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Clima e suoli

L’osservazione delle oscillazioni climatiche nel Ferrarese iniziò nell’ultimo scorcio nel XIX secolo, con l’installazione di due stazioni per la misurazione della temperatura dell’aria che, fino alla metà del Novecento, avrebbero costituito gli unici centri di osservazione meteorologica della provincia. La prima fu installata a Ferrara nel 1878, la seconda a Codigoro nel 1890 e permisero, così, di cominciare a calcolare la variazione stagionale delle temperature; una stazione pluviometrica, in grado di determinare la quantità di precipitazioni nel corso dell’anno, funzionava a Ferrara già dal 1865. Una raccolta sistematica dei dati sulla piovosità nella provincia, tuttavia, ebbe luogo soltanto a partire dalla fine del secolo: nell’Atlante fisico-economico d’Italia, pubblicato nel 1940, veniva riportata per la pianura ferrarese una piovosità media di 700 mm l’anno, calcolata sulla base delle osservazioni in dodici stazioni pluviometriche nel periodo 1896-1930.

Nella seconda metà dell’Ottocento, qui come nel resto del continente, si rilevò una progressiva mitigazione del clima che fu evidenziata dalla diminuzione delle precipitazioni nevose, peraltro sempre esigue, e dall’aumento delle temperature medie, in coincidenza con l’esaurimento del periodo climatico definito “piccola era glaciale” (1600-1850). Le conseguenze di questo mutamento si riscontrarono soprattutto nel cambiamento dei meccanismi di sedimentazione dei corsi d’acqua e del loro effetto nella formazione e nell’accrescimento del litorale. Nei periodi freddi, infatti, l’azione sedimentaria dei fiumi è molto più intensa, mentre decresce il livello delle acque marine, portando così all’ampliamento della pianura alluvionale nei confronti del mare. I periodi caldi, invece, e per la diminuita attività di sedimentazione e per l’aumento, seppur ancora contenuto, del livello del mare, innescano processi di erosione della costa, come del resto si è riscontrato per tutto il Novecento anche sul litorale ferrarese.

Un elemento climatico che ha sempre caratterizzato la pianura ferrarese è l’umidità che risulta molto elevata, dai massimi invernali ai minimi estivi, durante tutto il corso dell’anno. Questa caratteristica, causa di dense nebbie, è strettamente legata alla natura del territorio, ricco di acque sia in superficie, sia nel sottosuolo. Il miglioramento del drenaggio dei suoli, ottenuto attraverso le opere di bonifica, non fu infatti sufficiente a ridurre l’umidità, proprio per la prossimità della falda alla superficie.

La regione costiera è caratterizzata da un clima più mite, con minore escursione delle temperature e piovosità inferiore ai 600 mm annui, soprattutto nella zona a nord del Po di Volano.

Al principio del Novecento gli studi sulla nuvolosità compiuti da Filippo Eredia stabilirono che il territorio ferrarese, oltre che per la nebbia, si collocava al primo posto nella Valle Padana anche per l’intensità delle nuvole. Se i mesi peggiori erano novembre e dicembre, la nuvolosità risultava pure intensa e pressoché identica da febbraio a maggio, ponendo grossi limiti alle possibilità dell’agricoltura, soprattutto degli ortaggi e della frutta.

Dal punto di vista della composizione del suolo, l’apparente omogeneità morfologica del territorio ferrarese nasconde in realtà profonde differenze nella pedologia dei terreni che comportano notevoli variazioni nella fertilità delle terre coltivabili. Le molteplici vicende dell’evoluzione idrografica, unite ai periodici eventi alluvionali e all’azione dell’uomo, infatti, differenziarono notevolmente la qualità dei terreni. I suoli migliori per l’agricoltura erano quelli di medio impasto, in cui l’argilla risultava mescolata in maniera proporzionale alla sabbia fina e alle sostanze organiche: questi terreni erano diffusi soprattutto nella pianura centro-occidentale e rappresentavano le aree più fertili e interessate dalla coltivazione sin dai tempi antichi, le cosiddette terre vecchie.

Man mano che la percentuale di argilla nel terreno aumentava, l’attività agricola diveniva più difficoltosa. Erano questi i terreni indicati come forti: interessavano le depressioni poste fra i dossi fluviali, dove le acque di esondazione stagnavano sedimentando gli elementi più sottili; in questi terreni, dato il basso livello igrometrico, era praticabile soltanto un’agricoltura asciutta che, inoltre, richiedeva arature molto profonde e capitava molto di frequente che queste aree venissero destinate al pascolo degli animali, data anche la naturale tendenza ad allagarsi nei periodi di maggiore piovosità.

Man mano che si procede in direzione del mare si incontrano terreni torbosi e sabbiosi. La torba o cuora è diffusa soprattutto nella regione della Grande Bonificazione Ferrarese e nel Polesine di San Giorgio. Tipica di tutta la bassa pianura padana e veneta e legata ai processi di trasformazione delle lagune costiere, la torba consiste in uno strato, impregnato d’acqua, che varia dai 30 ai 60 centimetri e che rende assai poco fertile il terreno; è costituita da resti vegetali non decomposti e non ancora trasformati in carbone fossile. A causa della costipazione del suolo e dell’eccessiva presenza d’acqua, la pratica dell’agricoltura in queste terre risulta molto difficoltosa: una maniera per avviare la coltivazione era quella di sollevare, tramite arature molto profonde, l’argilla sottostante lo strato torboso, così da permettere il mescolamento delle sostanze minerali con quelle organiche, rendendo fertile il suolo. Un’alternativa era quella di destinare i terreni torbosi a risaia, il che oltretutto, attraverso l’introduzione di sostanze minerali presenti nell’acqua di allagamento, aumentava la fertilità dei terreni. Terreni forti o torbosi caratterizzavano i suoli delle cosiddette terre nuove, quelle che soltanto i grandi investimenti della bonifica e le moderne tecnologie di coltivazione potevano consegnare a un’attività agricola proficua.

I terreni prossimi alla costa, come pure vaste aree lungo il corso del Po (ad esempio il Polesine di Casaglia) sono invece caratterizzati da una consistente percentuale di sabbia, superiore al 50%, e vengono in questo caso definiti terreni sciolti. Le aree sabbiose, come quelle torbose, non sono particolarmente idonee alle pratiche colturali, a meno di non procedere ad un’intensa concimazione del terreno. Nel secondo Ottocento, soprattutto nel cordone litoraneo più esterno, in luogo dell’antico Bosco Eliceo, si diffuse la pratica del vigneto, favorita dalla presenza di concime dei vicini allevamenti e dall’abbondanza di acqua meteorica che penetrava nel terreno sabbioso, creando uno strato di acqua dolce sopra la falda salmastra di origine marina.

MP, 2011

Bibliografia

Mario Ortolani, La pianura ferrarese. Memorie di geografia economica, Napoli, Tip. R. Pironti, 1954; Dina Albani, Caratteristiche climatiche dell'Emilia-Romagna: contributo agli studi per il Piano regionale di coordinamento, Bologna, Tip. Compositori, 1958; Terre ed acqua: Le bonifiche ferraresi nel delta del Po, a cura di Anna Maria Visser Travagli, Giorgio Vighi, Ferrara, Corbo, 1989.

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