vagava nel territorio rendendolo acquitrinoso, motivo per cui il toponimo originario Buonaffitto cambiò in Malaffitto, a significare il basso interesse proveniente dall’investimento in quell’area. Al XIV secolo circa risale la sistemazione del territorio che ancora oggi segna fortemente la zona secondo un disegno urbanistico razionale e geometrico – da Renazzo a Casumaro – ideato e realizzato dalla comunità, aggiornato ogni vent’anni nel momento delle ripartizioni dei lotti di terreno.

La terra, poca in verità rispetto a chi la abitava ma elemento fondante della società, era divisa in appezzamenti detti “morelli”, ciascuno delimitato da capezzagne di accesso tutte in direzione est-ovest, tutte distanti tra loro circa 192 metri. Il reticolo era attraversato da una “via Maestra” che partendo da Renazzo incrociava perpendicolarmente le capezzagne. Le periodiche suddivisioni definirono sempre di più la zona come spazio urbanizzato mediante la costruzione di case affacciate sulle piccole strade che attraversavano longitudinalmente l’area, dividendola in fasce della stessa larghezza. Tutte orientate verso sud, tutte della stessa forma, le abitazioni venivano costruite al limite del campo coltivato (per sfruttare la terra, senza sprechi), secondo la tipologia della “corte aperta”. I materiali per la costruzione erano quelli offerti dal luogo: dapprima argilla cruda per i mattoni, paglia e canne, in seguito mattoni cotti, legno per i solai, le scale e le coperture; le singole case furono poi completate, nel tempo, con un forno, un pozzo e una “casella” per conservare la canapa lavorata. Decisiva per i caratteri del paesaggio fu l’introduzione, tra Sei e Settecento, della coltura, appunto, della canapa, la cui prima lavorazione venne affiancata alle tradizionali attività agricole.

Quando Cento fu elevata al rango di città (1754) l’istituto della Partecipanza venne svincolato dal Comune che ne deteneva l’amministrazione (ma per le delibere riguardanti la Partecipanza non erano ammessi al voto i consiglieri che non ne facevano parte). Per decreto dell’amministrazione centrale dell’Alta Padusa, la separazione fu sancita ufficialmente il 12 febbraio 1796. Tuttavia, per intervento del prefetto del Dipartimento del Reno del regno napoleonico d’Italia, il 1° settembre 1807 i beni della Partecipanza furono ancora inglobati in quelli comunali, ma il 25 maggio 1814 un nuovo dispositivo del prefetto del Basso Po riconosceva che le terre dei partecipanti erano proprietà dei singoli, restituendogliele con il permesso di rinnovare le distribuzioni ventennali.

Dopo il 1815, il capo dell’amministrazione comunale nominava un Consiglio direttivo per la Partecipanza, con la facoltà di scegliere nella sua cerchia un’assunteria con poteri esecutivi. Con l’aumento dei consiglieri “fumanti” (non originari del luogo) che superarono il numero dei partecipanti in Consiglio comunale, nel 1834 si annunciò la possibilità di un Consiglio autonomo: tre anni dopo, il 7 aprile 1837, il prolegato mons. Caggiano istituì il nuovo consesso della Partecipanza, che nel 1867 avanzava la richiesta al Ministero dell’Interno per potersi convocare in Consiglio generale ed eleggere un comitato che avrebbe gestito autonomamente l’istituto. Quel tipo di conduzione proseguì fino al 1894, quando la legge citata in apertura decretava la personalità giuridica della Partecipanza. Per disposizione del prefetto di Bologna, inoltre, dal 18 settembre 1874 era già cessato ogni controllo, poiché le Partecipanze erano state dichiarate “private comunioni di beni”.

L’Ottocento è costellato da precise normative e regolamenti riguardanti l’incisiva realtà della Partecipanza: per esempio, veniva riaffermata l’esclusione dei non abitanti a Cento (1818), mentre i centesi abitanti a Ferrara potevano accedere al beneficio delle assegnazioni solo se residenti entro le mura (1839). Tra i regolamenti, quello pel servizio dei cursori comunali all’amministrazione della Partecipanza di Cento (approvato dal Consiglio nella seduta del 14 dicembre 1885), con gli articoli 1 e 2 affidava ai cursori comunali di Renazzo – per «tutti i beni compresi nella divisione di Malafitto Centese, esclusa la Frazione dell’Alberone di sopra» – e di Casumaro – per i terreni facenti parte «di Casumaro, di Alberone e di Reno Centese» – la sorveglianza dei territori della Partecipanza; le norme per lo scavamento della terra, fabbricazione, cottura dei mattoni ed esercizio delle fornaci nei terreni della Partecipanza di Cento (ratificate dal Consiglio il 14 dicembre 1885) prevedevano, tra l’altro, che chi voleva costruire fornaci «per fabricar mattoni» doveva farne domanda all’amministrazione indicando la località scelta per la fornace e «la cava della terra», la quantità dei mattoni cotti o crudi che si intendeva produrre, se per uso privato o commerciale; la normativa inerente l’atterramento delle piante sui terreni divisibili di Casumaro e Malaffitto centese (approvata il 14 dicembre 1885), proibiva ai partecipanti o possessori di capi l’abbattimento di «piante verdi» sulle terre da loro «usufruite» senza averne ottenuto la licenza dalla Magistratura, che l’avrebbe concessa nei casi di «maturità o aridità» delle piante, secondo la «convenienza o necessità dell’abbattimento, nell’interesse dell’agricoltura». E, ancora, furono dati alle stampe il Regolamento per la nomina della rappresentanza dei partecipanti di Cento (13 giugno 1884) e una successiva Appendice (28 novembre 1893), lo Statuto organico e regolamento disciplinare della Partecipanza di Cento, riformato a norma della citata legge n. 397 del 4 agosto 1894 (28 settembre 1895).

Alle controversie di carattere giuridico, discussioni e dispute che in certi momenti hanno minato l’esistenza della Partecipanza, questa ha sempre risposto mettendo in primo piano la stabilità di un’istituzione antica che, maturando nel tempo, ha saputo adeguarsi ai tempi, radicata profondamente nella cultura locale. Autonomia e solidarietà, condivisione e progettazione, lotta contro la palude e contro gli attacchi della privatizzazione, salvaguardia del territorio sono i presupposti del patto di famiglia che regge da secoli, nonostante i fisiologici cambiamenti, la Partecipanza Agraria di Cento.

AG, 2011 

Bibliografia

Rolando Dondarini, La Partecipanza di Cento, in Storia Illustrata di Ferrara, a cura di Francesca Bocchi, Repubblica di San Marino, AIEP, 1987, vol. I, pp. 273-288; Bruno Andreolli, Le regole della Partecipanza tra conservazione e innovazione, in Cento e la Partecipanza Agraria, a cura di Carlo Poni, Antonio Samaritani, Ferrara, Corbo, 1999, pp. 48-63; Alessandro Tassinari, Il segno organico della Cento dei “capi”, ivi, pp. 621-631; Antonio Samaritani, La Partecipanza Agraria del Centopievese nella genesi e nelle vicende del comune rurale locale (sec. XII) sino all’avvento della dominazione estense (a. 1502), Partecipanza Agraria di Cento, 2004. I Regolamenti citati sono stati consultati nel sito www.partecipanzacento.it

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